1
INTRODUZIONE
La nuova urgenza di conoscenze complesse
In diversi campi le scienze dell’uomo e della natura si sono aperte al confronto con l’esigenza di un
nuovo tipo di interdisciplinarietà, con il bisogno di far incontrare i saperi muovendosi in direzione
opposta alla tradizionale tendenza alla specializzazione frammentante. Questa apertura è il portato
dell’emergere di una nuova visione, un nuovo paradigma che attraversa tutti i settori della
conoscenza umana: la prospettiva epistemologica che si definisce, a partire dagli scritti di Edgar
Morin, come ‘complessa’.
La storia della scienza occidentale, fondata sugli esperimenti di Galileo e sulle leggi del moto
newtoniane, aveva condotto alla credenza che tutta la realtà fosse scritta secondo un codice
matematico e geometrico, che l’universo fosse un’immensa macchina dove ogni cosa possiede una
sua regolarità perché sottoposta a leggi eterne. Era una prospettiva deterministica che considerava la
natura un grande libro leggibile traducendo tutti i fenomeni in linguaggio matematico: ogni cosa
poteva essere potenzialmente spiegata attraverso qualche principio elementare, e tutto quello che
ancora sfuggiva, i fenomeni apparentemente disordinati, veniva visto come il risultato di
un’osservazione ancora incompleta.
Il capovolgimento di questa visione è cominciato nel corso del XX secolo quando l’impalcatura
solida, positivistica, della scienza ottocentesca cominciò a scricchiolare. La meccanica quantistica,
la teoria della relatività einsteiniana, il principio di indeterminazione di Heisenberg, condussero le
scienze a mettere in discussione l’idea di un mondo infinitamente suddivisibile in elementi semplici
e quantificabili. L’incertezza, il disordine, l’imprevedibilità fecero breccia nello spirito scientifico.
Parallelamente, negli anni ’50 von Bertalanffy formulava la teoria generale dei sistemi
1
: l’idea
sistemica descriveva il mondo come formato non tanto da oggetti separati e distinti tra loro, ma
appunto da sistemi, unità organizzate le cui proprietà (definite proprietà emergenti) non sono le
stesse delle parti costituenti, e restano ignote se l’analisi si puntualizza sulle singole parti. Così
mentre nei secoli precedenti la scienza era avanzata frammentando e sezionando, secondo diverse
linee di specializzazione, inseguendo l’utopia di scoprire dietro alle apparenze la semplicità
nascosta della realtà, iniziò a imporsi la necessità opposta di guardare agli oggetti di studio come ad
entità complesse. La compartimentazione del sapere cominciò ad apparire inadatta poiché la
spiegazione di un qualsiasi fenomeno poteva chiamare in causa conoscenze di diversa natura.
1
Bertalanffy, 1983.
2
Il nuovo spirito scientifico richiede che il sapere, in ogni campo, non solo abbandoni la rigidità delle
separazioni accademiche ma diventi anche ‘circolare’, cioè capace di oscillare dall’analisi alla
sintesi e dalla sintesi all’analisi, dalla separazione e distinzione al collegamento e viceversa.
Rinunciare a spiegare tutto attraverso le categorie di ordine, semplicità, regolarità, facendo largo
alle opposte categorie di disordine, irregolarità, caos, significa abbandonare una concezione
riduzionista che vede il mondo come un mosaico di parti differenti conoscibili indipendentemente
l’una dall’altra, per adottare invece un punto di vista tendenzialmente olistico, un pensiero
‘ecologizzante’
2
, per il quale ogni fenomeno e ogni conoscenza è inseparabile dal proprio ambiente
o contesto. La cosiddetta ‘soglia della complessità’ con la quale si sono scontrate le scienze
tradizionali afferma appunto questo: ci sono realtà che non possono essere smembrate nei loro
componenti senza con ciò distruggerle.
