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CAPITOLO 1
LA MEDIAZIONE INTERCULTURALE
“In ogni situazione di coesistenza inter-etnica si sconta
in principio, una mancanza di conoscenza reciproca, di
rapporti, di familiarità. Estrema importanza positiva
possono avere persone, gruppi, istituzioni che si collochino
consapevolmente ai confini tra le comunità conviventi e coltivino
in tutti i modi la conoscenza, il dialogo, la cooperazione...”
Dal Decalogo della convivenza, Alexander Langer, novembre 1994
La mediazione interculturale è un servizio che nasce in risposta all'esigenza di fare fronte in modo
adeguato al fenomeno dell'immigrazione, e a tutti i problemi che ne conseguono, spesso, per una
scarsa capacità di gestione da parte delle istituzioni e dei servizi sociali.
Fino agli anni '70 l'Italia è stata rinomatamente un paese di “emigranti”, le prime leggi
sull'immigrazione nascono solamente alla fine degli anni '80 (legge 943/1986 e “legge martelli”
39/1990), fino alla legge 40/1998 “Turco-Napolitano”, con cui si sancisce un testo unico di
regolamentazione dell'immigrazione1. Successivamente, la legge 189/2002 («Bossi-Fini»), “accanto
alle politiche di integrazione e di tutela dei diritti fondamentali, propone una serie di modifiche in
senso restrittivo delle norme sull’ingresso e sul soggiorno, prevedendo ad esempio la riduzione
della durata dei permessi di soggiorno, la riduzione del tempo utile per trovare un nuovo lavoro ai
fini del rinnovo del permesso - ottenibile solo mediante la garanzia del datore di lavoro nei
confronti del lavoratore e dello Stato - precise limitazioni ai ricongiungimenti familiari, e il
prolungamento dei tempi di permanenza nei CPT.”2 Pertanto, la questione “intercultura” non viene
percepita che da poco nel nostro Paese, e da poco di fatti nascono queste nuove figure di mediatori
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I dati sono ripresi dal testo Fenomeni e politiche migratorie: un quadro per la formazione alla tutela dei diritti dei migranti, a
cura di Ilaria Possenti, in P. Consorti, Tutela dei diritti dei migranti, Pisa, Plus, 2009, pp. 79-97
L'ultimissima legge 94 del luglio 2009, sul pacchetto di sicurezza, riguarda invece il reato di clandestinità: viene vietato
l'ingresso clandestino in territorio italiano, pena la reclusione dai 6 mesi ai 4 anni, o una multa dai cinquemila ai diecimila euro;
inoltre viene portato il limite di permanenza nei CPT a 180 giorni.
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ibidem
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interculturali che di norma trovano impiego nel Terzo Settore, nel privato sociale, appoggiandosi a
strutture come associazioni o cooperative e sviluppando progetti per l'accoglienza e la tutela dei
diritti degli immigrati. Ma cosa significa interculturale? Dietro a questo termine ci sono dibattiti con
diverse posizioni, anche se tutt'oggi manca una definizione chiara e vi è ancora molta incertezza.
L'idea sviluppata dall'antropologia che esista una “pluralità di culture” ha creato una rottura con la
precedente visione ottocentesca di “storia di un'unica civiltà”, ma l'idea di pluralità viene affrontata
in almeno due modi diversi.
Il primo, è quello che possiamo chiamare multiculturalismo, e che può sfociare anche in
“neorazzismo culturale”, che legge la cultura come una monade a se stante, come qualcosa di rigido
e chiuso verso l'esterno (nel multiculturalismo le culture stanno “accanto” l'una all'altra, senza
interrelazioni; ecco perchè se estremizzato può tendere, banalizzando la complessità della
comunicazione tra culture diverse, al neorazzismo, alla separazione cioè di ciò che è semplicemente
diverso entro una serie di relazioni, entro le quali è sorto e può in linea di principio mutare).
Il secondo invece legge la cultura non come un' identità chiusa, ben definita e tendenzialmente
statica, di cui l'individuo sarebbe il passivo “portatore”, ma come un'identità aperta e in divenire,
che è il frutto di relazioni e che crea relazioni, un repertorio di possibilità cui l'individuo si
rapporta nella gestione delle proprie esperienze: questa è l'intercultura3. Gli individui, al centro di
relazioni con se stessi e con l'esterno, si trovano continuamente ad affrontare contraddizioni che li
portano ad accettare, rifiutare o modificare i propri sistemi culturali di riferimento: nel caso
dell'immigrazione, questo processo è evidente.
Il neologismo “intercultura” tiene conto del concetto di “società complessa”.
Nel campo delle scienze naturali, la fisica quantistica ci insegna che il nostro universo è un sistema
basato sull'intreccio di sistemi complessi, ed anche le società, di qualsiasi natura o regno, sono
complesse; la comunicazione, le relazioni, i sistemi economici, politici, sono complessi.
