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Introduzione
Biellesi e Andornesi! I cacciatori delle Alpi vi debbono una parola
d’affetto e di gratitudine. Accoglietela, generose popolazioni, e sia
essa il pegno di indissolubile nodo che presto riunirà gli italiani dalla
Patria di Archimede a quella di Pietro Micca.
Giuseppe Garibaldi, 20 maggio 1859
Nel presentare questo lavoro vorrei citare un passo che mi sono appuntato sul
finire del 2010 in occasione della proiezione di uno dei pochi film a tema risorgimentale
prodotto dalla nostra industria cinematografica:
Fra poco il cuore cesserà di battere ed è curioso che adesso non m’importi più di lasciare i
miei eterni problemi insoluti: il mondo è eguale a come l’ho trovato nascendo, sordo e falso.
Non saprò mai se agendo diversamente, con più accortezza e minore orgoglio, non avrei
meglio giovato alla realizzazione delle idee che ancora credo giuste. […] Non ho taciuto né
risparmiato nulla, infanzia, gioventù, famiglia, amicizie, le mie responsabilità e quelle degli
altri. Le ho passate al setaccio e non ho rintracciato l’errore in cui siamo caduti, l’inganno
che abbiamo tessuto senza volerlo. Pisacane seppe far meglio e se sbagliò trovò
misericordia nella morte. Io l’aspettavo a Montefusco e lei passò via, dandomi
appuntamento su questo letto di vecchio. Ma io non conto, eravamo tanti, eravamo insieme,
il carcere non bastava; la lotta dovevamo cominciarla quando ne uscimmo. Noi, dolce
parola. Noi credevamo...
Con queste parole si chiude il libro di Anna Banti, Noi credevamo, da cui è stato tratto il
film omonimo di Marco Martone. Il lungometraggio è un segno evidente - tra i tanti -
del fervore culturale che, in vista del 150° anniversario dell’unificazione italiana, ha
investito la società civile, molti intellettuali, artisti e studiosi contemporanei,
risvegliando l’interesse per quelle straordinarie vicende che, in meno di un triennio
(1859-1861), hanno portato alla formazione del Regno di Italia, smentendo ogni
aspettativa.
Dovendo scegliere un argomento per la tesi di laurea, in un clima di rivisitazioni
e di revisioni profonde del nostro Risorgimento, in un periodo di forte contestazione da
parte dei movimenti localistici, della storiografia clericale e del cosidetto revisionismo
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neoborbonico o duosiciliano - di cui sono pieni i siti web, ma non altrettanto le
biblioteche - mi è venuto naturale orientarmi verso uno dei suoi protagonisti principali,
Giuseppe Garibaldi.
La cifra del Risorgimento, spogliata da ogni retorica, resta, come si evince dal passo
citato, quella del fallimento, della delusione, della sconfitta.
Nosontante ciò, come ben ha evidenziato il presidente della Repubblica Giorgio
Napolitano il 17 marzo 2011 a Montecitorio nella seduta comune del Parlamento, in
occasione delle celebrazioni del 150° anniversario dell’Unità d’Italia, l’ideale
repubblicano e democratico, fortemente propugnato da Garibaldi e dagli “idealisti
disciplinati” che lo seguirono, ha infine prevalso, sebbene con un secolo di ritardo.
Siamo dovuti passare attraverso due guerre mondiali e un ventennio di dittatura, per
realizzare (anche se in forma approssimativa, verrebbe da dire alla garibaldina, o meglio
all’italiana) «le idee che ancora credo giuste».
Durante la stesura del testo ho sempre avuto in mente l’idea di coniugare la
“piccola” storia locale con quella nazionale, allo scopo di dimostrare l’importanza del
contributo di una confinata realtà di provincia, come quella del Biellese nell’Ottocento,
nel processo di unificazione italiano. Ho scelto il punto di vista garibaldino sia per
affinità ideali col personaggio, sia perché, tra i protagonisti del Risorgimento che in
qualche modo hanno avuto a che fare con Biella, è stato quello localmente studiato di
meno. La bibliografia di personalità-chiave, quali Quintino Sella e Alfonso La
Marmora, è molto ampia, e ha solleticato la curiosità di più generazioni di storici e
studiosi, biellesi e no. Anche altre figure locali, a torto considerate minori, sono state
recuperate e messe in evidenza nel corso degli anni, per culminare nel volume Il
Biellese nell’epopea del Risorgimento, edito nel 1961 per il centenario dell’Unità. Dei
garibaldini biellesi e delle memorie che Garibaldi ha lasciato nel territorio, si è invece
parlato poco.
