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7
avvenire nel rispetto di una normativa garantista ed improntata alla
stabilità del posto di lavoro
2
.
Col tempo, tuttavia, si è assistito ad un progressivo venir meno di
uno dei cardini del sistema italiano e cioè la conservazione del posto di
lavoro per l’intero arco della vita lavorativa, mentre, parallelamente, si è
avuta la nascita di forme di lavoro «flessibile»
3
.
Secondo un’opinione affermata, l’espressione «disciplina
flessibile del rapporto di lavoro» sta ad indicare la diversificazione o, per
meglio dire, la «modulazione», della disciplina del rapporto di lavoro
subordinato in ragione della presenza o dell’assenza di requisiti o
modalità della prestazione o del rapporto
4
. Si viene a determinare, in
questo modo, una attenuazione del codice protettivo previsto dagli artt.
2094 e ss. c.c., cioè una sottrazione di una norma o di un insieme di
norme sul lavoro subordinato alla fattispecie in esame.
2
Sul punto cfr. PEDRAZZOLI (a cura di), Lavoro subordinato e
dintorni, Bologna, 1989 e SANTONI, Rapporti speciali di lavoro, Torino,
1993.
3
Sul tema della flessibilità, BETTINI, FERRARO, HERNANDEZ, G.
SANTORO PASSARELLI, VULCANI E VALLEBONA, Relazioni svolte al
convegno sul tema “Flessibilità e rapporto di lavoro in Europa: esperienze a
confronto” (Roma, 27 febbraio 1998), in «Mass. Giur. Lav.», n. 2, pp. 356 e
ss. e n. 3 pp. 524 e ss., 1998; FERRARO, Fonti autonome e fonti eteronome
nella legislazione della flessibilità, in «Giorn. Dir. Lav. Rel. Ind.» 1986;
GHERA, La flessibilità, variazioni sul tema, in «Riv. Giur. Lav.» 1997, I;
GHERA (a cura di), Occupazione e flessibilità, Napoli, 1998 e REGINI,
Flessibilità, deregolazione e politiche del lavoro, in «Il Mulino», 1998.
4
SANTORO-PASSARELLI G., Rigidità e flessibilità nella disciplina del
rapporto di lavoro, relazione svolta al Seminario internazionale sul tema
Flessibilità e rapporto di lavoro in Europa: esperienze a confronto, tenuto il
27 febbraio 1998, presso la Libera Università Internazionale degli Studi
Sociali Guido Carli di Roma.
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8
Attraverso la flessibilità, cioè attraverso questa modulazione della
disciplina del rapporto subordinato, si cerca di rendere compatibile le
finalità di efficienza e competitività di un’impresa, con l’esigenza di
tutela e di protezione dei lavoratori
5
.
La diversificazione delle tutele nell’ambito del lavoro
subordinato tende a realizzare la temporaneità del vincolo obbligatorio,
attuando un aggiramento della maggiore delle rigidità normative del
rapporto di lavoro e, cioè, la limitazione del potere di recesso del datore
di lavoro.
Tuttavia, come è stato giustamente notato da una parte della
dottrina, il concetto di “flessibilità” nel diritto del lavoro ha un’accezione
particolare: quella di «deregolamentazione»
6
. Questo significa che,
quanto minore è la regolamentazione delle modalità di impiego del
fattore lavoro, tanto maggiore sarà la libertà lasciata alle parti di
organizzare il rapporto secondo le esigenze concrete, quindi, in una
parola, in maniera “flessibile”.
Per esprimersi con le parole utilizzate da un grande Autore, cui è
umilmente dedicata questa trattazione, «la norma più flessibile è, in
sostanza, quella che non interviene o che lascia ampi spazi di
derogabilità»
7
. Tutto quello che viene disciplinato, incontra, infatti, per
ciò stesso, una limitazione esterna difficilmente superabile.
5
V. REGINI, op. ult. cit.
6
SCIOTTI, Indagine critica sulla fattispecie lavoro temporaneo, in
«Dir. Lav.», 1999, p. 363.
7
HERNANDEZ, Il disegno di legge sui lavori “atipici”: verso nuove
forme di rigidità?, in «Dir. Lav.», 1999, p. 390.
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9
E’ interessante notare, inoltre, come, secondo altri, l’interesse
dell’imprenditore ad una temporaneità dei vincoli contrattuali ha anche
una ragione più strettamente ordinamentale, in quanto rappresenta, in
qualche misura, lo strumento attraverso il quale aggirare gli
inconvenienti che derivano dal fatto che il legislatore ha disciplinato ed
esaurito il lavoro nel binomio lavoro subordinato e lavoro autonomo
8
.