Complesso significa per l'appunto intrecciato con se stesso (cum-plexus), concetto che si ricollega a
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Testi di riferimento: ibidem
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quello di rete, se vogliamo già sviluppato da millenni ad esempio con la “rete di indra” nella
tradizione buddista. Ma in senso pratico, cosa vuol dire vivere in questi sistemi? O meglio, essere
questi sistemi?
Tutto sta, secondo alcuni scienziati del “Terzo pensiero”4, nel fatto che questi sistemi vivano
nell'omeostasi, nell'equilibrio, grazie alle loro capacità di trasformazione e autorganizzazione. Tutto
questo è reso possibile dallo stato di margine del caos in cui vivono, uno stato che si tiene al limite
tra l'isomorfismo, la staticità, e la dinamicità, creando continui passaggi, attraverso il caos, da
strutture che tendono a restare uguali, a cristallizzarsi, a strutture che si modificano quasi
impazzendo, per perdere l'equilibrio e poi ritrovarlo5.
Le nostre società in questo momento riflettono sempre di più questo andamento. I parametri di
riferimento, i modelli, le strutture e le sovrastrutture si stanno continuamente modificando, si stanno
sgretolando per riorganizzarsi con nuove forme. E queste, per dirla con Bauman , sono forme
“liquide”, dove la comunicazione continua crea incessanti rapporti di interazione.
Nel nostro secolo, anche in seguito ai processi migratori, si stanno intrecciando sempre
maggiormente i tessuti di tradizioni, culture, storie di popoli, che si mescolano autorganizzandosi in
sistemi nuovi, lasciando fluire ciò che di vecchio può essere lasciato con ciò che di nuovo può
essere accolto.
Ma non è così semplice né immediato a livello sociale riuscire a gestire tali processi. Quando sono
presenti situazioni di squilibrio o diseguaglianza, in particolare, essi possono accompagnarsi a vari
generi di conflitto, entro i quali sono chiamati in causa anche aspetti interculturali, interreligiosi, o
più da vicino, interpersonali e intrapersonali.
Servono allora strutture che favoriscano tali processi, e figure pronte a gestire l'insorgere delle
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Il cosiddetto Terzo Pensiero nasce intorno agli anni '40, formandosi attraverso l'esperienza di scienziati, pensatori, umanisti, che
hanno unito i vari campi dello scibile umano, per renderlo integrato, secondo una visione che andasse oltre l'olismo, e diventasse
ologrammatica (il tutto nelle parti, le parti nel tutto). Ciò significa interpretare l'universo partendo dalle scienze naturali, e
applicando il concetto di “rete” ad ogni sistema in cui viviamo, che sia complesso (diverso da un sistema complicato, che può
essere paragonato ad un origami, cioè qualcosa che semplicemente si “dispiega” ma che non è intrecciato). Questo pensiero è qui
ripreso facendo riferimento ai miei studi di tesi su Danilo Dolci e il Pensiero Complesso, in Verso un mondo Nuovo, Riflessioni
ed esperienze di Danilo Dolci, Laura Gadducci, Università di Pisa, elaborato finale, tesi, marzo 2008, a cura di Paola Bora.
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I testi di riferimento sono La sfida della complessità, a cura di Bocchi G., Ceruti M., Ed. Bruno Mondadori, 2007, Ilya Prygogine,
Ruelle, E. Laszlo.
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problematiche che si possono generare nel corso di questi mutamenti.
Il rischio percepito da individui e gruppi che, entro i processi di globalizzazione, hanno meno potere
o attraversano situazioni di crisi, è quello di perdere la propria identità; con l'immigrazione, il
rischio percepito è ancora più alto, poiché si teme di perdere anche i propri diritti di “nativi”, mentre
talvolta i migranti perdono effettivamente alcuni diritti fondamentali.6
Le relazioni tra popoli diversi e l'interazione tra le culture è storicamente un conflitto molto duro, si
pensi a tutte le guerre di “conquista”, alle invasioni, e alle colonizzazioni, ma, di fatto
l'interrelazione tra culture differenti è anche un processo fisiologico, che non deve destare
allarmismo, spesso invece incitato dalle retoriche sulla sicurezza dei mass media che usano
linguaggi di emergenza per giustificare pratiche escludenti nei confronti dell'immigrato.
Da poco, pertanto, ci sono nuove figure di riferimento, che in qualche modo cercano di creare uno
spazio terzo per la comunicazione tra culture e tradizioni diverse, su basi nonviolente per la
costruzione di un nuovo e migliore assetto sociale. Una comunicazione costruttiva, che vede il
conflitto interculturale come possibilità di scambio e di arricchimento, e non come momento
negativo e pretesto per escludere l'altro. Uno spazio quindi creato da figure specifiche, per gestire le
esigenze dei “nativi” e quelle degli “immigrati”.