3
Il ritardo delle scienze umane
Questo passaggio epocale dalla ricerca della semplicità al confronto con la complessità non ha
cambiato solo il modo di guardare alle cose del mondo. Ha messo in questione anche la posizione
dell’uomo che entra in rapporto col mondo. Salendo in una immaginaria gerarchia della
complessità, la scienza ha incontrato una ‘seconda soglia’
4
che riguarda il coinvolgimento tra
soggetto e oggetto. Gli scienziati si devono confrontare oggi con un dato: il fatto che ogni
descrizione è espressione di un punto di vista e disegna separazioni artificiose in ciò che è
complesso; ossia tutti i modelli di spiegazione della realtà sono parziali, ognuno di essi è al tempo
stesso oggettivo, perché riproduce alcune proprietà del reale, e soggettivo, perché il punto di vista è
scelto dallo scienziato che lo propone.
La seconda soglia di complessità non rinvia solo a questa parzialità o relatività del sapere: più
profondamente spinge a rivisitare la natura stessa della conoscenza. Vedere il mondo come
un’immensa macchina significa pensare che i suoi elementi, separati tra loro, fanno funzionare la
macchina in virtù di interazioni di causa-effetto, come nella collisione di due palle da biliardo.
Questa interpretazione meccanicistica viene oggi progressivamente sostituita dalla necessità di
descrivere il rapporto tra l’uomo e il mondo in termini di relazione e interdipendenza. Ma la
relazione non è un rapporto di causa-effetto, è fondativa dell’identità stessa degli elementi in gioco.
Questo ci porta a dire che tra l’uomo e il mondo la scienza arriva a concepire un rapporto
complesso, e infatti
2
Morin, 2000.
3
Cini M., Linguaggi scientifici e scienze della complessità, Ann. Ist. Super. Sanità, vol.35, n.4 (1999), pp.529-534,
reperibile alla pagina web www.iss.it/binary/publ/cont/Pag.%2055-60.1147767537.pdf
4
Ibidem.
3
accanto alla conoscenza formalizzata dal pensiero razionale esistono forme di ‘comprensione’ dell’oggetto
da parte del soggetto che nascono da esperienze di natura emotiva non mediata dalla razionalità. Questa
pluralità di forme di conoscenza corrisponde a una pluralità di linguaggi diversi: accanto a quello scientifico
quello poetico, artistico, musicale, mistico, onirico.
5
La rivoluzione ancora in corso si prefigura dunque globale: è in gioco il ruolo della ragione nella
conoscenza del mondo, finora considerato predominante se non esclusivo rispetto ad altre forme di
sapere.
Le scienze cognitive (la psicologia, la linguistica, le scienze sociali, le neuroscienze e le scienze
biologiche in genere, l’informatica e l’intelligenza artificiale, la fisica, la filosofia, ossia le scienze
che studiano la conoscenza, la mente, la cognizione di un sistema pensante, naturale o artificiale che
sia) per molto tempo sono rimaste ancorate a un principio che risale a Cartesio, cioè che nell’uomo
mente e corpo, psiche e realtà materiale sono separati e diversi. Oggi proprio le scoperte
scientifiche, e la possibilità di trovare connessioni fruttuose tra loro, ci conducono a vedere che il
nostro cervello non può essere studiato senza tener conto dell’uomo nella sua complessità e dei suoi
rapporti con l'ambiente.
6
La stessa separazione tra mente e corpo viene messa in discussione: l’una
non diviene senza l’altro e viceversa.
Possiamo quindi immaginare in atto un duplice processo che mette in discussione la frattura forse
più profonda tra i saperi, la tradizionale distinzione tra cultura umanistica e cultura scientifica. Da
un lato il nuovo spirito scientifico coinvolge progressivamente sempre più campi specialistici. Per
esempio l’ecologia, nello studiare l’intera biosfera, si fa punto di incontro tra discipline fisiche,
discipline biologiche e tutto ciò che ha a che fare con l’antropizzazione, compresi i quesiti di natura
etica e filosofica; in questa amplificazione le conoscenze fornite dalle discipline scientifiche
assumono uno statuto epistemologico che si avvicina a quello di altre forme di sapere
tradizionalmente considerate non scientifiche. Dall’altro lato le scienze umanistiche si aprono
all’acquisizione di conoscenze biologiche, mediche, informatiche, mentre le singole discipline
tradizionali, come storia, economia, psicologia, sociologia, si fanno più permeabili l’una all’altra.