Nel nostro ordinamento, si è assistito, come accennato, ad una
vera e propria ascesa della disciplina vincolistica, a cominciare dagli anni
‘60. Prima con la legge sull’appalto di manodopera, poi con quella del
1962 sfavorevole al contratto a termine, poi ancora con quella del 1966
sui licenziamenti individuali, che riduce l’area del recesso libero del
datore di lavoro e successivamente con lo Statuto dei lavoratori, che
irrigidisce la disciplina del rapporto di lavoro sia nel momento iniziale,
che in quello conclusivo, prevedendo la reintegrazione del lavoratore in
caso di licenziamento ingiustificato.
Alla disciplina della reintegrazione occorre aggiungere un’altra
causa di rigidità costituita, sul versante della retribuzione,
dall’automatismo retributivo dell’indennità di contingenza e
dall’applicazione giurisprudenziale, limitatamente nel tempo, del
principio dell’onnicomprensività della retribuzione
9
.
8
SANTORO-PASSARELLI G., Misure contro la disoccupazione e tutela
del lavoro, in «Dir. Lav.» 1995, I
9
V. PERSIANI, La retribuzione tra legge, autonomia collettiva e
determinazione giudiziale, in «Quad. arg. Dir. Lav.», n. 2, Padova, 1998, negli
Atti dell’incontro di studio promosso dalla Confindustria, Roma, 3 febbraio
1997.
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10
I lavoratori subordinati sono visti come una fascia debole della
popolazione e le garanzie poste dalla legge non riguardano soltanto le
condizioni dell’ambiente in cui essi prestano la loro opera, ma,
soprattutto, mirano a dare una certa stabilità all’attività da loro svolta.
In tale contesto, sembrano passare in secondo piano le esigenze
delle imprese.
Una gestione economicamente vantaggiosa dell’attività
d’impresa comporta, infatti, la facoltà di variare e, soprattutto, ridurre, i
costi fissi a seconda delle esigenze della produzione e, inoltre, richiede il
continuo aggiornamento del know-how a disposizione della medesima
impresa
10
.
Si assiste, piuttosto, ad una espansione della fattispecie del lavoro
subordinato su due fronti: da un lato, l’estensione della visione
vincolistica ha rappresentato per i lavoratori un incentivo a rivendicare la
natura subordinata del rapporto, dilatando la fattispecie; dall’altro lato,
invece, il fatto che la disciplina del lavoro subordinato prescinda dalla
posizione di dipendenza economica e di debolezza contrattuale del
prestatore di lavoro, include, in tal modo, nell’area della relativa tutela,
ogni lavoratore, alla sola condizione che sia qualificato come lavoratore
10
In un mercato del lavoro totalmente flessibilizzato, infatti, le
imprese acquistano esattamente la quantità di forza lavoro che serve ai loro
programmi produttivi, adattandoli in tempo reale alle esigenze dei mercati di
sbocco dei prodotti. Ciò significa, tuttavia, che la flessibilità, in questa prima
fase, riduce l’occupazione piuttosto che aumentarla. L’incremento della
produzione viene in questo caso interamente alimentato dall’incremento della
produttività, non della forza lavoro occupata, che, pertanto, aumenta in misura
meno che proporzionale rispetto all’aumento della produzione.
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11
subordinato in senso tecnico, mentre esclude quei lavoratori che,
nonostante siano contrattualmente deboli, non possono essere qualificati
come subordinati in senso tecnico
11
.
Il conflitto tra interessi contrapposti diviene sempre più pressante
nel corso degli anni ‘70 e, all’inizio del decennio successivo, una certa
dottrina, seguita in parte dallo stesso legislatore, si schiera a favore
dell’introduzione di forme di lavoro caratterizzate da una maggiore
flessibilità.
Non può certo negarsi che il superamento della concezione
precedente non sia stato favorito anche dal processo di integrazione
europeo, che ha sottolineato l’indisponibilità delle autorità comunitarie a
tollerare l’uso delle imprese pubbliche come strumenti di governo
dell’economia ed ha contribuito ad affermare la tesi fondamentale
secondo la quale l’intervento pubblico non può sostituire le leggi del
mercato nel ruolo di guida del processo economico, ma deve unicamente
dettare delle regole al mercato, per evitare che esso perda concorrenza e,
con essa, l’efficienza
12
.