Le prime testimonianze ufficiali del passaggio di Garibaldi in città sono coeve. Il
garibaldino Francesco Carrano diede alle stampe, già nel 1860, un volume sui
Cacciatori delle Alpi che costituisce ancora oggi la fonte primaria di tutti i racconti
ripresi dai molti biografi e commentatori successivi.
Un’altra testimonianza di “prima mano” è quella di Luigi Guelpa, avvocato mazziniano,
difensore degli operai biellesi durante gli scioperi di fine secolo, che assistette all’arrivo
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di Garibaldi e ne dette conto in numerose occasioni. Se si esclude l’eco suscitata dalla
morte dell’eroe, ripresa dalla stampa locale nel 1882 e per tutto il lustro successivo (è
del 1886 l’inaugurazione a Biella del primo monumento a Garibaldi), bisogna aspettare
i primi anni ’20 del Novecento per trovare qualcuno che si interessi ai ricordi lasciati dal
condottiero nizzardo sul territorio. Alessandro Roccavilla stese un fondamentale
articolo nel 1922, agli albori del fascismo, pubblicato sulla Rivista Biellese. A
quell’epoca Garibaldi era conteso da destra e sinistra e l’intervento di Roccavilla si
proponeva come un semplice resoconto, una cronaca spicciola «raccolta sulle labbra di
pochi superstiti di quei giorni fortunosi, raffrontata con documenti e pubblicazioni
sincrone».
Dieci anni dopo, nel 1932, nel numero speciale dell’Illustrazione Biellese,
dedicato al cinquantenario garibaldino, a cura di studiosi quali Luigi Bonino, Camillo
Sormano, Antonino Olmo e Mario Rosazza, apparve il primo tentativo di dare un
quadro completo degli eventi garibaldini in terra biellese. Nell’ottica di segnare il
garibaldinismo - anche locale - non come movimento democratico repubblicano solo
tatticamente alleato alla monarchia, ma come prefigurazione vera e propria del
fascismo, i curatori - pur estendendo un resoconto esaustivo dei fatti e dei temi collegati
alla presenza garibaldina nel Biellese - tralasciarono molti elementi importanti che
avrebbero visto nuova luce soltanto nel secondo dopoguerra.
A parte qualche contributo in occasione del centenario del 1861 (Trivero,
Torrione et al.) bisognerà aspettare la fine delgli anni Novanta del ventesimo secolo
perché un altro studioso prenda in mano la materia e ne approfondisca soprattutto gli
aspetti economici e di costume. In una serie di brillanti articoli, pubblicati dal 1999 al
2007 sulla Rivista Biellese, Diego Presa ha rinverdito la tradizione garibaldina legata al
territorio illustrando le vicende che precedettero e seguirono l’avvento di Garibaldi a
Biella.
Insieme a Presa, per quanto riguarda gli studi sui garibaldini biellesi, è d’obbligo citare
il compianto Tavo Burat (Gustavo Buratti, 1932-2009) che, raccogliendo
documentazione dispersa, e schierandosi sempre dalla parte degli ultimi, ha pubblicato
sulla Rivista Biellese un fondamentale articolo sull’argomento. Nonostante gli sforzi di
questi autori, tuttavia, a tutt’oggi non esiste ancora un’esposizione completa e ragionata
dell’esperienza garibaldina sul territorio biellese.
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Ho tentato di colmare questa lacuna mettendo insieme il vasto materiale raccolto
dagli studiosi citati, integrandolo con nuove ricerche d’archivio, cercando il più
possibile di “far parlare i documenti tra di loro” e servendomi di un’ampia pluralità di
fonti, non tralasciando quelle provenienti dalla tradizione popolare, quali canti, poesie e
racconti orali.
Nel primo capitolo, introduttivo, ho cercato di delineare brevemente la figura di
Garibaldi, inserendola nel contesto locale e sottolineando gli aspetti salienti della sua
biografia. Ho tralasciato, per ovvie esigenze di tempo e di spazio, quelli legati alla sua
vita privata, che tuttavia già ai suoi tempi suscitarono un interesse popolare quasi pari a
quello riservato alla sua vita pubblica.