L’odierna visione sistemica dell’uomo e del suo benessere si muove verso la complessità anche
sotto un altro aspetto: vediamo convergere i contributi delle ricerche tecnologiche più avanzate
della nostra cultura scientifica e i contributi derivati dalla filosofia orientale; si pensi alla diffusione
di pratiche terapeutiche o curative come l’agopuntura, la riflessologia, la meditazione e più in
generale alla forte domanda collettiva di olismo. Il temine olismo, dal greco holos (tutto), si riferisce
5
Ibidem.
6
cfr. Damasio, 1995.
4
appunto a una comprensione della realtà come totalità integrata, per cui l’olismo è la teoria secondo
cui il tutto è più della semplice somma delle parti. Le stesse prospettive ‘new age’, che
accompagnano e rinforzano a loro modo questo processo, non fanno che dimostrare quanto sia
attualmente forte, sul piano collettivo, la richiesta di recuperare il mondo oggettivo come non più
separato dalla nostra psiche.
Se è sempre più forte una domanda di integrazione è d’altra parte presto per dire se le conoscenze
stanno convergendo verso una nuova Weltanschauung, se si profila all’orizzonte la costruzione,
intorno ai saperi, di una cornice concettuale integrata. Mi sembra interessante in proposito
l’osservazione di Morin, quando afferma che l’apertura della cultura umanistica alle discipline
scientifiche è un processo molto più lento del suo speculare.
7
Le scienze umane sono ancora molto
compartimentate, scontando una problematica a loro specifica, ossia il fatto che il soggetto
conoscente coincide con l’oggetto da conoscere o, più precisamente, con lo strumento della
conoscenza.
Per avvicinarci maggiormente al tema principale di questo lavoro, l’educazione, mi sembrano
interessanti anche le riflessioni prodotte in ambito psicologico da Diego Frigoli
8
: se è indubbio che
Freud è all’origine di una rivoluzione copernicana nella conoscenza del mondo psichico ed emotivo
dell’uomo, è anche vero che oggi la psicoanalisi non è ancora giunta a una filosofia della mente
sufficientemente amplificata da integrare, in un modello unitario, le recenti scoperte provenienti per
esempio dalla ricerca biologica, dall’etologia o dalla teoria dell’informazione; inoltre lo studio della
psicologia umana non si è ancora aperto con decisione alla comprensione dei sempre più stringenti
quesiti di ordine collettivo che toccano l’umanità: dall’eutanasia alla clonazione, dalla
sovrappopolazione ai problemi ecologici. Questo vale anche per i suoi sviluppi più recenti, come la
teoria delle relazioni oggettuali che nasce con Melanie Klein
9
, le teorizzazioni di Bion che danno
alla psicoanalisi un’impostazione più relazionale
10
, la psicoanalisi intersoggettiva americana, che
arriva a concepire la mente come relazione
11
.
Richiamandoci al titolo di un famoso testo di James Hillman, Cent’anni di psicanalisi. E il mondo
va sempre peggio
12
, le considerazioni di Frigoli invitano a riflettere su un nodo importante: se lo
studio della mente umana rimarrà ancorato al riferimento ad un mondo pulsionale ‘interiore’ da
sviscerare nel contesto del setting terapeutico (nel contesto cioè di un rapporto verbale e duale tra
7
cfr. Morin, cit.
8
cfr. in particolare Frigoli, 1999.
9
Klein, 2006.
10
Bion, 1997.
11
Stolorow, Atwood, Brandchaft, 1996.
12
Hillman, 1993.
5
analista e paziente) non sarà mai possibile dare sufficiente senso al ‘disagio della civiltà’ e
all’angoscia individuale dell’uomo di fronte ai grandi temi collettivi:
Solo operando una vera e propria rivoluzione concettuale, la psicoanalisi potrà giungere a una teoria della
complessità antropo-sociologica che sia in grado di rivisitare il volto dell’uomo moderno e dei suoi disagi,
offrendo una soluzione che non sia parziale.
13
Occorre cioè che anche la psicoanalisi recuperi l’uomo come fenomeno complesso, parte di un
ambiente fisico e culturale insieme, di un mondo non solo ‘interiore’ ma anche ‘esteriore’.
E l’educazione?