La finalità é quella di ottenere uno scambio tra forme di lavoro
flessibile e maggiore occupazione o, almeno, di garantire, attraverso una
maggiore elasticità nell’impiego dei lavoratori, un recupero di fasce di
lavoratori marginali o sommersi.
11
SANTORO-PASSARELLI G., Misure contro la disoccupazione e tutela
del lavoro, in «Dir. Lav.» 1995, I.
12
V. le proposte di ALLEVA e D’ANTONA, in La disciplina del
mercato di lavoro, (a cura di GHEZZI), Roma, 1996.
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12
Negli anni ‘80, sotto la spinta di una profonda crisi economica
indotta dallo shock petrolifero, che aveva causato un innalzamento
repentino del tasso di inflazione, si assiste a numerosi interventi
legislativi, frutto anche della concertazione tra le parti sociali e il
Governo di quegli anni
13
.
La politica di contenimento del costo del lavoro si manifestò,
inizialmente, con interventi legislativi che ridussero direttamente certi
emonumenti retributivi – ad es. la legge n. 91 del 1977, che azzerò
l’indennità di contingenza ai fini del calcolo dell’anzianità – e,
successivamente, con provvedimenti legislativi di flessibilizzazione della
disciplina e del tipo del rapporto – ad es., la legge n. 863/1984, che ha
istituito una nuova forma di contratto di formazione e lavoro.
La stessa legge n. 863/1984 introduce, per la prima volta nel
nostro ordinamento, il contratto a tempo parziale, così come i contratti di
solidarietà, finalizzati a ridurre l’orario di lavoro e la retribuzione, per
evitare i licenziamenti e promuovere nuove assunzioni.
La legge 28 gennaio 1987, n. 56, dal canto suo, conclude la c.d.
liberalizzazione del contratto a termine, capovolgendo l’originario
orientamento di sfavore verso questa tipologia contrattuale.
Proseguendo l’analisi, negli anni ‘90, si assiste ad un ulteriore
intervento del legislatore, che ha eliminato, in materia di collocamento, la
chiamata numerica, prevedendo una chiamata successiva all’assunzione,
13
Cfr. GHERA, La flessibilità, variazioni sul tema, in «Riv. Giur.
Lav.» 1996.
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13
fino a giungere, con la legge del 24 giugno 1997, n. 196
14
,
all’introduzione del lavoro temporaneo, ovvero di quell’istituto
considerato da taluno come la fattispecie in cui la flessibilità si manifesta
più compiutamente, in quanto esso dovrà rendere più versatile il
reclutamento del fattore lavoro per il tempo strettamente necessario alle
esigenze produttive, senza sostenere i costi derivanti dalla stabilizzazione
del rapporto.
La volontà manifestata dal legislatore di superare
l’anelasticità che caratterizza il nostro sistema giuslavoristico ha,
tuttavia, assunto nel tempo, come è stato notato dalla dottrina, una
certa contraddittorietà
15
. Questa ambiguità deriva, in primis,
dall’introduzione, come strumento di flessibilizzazione, di molti
istituti del lavoro subordinato, della c.d. flessibilità “normata”
16
o
“negoziata”, ad opera delle parti sociali. In secundis, si assiste al
tentativo di regolamentare le tendenze evolutive emergenti dal
mercato come risposta alle esigenze di flessibilità, andando quasi
a cristallizzare un complesso di fenomeni utili ai bisogni della
produttività solo in quanto adattabili alle diverse necessità delle
imprese. Il legislatore, agendo in tal modo, pone in essere
esclusivamente, come è stato autorevolmente rimarcato, delle
14
V Cap. I, sez. III.
15
Sul punto, SCIOTTI, Indagine critica sulla fattispecie lavoro
temporaneo, in «Dir. Lav.», 1999.
16
Tale espressione è stata utilizzata da HERNANDEZ, in Il disegno di
legge sui lavori “atipici”: verso nuove forme di rigidità?, cit., p. 391, che
aggiunge: «Se la legge si sostituisce al contratto, proponendosi di realizzarne
– di volta in volta –gli obiettivi attraverso la previsione normativa, essa non
pecca soltanto di astrattezza, ma riduce o esclude l’area dell’autonomia»
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14
«risposte inflessibili ad un’esigenza di flessibilità»
17
del sistema.
L’evoluzione del mercato del lavoro richiedeva, quindi, un
ulteriore intervento in senso innovativo.