Il secondo paragrafo del primo capitolo analizza la formazione politica di Garibaldi,
toccando anche punti ancora poco esplorati, come, per esempio, la sua affiliazione alla
Massoneria. Il terzo ricostruisce la storia del mito dell’eroe, principalmente sulla base
degli studi di Riall e Isnenghi, soffermandosi sui due elementi che lo caratterizzano
maggiormente: l’inno e la camicia rossa.
Sempre nel tentativo di contemperare il discorso sia a livello locale sia globale, ho
cercato di fare una storia dell’emblema simbolo del garibaldinismo - la camicia rossa,
appunto - pescando in varie biografie, anche coeve, per poi analizzare e descrivere le
fasi relative alla tessitura della stoffa che servì a confezionarle, fasi in cui furono
coinvolte anche alcune manifatture biellesi.
Conclude il primo capitolo un’analisi dettagliata del garibaldinismo, basata su
molteplici fonti, sia coeve sia recenti.
Il garibaldinismo, a partire dal ’48-49, fu una sorta di movimento politico senza partito
e senza rappresentanza in parlamento, ma contribuì in maniera determinante - se non
esclusiva - grazie alla generosità dei molti volontari che vi aderirono, e a prezzo di
cocenti delusioni e sangue versato, all’unificazione del nostro Paese.
Il secondo capitolo è dedicato al territorio, al contesto geografico, politico ed
economico in cui si svolsero gli avvenimenti che saranno poi trattati nel terzo (il
passaggio di Garibaldi a Biella). Dopo un veloce sguardo “dall’alto”, che delinea la
complessa geografia del Biellese (un terzo montagna, un terzo collina e un terzo
pianura), mi sono soffermato sul suo sviluppo industriale a partire da metà Settecento
sino a fine Ottocento. La storia del distretto tessile biellese è stata studiata a fondo da
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storici quali Castronovo, Quazza, Ramella, ecc.; sulle loro orme ho tentato di tracciare
un profilo, mi auguro esauriente, dell’espansione industriale che investì il Biellese in
quegli anni e che lo portò a essere uno dei centri produttivi di eccellenza del nuovo
Stato unitario.
Tale situazione doveva esser ben conosciuta da Garibaldi, tanto che quando passò da
Biella, nel maggio 1859, in occasione della seconda guerra d’indipendenza, il generale
maggiore dei Cacciatori delle Alpi poté intessere rapporti di tipo commerciale con
molte ditte biellesi, per la fornitura di stoffe, scarpe e cappelli destinati
all’equipaggiamento dei suoi soldati. Da questi primi contatti nacque inoltre
l’occasione, per le fabbriche biellesi, di produrre la stoffa per le camicie rosse della
Spedizione dei Mille (1860).
Il terzo capitolo, quello centrale, è dedicato al racconto del passaggio dell’eroe
dei due mondi in terra biellese.
Dopo una necessaria premessa sulla seconda guerra d’indipendenza, ho ricostruito, in
chiave “garibaldina”, la storia dei primi mesi del 1859 a Biella, tratta in massima parte
dai giornali locali, dalle lettere del vescovo Losana, dagli ordinati dei Consigli comunali
e dalle lettere dei sindaci di alcuni Comuni del Biellese conservate nell’archivio di Stato
cittadino, dalla letteratura coeva e dai lavori che ho reperito durante la ricerca
bibliografica.
Ho dedicato il secondo paragrafo a una delle fonti principali del mio studio: L’Eco del
Mucrone - settimanale locale di stampo liberale - riferendo tutte le notizie che sono
riuscito a trovare circa quella pubblicazione e sottolineando l’importanza della stampa e
dei nuovi mezzi di comunicazione di massa che si diffusero a partire da metà Ottocento:
il telegrafo e la ferrovia.
Il terzo paragrafo descrive le guerre d’indipendenza e quella contro il brigantaggio dal
punto di vista di tre soldati biellesi, umili fantaccini strappati al lavoro dei campi e alle
loro famiglie per combattere al servizio di una causa che molti di loro non
comprendevano fino in fondo. Segue un paragrafo dedicato ai volontari che affluirono a
Biella in vista della guerra, e ai cacciatori delle Alpi che, accolti dall’entusiasmo
popolare, proprio da Biella partirono per combattere le battaglie decisive di San Fermo
e Varese.