Questa cornice epocale che si riflette in tutti i campi del sapere, influenza inevitabilmente anche i
saperi che si occupano di educazione e cura. Le scienze dell’educazione, come ha chiarito
Demetrio
14
, lasciate alle spalle le varie filosofie del passato, negli ultimi decenni hanno cercato di
arricchirsi alle fonti della psicologia individuale e sociale, dell’antropologia, della sociologia, della
storia, aprendosi alla necessità di scambi interdisciplinari.
Anche in ambito formativo aprirsi alla complessità significa abbandonare definitivamente il mito
dell’oggettività scientifica, la ricerca di spiegazioni universali, di verità ‘forti’, l’uso esclusivo dei
metodi quantitativi, per maturare un’attenzione maggiore verso la ‘singolarità idiografica’
(Demetrio) dell’oggetto di ricerca, cioè un’attenzione alla complessità dell’individuo, al di là di
astrazioni utili soprattutto per trovare leggi o regole generalizzabili. I fatti educativi sono
antinomici, ambigui, ambivalenti, rispetto ad essi un approccio che voglia essere eco-logico, cioè
aperto a considerare la complessa rete di fattori che sono in gioco in ogni accadimento educativo,
chiede di non operare categorizzazioni schematiche, ma di condurre una sapiente ricomposizione
degli aspetti individuale-sociale, naturale-culturale, reale-astratto, teorico-pratico ecc.
Tuttavia dobbiamo chiederci quanto il sapere pedagogico, e i luoghi deputati alla pratica educativa,
si sono davvero aperti a un cambio di prospettiva. Uno dei terreni da esplorare per rispondere è, a
mio parere, quello del confronto con la dimensione corporea. Il corpo come luogo dell’identità e
della diversità, come luogo dell’esercizio del potere, della costruzione dell’immaginario umano,
radice dell’emotività e dell’affettività, fonte dell’apprendimento di sé e del mondo, in definitiva il
corpo esistenziale (in termini fenomenologici
15
) è anche il luogo in cui si giocano, anzitutto, le
capacità di lettura, di ascolto e coinvolgimento di chi si occupa di educazione, cura e terapia. È su
13
Frigoli, cit., p. 32.
14
Demetrio, 2002, p. 232.
15
È il Leib di cui parla Husserl nelle Meditazioni cartesiane, concetto poi ripreso da Merleau-Ponty.
6
questo piano che si palesano le prospettive possibili di una cultura dell’educazione che fatica ancora
a rielaborare un approccio schizofrenico (tipicamente occidentale) alla complessità esistenziale del
soggetto; di una cultura forse in ritardo rispetto alla complessificazione del sapere e delle esistenze
individuali, e rispetto al’esigenza del singolo di esercitare una capacità sufficientemente autonoma e
radicata di comprensione di sé e del mondo, nonché una capacità adeguata di cura di sé e del
mondo.
Secondo Franco Cambi la pedagogia attuale si fonda su tre principali ‘rotture’
16
: quella scientifica
degli anni Sessanta, quando si è fatta essa stessa scientifica aprendosi all’assimilazione di altri
saperi (scientifici); quella critico-radicale degli anni Settanta, quando il sapere pedagogico è stato
sottoposto ad analisi critica per svelarne le dimensioni ideologiche, la sua dipendenza da finalità
socio-politiche; infine quella tecnologica degli anni Ottanta, quando “è esplosa la pedagogia della
programmazione (così allineata a un modello di razionalità tecnica: funzionale e organizzativa) e –
a livello più teorico – una pedagogia neo-cognitivistica, attenta ai modelli formativi della mente”
17
.
Questa evoluzione ci mostra il quadro complessivo che giustifica storicamente il destino di tutte
quelle sperimentazioni, nate in ambito scolastico, che si sono rifatte ai principi dell’attivismo
pedagogico. Le riflessioni di Dewey a cavallo tra ’800 e ’900 avevano dato vita a un movimento di
pensiero da cui sarebbero nate le cosiddette ‘scuole attive’: l’attivismo pedagogico aveva come
scopo la creazione di una scuola non convenzionale, non impostata sul nozionismo e sull’ascolto
passivo degli insegnanti, ma creata intorno agli interessi degli alunni. Si trattava di una pedagogia
basata su studi di carattere medico e psicologico in merito allo sviluppo psicofisico del bambino,
dove la centralità del bambino sostituiva la centralità della programmazione didattica orientata alla
classe; il singolo andava stimolato a utilizzare le proprie intelligenze multiple attraverso diversi
laboratori (come il giardinaggio, la scultura, la pittura); l’indagine e l’apprendimento tramite
l'esperienza diretta era il fulcro di questo metodo.