A tale decisiva svolta si arriva con il disegno di legge collegato
alla Finanziaria 2002, contenente la “Delega al Governo in materia di
mercato del lavoro”, deliberato dal Consiglio dei Ministri il 15 novembre
2001, figlio diretto del c.d. Libro bianco, presentato nell’ottobre 2001 dal
Ministro del Lavoro e delle Politiche Sociali Maroni e finalizzato a
rinnovare il mercato del lavoro italiano in senso liberista.
La legge delega (legge 14 febbraio 2003 n. 30, la c.d.
Legge Biagi) subirà, tuttavia, una rilevante modificazione. Come
noto, infatti, il disegno di legge originario conteneva anche altre
deleghe, in materia di incentivi all’occupazione, ammortizzatori
sociali, art. 18 dello Statuto dei Lavoratori ed arbitrato, che sono
state stralciate nel giugno del 2002, inserite in un separato
provvedimento (S/848bis) e che hanno poi formato in parte
oggetto del c.d. “Patto per l’Italia” del 5 giugno 2002.
17
Così HERNANDEZ, Il disegno di legge sui lavori “atipici”: verso
nuove forme di rigidità?, cit., p. 391, il quale, tuttavia, prosegue notando
come si debba riconsiderare, allo stesso tempo, la funzione del diritto del
lavoro: quella serie di “rigidità”, infatti, che sono servite, tutelando il
lavoratore, alla creazione delle «condizioni per un più sereno sviluppo della
persona, rischiano, oggi, di limitarla, deresponsabilizzandola eccessivamente,
rispetto alle effettive capacità acquisite». L’autore sottolinea, inoltre, che «ad
un lavoratore che ha ormai sufficientemente coltivato la sua persona non può
negarsi ogni possibilità di autoregolamentazione dei propri interessi con
riferimento specifico ai risultati che deve trarre dall’attività che svolge». V.
anche il contributo di PESSI, I rapporti di lavoro tra autonomia e
subordinazione nella prospettiva dell’integrazione europea, in «Riv. It. Dir.
Lav.», 1992.
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15
Nonostante questo travagliato iter, si arriverà all’attuazione
definitiva della legge 30/2003, con l’approvazione del d.lgs.
276/2003, pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale ed è entrato in
vigore il 24 ottobre 2003.
All’interno del quadro così delineato, la nostra attenzione
sarà rivolta ad un particolare istituto, la somministrazione di
lavoro, che costituisce uno dei punti cardine di tutta la riforma e la
cui evoluzione rappresenta proprio il filo conduttore di questa
trattazione.
Tuttavia, prima di analizzare la riforma del mercato del
lavoro, appare opportuno soffermarci su due fenomeni fortemente
toccati da essa, la mediazione e l’interposizione. Rispetto alla
prima, tracceremo gli aspetti storico-normativi che hanno portato,
dall’originario monopolio pubblico del collocamento ex legge 29
ottobre 1949, n. 264, alla liberalizzazione dell’intervento privato
nel mercato del lavoro, operato dal d.lgs. 23 dicembre 1997, n.
469.
Quanto all’interposizione, esamineremo, innanzi tutto, la
disciplina precedente al 1960, anno in cui fu emanata la legge n.
1369, che rappresenta quella che si potrebbe definire come la
«prima tappa» dell’evoluzione del fenomeno interpositorio. Dal
divieto di interposizione limitato al cottimo ex art. 2127 c.c., si
passa, infatti, a una estensione del divieto anche alle ipotesi
diverse dal cottimo.
Carattere fondamentale di questo primo gradino
dell’evoluzione dell’istituto della somministrazione è stato
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16
sicuramente quello della esclusione di qualsiasi figura di
interposizione nella fornitura di manodopera. Vigeva nel nostro
ordinamento, infatti, una totale diffidenza nei confronti del
fenomeno, considerato come un possibile strumento di elusione
delle tutele dei lavoratori.
Con la nascita di fenomeni quali la smaterializzazione dei
processi produttivi e l’esternalizzazione dell’impresa
18
, tuttavia, si
palesò l’obsolescenza normativa della legge n. 1369/1960.
Con il termine «smaterializzazione», si intende l’emersione
di fattispecie aziendali caratterizzate da un basso tasso di
strumenti materiali e da una inedita valorizzazione delle idee,
della conoscenza, dei contatti. Per «esternalizzazione», invece, si
fa riferimento a quella scomposizione dell’impresa derivante dal
progressivo acquisto all’esterno di beni e servizi realizzati da terzi
con gestione a proprio rischio.
Il problema sta proprio nella impossibilità della normativa
in materia di divieto di interposizione di adeguarsi alle mutate
esigenze produttive delle imprese.