Tra queste figure, molto importanti sono quelle dei mediatori e delle mediatrici interculturali, figure
professionali adatte a creare in un setting “neutrale” le condizioni per superare le difficoltà di
comunicazione che possono sorgere in presenza di differenze linguistiche, culturali e religiose, in
particolare quando vi sono condizioni di disagio che sono spesso causa di diffidenza verso l'altro.
Intorno alla figura del mediatore, come prima accennavo, vi sono però ampi dibattiti e incertezze;
basti pensare ai diversi nomi che assume questa figura a seconda dei contesti territoriali: “mediatore
interculturale”, “mediatore culturale”, “mediatore linguistico-culturale”, “tecnico esperto [o
qualificato] in mediazione”, o “interprete sociale”, come i corsi dell'ARCI Toscana, finanziati dalla
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Si pensi, per citare un caso concreto, e il primo che abbia effettivamente destato l'attenzione dell'opinione pubblica, a quanto
accaduto a Treviso con una ragazza ghanese arrestata dopo un intervento chirurgico volontario per abortire.
La legge ( art. 35 del Testo unico sull'immigrazione, op. cit.) di fatto prevede l'anonimato per chi richiede cure sanitarie,
pertanto il personale ospedaliero non è autorizzato a segnalare alle autorità la presenza di clandestini.
La denuncia o anche il semplice rischio di denuncia, provoca la perdita per l'immigrato clandestino, o del “sans papier” del
diritto alla cure sanitarie.
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Regione, definivano il mediatore. La varietà delle definizioni esistenti evidenzia come il nome, e di
conseguenza il profilo del mediatore, siano, ancora oggi, oggetto di discussione nella maggior parte
delle Regioni italiane, indicando la disomogeneità e frammentazione ad oggi esistenti.7 Partendo da
un teorico riconosciuto, Alexander Langer, possiamo provare a definire la distinzione fondamentale,
quella tra mediatore culturale e interculturale: partendo dal presupposto che la figura si pone come
ponte di collegamento e come creatore di opportunità di convivenza tra persone di culture diverse8,
la distinzione non è solo terminologica, ma si riferisce alla pratica di integrazione che si intende
attuare. La mediazione culturale sembra essere più “assimilativa”9, mentre quella interculturale vive
la relazione tra le diversità come momento di incontro e arricchimento, di intreccio e valorizzazione
delle parti, dove si crea uno scambio, e non dove c'è una parte attiva che “ingloba” l'immigrato
passivo.
Il mediatore interculturale quindi è una figura professionale che si sta ancora delineando e che
intorno a se ha ancora molta incertezza, ma che principalmente svolge attività di collegamento tra
persone immigrate e associazioni, strutture socio-sanitarie, servizi e istituzioni sia locali che
nazionali, con l'obiettivo di fornire risposte quanto più conformi alle esigenze di integrazione di
ogni singolo individuo, e creando spazi di co-municazione10 . Mentre l'incomprensione e la scarsa
conoscenza ed educazione all' alterità, possono far sorgere conflitti e dispute non solo culturali, ma
anche di ordine religioso, la condivisione di modelli interculturali può rappresentare una grande
risorsa quando armonia e collaborazione si incontrano in un progetto di convivenza e sviluppo di
nuove "comunità" a misura d'uomo, di qualsiasi provenienza esso sia.
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Progetto interregionale “Area umanitaria: operatori e operatrici di pace e mediatori/mediatrici interculturali”, La biblioteca
delle Regioni. Cfr. in particolare il Cap. 2 Il profilo e la formazione del mediatore interculturale, di Sandro Mazzi.
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E' già ad esempio importante riconoscere che la mediazione non avviene tra culture diverse, ma tra persone di culture differenti.
Questa semplice distinzione richiama un altro dibattito su “cosa siano le culture”, dove da una parte si tende appunto a
omogeneizzare persona e cultura, a creare un'identità, dall'altra invece si distingue tra la persona e la cultura di riferimento,
creando una relazione tra le due parti, ma non uguaglianza. All'interno del processo di mediazione, non tenere conto di questa
distinzione, significa rischiare di cadere in stereotipi e in “errori di giudizio” che possono creare incomprensioni e conflitti. Il
mediatore, per chi crede in un approccio interculturale e non multiculturalista, deve sempre tenere presente di dialogare con
persone, non con culture o religioni.
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Ibidem.
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il termine fa riferimento all' idea di co-municazione di Danilo Dolci, dove il termine rappresenta due parti attive che si mescolano
creando una condivisione di se stesse, e non invece il processo stereotipato di comunicazione come viene inteso ad es. dai mass
media (ma anche dalle teorie di comunicazione, dove vi è una parte emittente, un messaggio, ed una parte ricevente, che Dolci
chiama “trasmissione”), per distinguerla appunto da ciò che lui intende per co-municare. Danilo Dolci, Bozza di manifesto, dal
trasmettere al comunicare, Sonda Edizioni.