18
Ebbene in Italia l’attivismo si affermò
brevemente negli anni Cinquanta e Sessanta per poi venire rimosso da “un esclusivo contenutismo
didattico”
19
, mentre in altri paesi, dopo un più lungo periodo di vitalità, esso venne superato dalla
prospettiva cognitivista
20
, interessata, appunto, fondamentalmente ai processi cognitivi (la
percezione, l’attenzione, la memoria, il linguaggio, il pensiero).
Oggi molti aspetti e innovazioni dell’attivismo pedagogico attendono di essere nuovamente
valorizzati, come una tavolozza di colori che attende di essere utilizzata con maggiore creatività.
16
Cambi, Per una interpretazione dell’attualità pedagogica: percorsi di riflessività, in Scaglioso, 2007.
17
Ibidem, p. 102.
18
Le riflessioni e le esperienze intorno alla didattica attiva sono legate soprattutto a Froebel, Cousinet, Kerschensteiner,
Freinet, Dewey, Baden Powell, Bovet, e in Italia a Maria Montessori.
19
Massa, 1990, p. 187.
20
La prospettiva cognitivista prende spunto dalle opere di Neisser, Piaget, Bruner, Vygotsky.
7
Ma ciò che più mi interessa nel contesto di questa tesi è un aspetto in particolare: la ricchezza di un
‘riposizionamento’ nei confronti del soggetto in educazione che recuperi una lettura globale e
complessa del soggetto stesso, che ricomponga il rapporto tra conoscenza e vissuto corporeo ed
affettivo, tra scolastico ed extrascolastico, tra mondo della vita e mondo della formazione. Deve
ancora essere possibile pensare alla formazione del soggetto come approccio multidimensionale alla
sua individuazione, dando un’attenzione più adeguata alla dimensione corporea e alla progettazione
esistenziale. Del resto, il corpo proprio in virtù della complessità che rappresenta si colloca alle
frontiere delle scienze. Un approccio interdisciplinare è l’unico possibile per una ‘costellazione’
21
che raccoglie significati diversi quali organismo, rappresentazione individuale e sociale, aspetti
cognitivi del pensiero e ‘carnali’ delle emozioni, apertura individuale al mondo ma anche luogo di
iscrizione delle pratiche sociali del potere.
Questa rinnovata attenzione alla complessità dell’individuo può concretizzarsi se la ricerca e la
pratica pedagogiche si aprono alla realtà individuale su un duplice fronte: da un lato riconoscendo il
valore dell’apprendimento esperienziale centrato sul soggetto, con la sua storia di vita, la sua
biografia affettiva e corporea, dall’altro restituendo fondatività e dignità a quegli ambiti della natura
umana che hanno a che fare con l’irrazionale e l’immaginario, per molto tempo negletti, troppo
spesso epurati da percorsi educativi miranti unilateralmente alla crescita, allo sviluppo, alla
maturazione, ma che permettono di radicare il soggetto in un contesto più ampio.
Tra i saperi che Morin segnala come fondamentali nell’insegnamento, e che l’educazione dovrebbe
trattare in ogni società e ogni cultura, c’è quello relativo alla ‘condizione umana’.
22
Significa
ricordare che noi siamo al contempo esseri fisici, biologici, psichici, culturali, sociali, storici; unità
complesse che nell’insegnamento, attraverso le discipline, vengono frammentate. Ma se
consideriamo le nostre scuole e le università ci accorgiamo quanto sia ancora poco diffusa un’idea
di educazione come ‘evento vitale’; quanto si rimanga ancorati a rigide suddivisioni tra canali
formativi, a modelli di comunicazione asimmetrica, a un’impronta unilateralmente razionale, a
metodologie verbalistiche.