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Un paragrafo è dedicato agli austriaci - sempre con un occhio attento alla condizione dei
soldati - che invasero Biella per un giorno, l’8 maggio 1859, provenienti da Vercelli,
chiedendo preoccupati notizie dell’imminente arrivo di “Caripalta”.
Ho riservato il paragrafo conclusivo del terzo capitolo agli avvenimenti relativi alla
permanenza di Garibaldi a Biella, a fine maggio 1859. Garibaldi entrò in città,
proveniente da San Germano, con circa 3500 soldati, in treno. La ferrovia Biella-
Santhià era stata inaugurata solo tre anni prima. Dopo aver collocato due compagnie
sulle sponde del torrente Cervo, accolto dalla folla festante, l’eroe contattò subito le più
importanti autorità cittadine, il sindaco e il vescovo. Spese un pomeriggio intiero per
visitare la casa natale di Pietro Micca, nell’alta valle del Cervo, scrisse due proclami (ai
biellesi e ai lombardi), prese contatti con i notabili più in vista, tra cui molti industriali,
e ripartì in direzione di Gattinara, per passare il fiume Sesia nei pressi di Romagnano.
Fu una visita breve, ma lasciò un’impronta indelebile nei cuori dei biellesi.
Il quarto capitolo è dedicato ai garibaldini, alle persone in carne e ossa che
seguirono Garibaldi e che in qualche modo ebbero un rapporto con la città di Biella e il
suo circondario. Di alcuni di loro ho fornito brevi notizie biografiche, servendomi
soprattutto dell’importante lavoro di schedatura fatto dall’Archivio di Stato di Torino
nell’ambito del progetto Alla ricerca dei Garibaldini scomparsi. Tramite poi
informazioni provenienti dall’ambito locale, tratte da articoli, pubblicazioni d’epoca e
recenti, ricerche d’archivio e di campagna, effettuate su lapidi e monumenti sparsi per il
territorio, sono riuscito a compilare un elenco - di sicuro incompleto - che comprende
112 nominativi. Un risultato che smentisce la tesi di una scarsa adesione al movimento
garibaldino da parte della popolazione biellese, sostenuta da molti autori, specie nel
periodo fascista.
Nel 1861 Biella ospitò la divisione “Medici”, reduce dalla battaglia del Volturno,
composta da circa 850 soldati, tra ufficiali e bassa forza. Nel paragrafi 4.2 e 4.3 sono
riportate le vicende che portarono all’acquisto del convento di San Sebastiano per farne
una caserma che potesse ospitare anche i garibaldini. Completano il racconto vari
episodi, tratti dalle biografie di alcuni di loro, che contribuirono a “vivacizzare” la
tranquilla vita cittadina, improvvisamente sconvolta dalla presenza di tanti soldati
provenienti dall’ormai disciolto Esercito Meridionale.
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Ho dedicato un intero paragrafo, credo importante, al coté garibaldino di un
grande protagonista biellese del Risorgimento: Quintino Sella. La sua storia umana e
politica sembrerebbe porlo agli antipodi del garibaldinismo. Invece, da molti documenti,
in particolare dalla sua corrispondenza con Candido Augusto Vecchi, conservata negli
archivi della Fondazione Sella, emerge più volte la sua sincera ammirazione per il
grande nizzardo e il suo desiderio di arruolarsi tra i volontari in occasione delle
campagne del ’48-49 e della terza guerra di indipendenza del 1866.
L’ultimo capitolo verte sul tema della memoria, delle tracce, dei segni del
passaggio dell’eroe e dei suoi volontari che si possono leggere ancora oggi nel territorio
preso in esame. Lapidi, monumenti, intitolazioni di vie e commemorazioni varie sono
l’oggetto di questo capitolo. In particolare mi sono soffermato sull’analisi di come abbia
reagito la comunità biellese alla notizia della morte di Garibaldi, nel 1882, e sulla storia
del primo monumento a lui dedicato (servendomi del fondamentale apporto dello
studioso Gianni Valz Blin).
Conclude il capitolo - e il lavoro - una disamina sulle varie manifestazioni organizzate
nella provincia di Biella, dedicate agli anniversari garibaldini, con uno speciale
riferimento al 150° anniversario dell’Unità d’Italia.