Si assiste, quindi, all’apertura del sistema giuridico ad una
figura particolare di interposizione, realizzatasi sulla spinta della
crescente esigenza di flessibilità del lavoro.
18
Sul punto, si veda CORAZZA, L’outsourcing negli Stati Uniti
d’America. Spunti di comparazione alla luce dell’analisi economica del
diritto, in DE LUCA TAMAJO (a cura di), I processi di esternalizzazione,
Napoli, 2002, p. 183 ss.
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17
Si tratta del c.d. lavoro interinale, in forza del quale un
soggetto autorizzato dalla legge – detto agenzia –, somministra
temporaneamente il proprio personale dipendente ad imprese che
ne facciano richiesta, per il tempo stabilito.
L’introduzione del lavoro temporaneo segna il passaggio
alla «seconda fase» dell’evoluzione dell’istituto della
somministrazione di manodopera. Dalla chiusura totale
all’interposizione di lavoro, l’ordinamento va verso un’apertura,
tuttavia ancora in senso derogatorio rispetto alla legge n.
1369/1960, attraverso la legge n. 196/1997, che introduce il
lavoro interinale.
Nel secondo capitolo, in modo speculare rispetto a quanto
abbiamo fatto nella prima parte, analizzeremo i fenomeni della
mediazione e dell’interposizione nella fornitura di lavoro, questa
volta, però, alla luce della riforma del mercato del lavoro attuata
dal d.lgs. 10 settembre 2003, n. 276.
Pur nella incertezza di una normativa di recentissima
introduzione e, per taluni versi, da riformare o ancora da
precisare, analizzeremo, rispetto alla mediazione, il ruolo delle
Agenzie per il lavoro, così come delineato dal decreto.
In conclusione, tratteremo quello che potremmo definire
come il «terzo gradino» dell’evoluzione dell’istituto della
somministrazione di lavoro, realizzatasi con il d.lgs. n. 276 del 10
settembre 2003, attuativo della c.d. legge Biagi.
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18
La legge n. 196/1997, come detto, si caratterizzava per la
sua natura derogatoria rispetto alla legge n. 1369/1960. Questo
significa che permaneva, nel nostro ordinamento, il divieto di
interposizione, ma erano sottratte dalla sua sfera applicativa le
fattispecie descritte dalla legge n. 196/1997.
Con l’attuazione della legge Biagi, invece, l’ordinamento
passa da una situazione di totale sfiducia nei confronti del
fenomeno interpositorio, ad un’altra in cui, all’opposto, il
legislatore vede nella somministrazione uno strumento di
realizzazione delle esigenze occupazionali del mercato.
Proprio di questo mutamento di ordine di idee si tratterà
nel capitolo, cercando, per quanto possibile, di delineare i punti
differenziali tra la vecchia e la nuova disciplina.
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19
CAPITOLO I
MEDIAZIONE ED INTERPOSIZIONE
PRIMA DELLA RIFORMA DEL MERCATO DEL LAVORO:
EVOLUZIONE STORICO-NORMATIVA
SEZIONE I
IL DIVIETO DI MEDIAZIONE PRIVATA
SOMMARIO: I.1 Il monopolio pubblico del collocamento. – I.2 Crisi e riforma
del collocamento pubblico. – I.3 L’abrogazione del divieto di
mediazione privata.
I.1 IL MONOPOLIO PUBBLICO DEL COLLOCAMENTO
Il collocamento, che può definirsi come l’attività di
mediazione che favorisce l’incontro tra la domanda e l’offerta di
lavoro, costituiva, fino agli anni ’90 il perno centrale
dell’intervento pubblico nel mercato del lavoro. Con il tempo,
tuttavia, si assiste ad una duplice tendenza evolutiva in materia di
avviamento al lavoro: dapprima, incentrata sul monopolio
pubblico e statale, successivamente, basata sulla liberalizzazione
(controllata) e sul decentramento
19
. Analizzando brevemente le
tappe di questa evoluzione, occorre sottolineare come, già nel
periodo precorporativo
20
, l’attività di collocamento fosse
19
Sul punto, v. GHERA, Diritto del lavoro, Bari, 2003
20
Per una ricostruzione dell’esperienza precorporativa del
collocamento, si v. VENETO, Contrattazione e prassi nei rapporti di lavoro,
Bologna, 1974; LAGALA e VENETO, Lineamenti storici del collocamento, in
Osservatorio ISFOL, 1976; oltre che, ovviamente, HERNANDEZ, Lineamenti
storici del collocamento, in Atti del Convegno ISLE sul tema Orientamenti sul
problema del collocamento della manodopera, Milano, 1963 e RICCI,
Movimento sindacale e gestione del mercato del lavoro: il caso del
collocamento, in «Riv. Giur. Lav.», 1982.