Lo scarso approfondimento del ruolo della corporeità nell’educazione può essere riequilibrato se il
sapere pedagogico si fa esperienza corporea alla quale educarsi (per poter poi educare). Il
coinvolgimento del corpo mette di fronte al fatto che la sua natura è estremamente articolata: i fatti
educativi sono antinomici perché il corpo stesso è luogo di significati instabili, di linguaggi
molteplici, di ambiguità, di ambivalenze simboliche
23
. Una rinnovata didattica attiva dovrebbe
21
cfr. Grassi, Sebastiani, in D’Andrea, 2008, p. 235.
22
Morin, 2001.
23
cfr. Galimberti, 2003.
8
essere una didattica che si apre a questa comprensione, che valorizzi una forma di apprendimento
‘incorporato’
24
.
Ricostruzione di un incontro di esperienze
La cultura pedagogica è sempre stata inscindibile dalle teorie della conoscenza che si sono
succedute nel corso della storia, soggetta ai mutamenti culturali e sociali, legata alle immagini
dell’uomo e del mondo collettivamente diffuse. Essa si è sempre incaricata di tradurre sul piano
educativo queste immagini nelle strategie, pratiche o tecniche più adatte per ‘produrre’ un certo
uomo. Oggi la pedagogia appare dominata da quell’orizzonte culturale scientifico-positivo che
impone (guidando così i suoi fini) modelli di riferimento, strategie, strumenti di verifica e categorie
concettuali di tipo tecnico, che spinge alla definizione di classificazioni e nomenclature, di profili
professionali sempre più specializzati. Appare cioè vinta dai ‘miti’ più radicati della nostra
tradizione culturale;
25
adesiva in maniera irriflessa agli slogan e alle parole d’ordine collettivamente
più diffusi: anzitutto il primato della razionalità e della capacità tecnica.
Lo riscontriamo, per
esempio, nelle pressanti domande che provengono dai luoghi dedicati all’educazione: di
incrementare il saper fare, di acquisire tecniche, di esercitare abilità (skills).
In questo quadro, dove in gioco è la capacità di confrontarsi con le profondità e complessità delle
relazioni educative, la ‘Clinica della formazione’
26
si è proposta recentemente come un approccio
clinico e critico alla formazione che tenta di integrare esperienze e saperi multidisciplinari e di
distanziarsi da un’ottica razionalistica e tecnocratica. Dalla prospettiva dell’argomento di questa
tesi, vediamo operare tale integrazione su più piani: come ‘incorporazione’ di un sapere teorico
eccessivamente disincarnato, come ricongiungimento tra ragione e irrazionalità, tra mente e corpo,
come ritrovamento possibile di un rapporto più profondo tra uomo e natura. In queste direzioni si
muovono, in particolare, gli approfondimenti della ‘pedagogia del corpo’ di Ivano Gamelli e la
prospettiva di ‘pedagogia immaginale’ di Paolo Mottana.
La strada che ho percorso verso l’incontro con questi approcci pedagogici segue una direzione
coerente con il presupposto da cui prende le mosse la pedagogia del corpo, cioè che ‘il corpo
precede’, viene prima, è fondativo rispetto a ogni apprendimento. Negli stessi anni in cui iniziavo la
specializzazione universitaria, per dare completezza e arricchire il lavoro educativo che mi
impegnava, cominciai a seguire con Massimo Zaina
27
una formazione extrauniversitaria basata sulla
‘mediazione corporea in ambiente naturale’. Il corso mi permise di entrare in contatto con un nuovo
24
cfr. Gamelli, 2001.
25
cfr. Mottana, 2000.
26
Massa, 1997 - Rezzara, 2004.
27
Massimo Zaina è formatore e terapeuta a mediazione corporea in ambiente naturale, esperto di pedagogia del
movimento e di simbolica nella relazione mente-corpo.
9
paradigma scientifico, l’ecobiopsicologia, il cui approccio olistico all’uomo e alla natura veniva
adottato all’interno di una formazione a carattere sperimentale ed esperienziale. Per qualche tempo i
due percorsi formativi rimasero in certo modo paralleli, avvicinandosi e interagendo nelle mie
consapevolezze e nella pratica lavorativa.