Tra le tante strade che portarono Garibaldi a combattere per la libertà - a
“menare le mani”, come spesso scrive nelle memorie e nei romanzi - ho concentrato
l’attenzione su quella che passa per Biella, piccola città solo apparentemente isolata,
evidenziando gli episodi di storia locale con una particolare attenzione al punto di vista
“dal basso”. Ho cercato di dimostrare come il garibaldinismo lasciò la sua impronta sul
territorio, anche dopo la morte dell’eroe, creando una tradizione che, con alti e bassi, si
è mantenuta viva fino ai giorni nostri, nonostante il cliché che vorrebbe i biellesi tutti
dediti agli affari e poco interessati alle questioni sociali.
Ringraziamenti
Approfitto di questo spazio “canonico” per ringraziare una sola persona, Diego
Presa, che mi ha incoraggiato e sostenuto per più di un anno. E per dedicare la tesi,
disobbedendo alle convenzioni, a mia madre Mirella Ferrari (1950-2010), impiegata, e a
mio padre Mario (1947-2011), giornalista, morti entrambi di cancro durante lo
svolgimento di questo lavoro.
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Note di consultazione
ASBI Archivio di Stato di Biella
ASCB Archivio Storico della città di Biella
AST Archivio di Stato di Torino
FFP.FF Fondo Federico Rosazza. Fondazione Famiglia Piacenza di Pollone
FS Fondazione Sella
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Primo capitolo
GARIBALDI
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1.1 - Una vita da combattente
Ingenuamente, un uomo aveva fiducia negli uomini, credeva al loro
Avvenire. E, miracolo o mistero, quel canto non lo si può soffocare.
Max Gallo
Giuseppe Garibaldi nacque nel 1807 a Nizza, allora francese, da una famiglia di
commercianti marittimi emigrati dalla Liguria. Nizza si sarebbe riunita al regno di
Sardegna solo nel 1815, all’indomani del Congresso di Vienna, per ritornare poi alla
Francia in seguito all’armistizio di Villafranca nel luglio del 1859.
A otto anni dunque divenne suddito, o meglio regnicolo – come si diceva allora – di
casa Savoia.
Crebbe parlando il dialetto ligure ed ebbe come seconda lingua il francese. Nella sua
vita di viaggiatore cosmopolita parlò e scrisse in italiano sempre con qualche difficoltà
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.
Aveva dodici anni quando con altri tre ragazzi fuggì da Nizza per andare a Genova a
bordo di una piccola imbarcazione. Riacciuffato a Monaco, fu ricondotto a casa e
punito.
Suo padre, capitano marittimo di seconda classe, aveva cercato di indirizzarlo gli
studi giuridici sognando per lui una carriera forense o ecclesiastica. Il ragazzo però non
si sentiva portato per questo genere di studi e, assecondando il suo istinto avventuroso,
seguì le orme paterne e prese la via del mare.
A quindici anni si imbarcò come mozzo sul brigantino Costanza, battente bandiera
russa, diretto sul Mar Nero per prelevare un carico di grano. Si spinse fino a Odessa e
poi a Taganrog, sul Mar d’Azov.
Ritornato a Nizza accompagnò il padre, proprietario del battello Santa Reparata, in
viaggio verso Roma in occasione del Giubileo. Navigarono lungo le coste tirreniche
trasportando un carico di vino ed entarono a Roma risalendo il Tevere, facendo trainare
l’imbarcazione da un gruppo di buoi. Il soggiorno nella città eterna colpì molto il
giovane Garibaldi che, in età avanzata, scriverà come Roma gli apparve la futura
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Nato in un ambiente plurilingue dove francese, italiano, e nizzardo e ligure costituivano le lingue e i
“patois” dell’infanzia, possiamo ipotizzare che Garibaldi conoscesse una lingua speciale che si parlava
solo nel Mediterraneo e nei suoi porti: la lingua franca, sabir o petit mauresque, un pidgin che consentiva
ai marinai di intendersi in tutto l’antico Mare Nostrum, cfr. sull’argomento il testo della conferenza del
prof. Nando Romano, dal titolo Garibaldi: lingua, storia e società, consultabile su internet al sito:
http://www.iltechnologies.net/garibaldi/html/IT/lingua%20esocieta.htm (2011).