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20
realizzata, insieme, da agenzie private con finalità lucrativa,
associazioni sindacali, strutture statali e comunali
21
.
Nella fase corporativa, invece, viene istituito in Italia il
monopolio pubblico del collocamento
22
.
Il collocamento, concepito come funzione pubblica, con il
conseguente divieto di mediazione privata anche se gratuita,
poteva essere svolto solo dalle organizzazioni sindacali
corporative, che, in quel contesto, erano dotati di personalità
giuridica di diritto pubblico.
Il sindacato, tuttavia, non riuscì a gestire completamente
l’intermediazione tra domanda e offerta di lavoro
23
, in quanto era
continuamente condizionato dalla differente capacità contrattuale
che possedeva nei vari settori di produzione o di mestiere e nei
21
Si tratta di quello che MAZZOTTA definisce «collocamento
sindacale o di classe», finalizzato ad evitare la concorrenza al ribasso fra i
lavoratori. Tuttavia, il limite di tale forma di collocamento derivava dal
diverso peso e dalla diversa forza che le varie associazioni possono avere nei
diversi settori produttivi, con la conseguenza che finiscono per essere
privilegiate nell’accesso al lavoro solo le “aristocrazie” dei lavoratori, a
discapito di quelli meno qualificati e più deboli. Cfr. MAZZOTTA, Diritto del
lavoro, Milano, 2002.
22
V. HERNANDEZ, Lineamenti storici del collocamento, in Atti del
Convegno ISLE sul tema Orientamenti sul problema del collocamento della
manodopera, cit. e RICCI, Movimento sindacale e gestione del mercato del
lavoro: il caso del collocamento, cit.
23
«Sul collocamento sindacale pesarono sfavorevolmente alcuni
atteggiamenti di immaturità politica che condussero i sindacati ad esercitare in
modo insoddisfacente la propria funzione, ad es. eccedendo nel ricorso
all’imponibile di manodopera o anche attraverso il boicottaggio, in
determinate zone, degli agricoltori e dei lavoratori recalcitranti (c.d. liste
nere), con gravi conseguenze per l’economia». Così, GHERA, Diritto del
lavoro, cit.
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21
diversi periodi di contrattazione
24
.
Sul piano internazionale, l’esigenza di realizzare l’incontro
tra la domanda e l’offerta di lavoro, eliminando le conseguenze
della mediazione privata, ed assicurando l’equa distribuzione
delle occasioni di lavoro fu perseguita dalla Organizzazione
Internazionale Lavoro (OIL), fin dalla prima sessione
(Washington, 29 ottobre – 29 novembre 1919).
La normativa italiana, dopo l’introduzione di uffici di
collocamento comunali, ma sottoposti al controllo statale (d.lgs.
17 novembre, 1918, n. 1911) ed il divieto di collocamento a titolo
oneroso (r.d. 19 ottobre 1919, n. 2214), ha provveduto ad
adeguarsi ai principi accolti nelle convenzioni OIL. Fu proprio in
questo quadro che si inserì la limitata esperienza dell’affidamento
del collocamento ai sindacati, cui si accennava in precedenza, in
quanto si affermava l’idea che in materia vi fosse implicato un
interesse generale. Tuttavia, poiché i sindacati di diritto pubblico
erano stati disciolti e i nuovi sindacati erano associazioni private,
si trasferì la funzione ai nuovi uffici all’uopo costituiti (r.d. 11
febbraio 1944, n. 31)
25
.
24
Tradizionalmente, i sindacati ambiscono ad esercitare funzioni in
questo campo. In alcuni paesi anglosassoni, essi vi sono talora riusciti,
ottenendo l’inserzione ei contratti collettivi di clausole, denominate di closet
shop, in base alla quali gli imprenditori si obbligano ad assumere soltanto
lavoratori iscritti ai sindacati firmatari del contratto. Sul punto, v. SUPPIEJ,
Diritto del lavoro: il rapporto individuale, Milano, 1998.
25
Questi sono ufficialmente definiti «uffici del lavoro e della massima
occupazione» e, nella pratica, «uffici di collocamento». V. SUPPIEJ, Diritto
del lavoro: il rapporto individuale, cit.