L’incontro con i testi di Paolo Mottana e Ivano Gamelli hanno segnato un passaggio decisivo.
Quello che andavo sperimentando letteralmente sulla pelle, nell’esperienza vissuta fisicamente ed
emotivamente a diretto contatto con l’ambiente naturale, si è andato progressivamente integrando
alle dispense teoriche della formazione outdoor e all’apprendimento teorico universitario all’interno
di un tutto più coerente.
Vorrei ricostruire questo intreccio raccontando prima di tutto un’esperienza a mediazione corporea
per accennare ai vissuti personali e alle domande di cui mi sono arricchito. In un secondo capitolo
ho voluto ripercorrere alcuni dei motivi culturali per i quali la nostra società dell’informazione
continua ad avere un rapporto controverso con l’immaginario umano. Il ‘disincanto del mondo’ di
weberiana memoria sembra continuare, nell’odierno dominio della tecnica e della logica
commerciale, sottoforma di una sorta di volatilizzazione della reale, sostituito dai simulacri; da qui
lo smarrimento, sul piano collettivo, di un’immagine convidisa della realtà. Tutto ciò chiama in
causa la pedagogia, la quale non può non interrogarsi intorno al bisogno umano di ricercare un
senso della realtà e della vita ed essa, se si apre davvero a una possibile risposta, o meglio, se vuole
permettere che una risposta la si cerchi ancora, non può non mettere in discussione le mitologie da
cui è abitata, facendo in modo che l’uomo sia ancora capace di guardare il mondo attraverso
prospettive ‘altre’ rispetto alla visione dominante. Attraverso il confronto con questi temi collettivi
avvicinerò, nel terzo capitolo, l’approccio di ‘pedagogia immaginale’ con la sua richiesta di un
nuovo posizionamento epistemologico nei confronti del soggetto in formazione e del mondo in cui
vive. Nel quarto capitolo mi sono proposto di sottolineare come nella nostra tradizione culturale
l’immagine socialmente condivisa del soggetto da educare sia sempre stata caratterizzata da una
scissione schizofrenica tra mente e corpo, scissione del ‘corpo vissuto’, del vissuto esistenziale di
noi stessi, in ambiti di conoscenza sottoposti ad attenzioni, spazi e tempi diversi, e segnata dal
prevalere della mente sul corpo. Questa modalità continua ancora oggi malgrado il moltiplicarsi di
discorsi e pratiche intorno al corpo. Da qui la necessità pedagogica di rivisitare questa separazione
nel quadro di una visione complessa, olistica del soggetto. La Clinica della formazione, nel suo
sforzo di cogliere il “dispositivo pedagogico” che rende possibile ogni esperienza educativa, si
presta a un simile percorso poiché ci invita a individuare quelle che sono le latenze pedagogiche
sempre implicate nel processo educativo, cioè a maturare un’attenzione amplificata: alla
strutturazione simbolica degli spazi e dei tempi dell’esperienza, agli aspetti inconsci, ai modelli e ai
10
miti, ai modi, ai contesti e alle dinamiche emotive/affettive implicate in essa. Per questa via
l’approccio clinico reclama l’urgenza di una rinnovata formazione, grazie alla quale l’educatore
sappia prestare attenzione al necessario coinvolgimento del corpo nella relazione educativa (con
tutto il portato emotivo, affettivo e immaginario che l’esperienza di sè implica) e che nel contempo
si approfondisca nella consapevolezza delle immagini che animano il proprio sguardo sulla realtà.
Mantenendo sullo sfondo questo approccio pedagogico ho recuperato brevemente alcuni contributi
provenienti dalle ricerche di psicomotricità e ho fatto riferimento a quegli studi di carattere medico
e psicologico raggruppabili sotto il termine ‘psicosomatica’, per poterne cogliere gli aspetti di
interesse pedagogico sul piano del rapporto con il corpo. A partire dagli sviluppi recenti della
ricerca in questi ambiti ho voluto sottolineare come la domanda di cura e aiuto in senso olistico che
oggi si impone sempre più sul piano collettivo, non può non interrogare anche la cultura
pedagogica. Sono così giunto a presentare lo sfondo teorico che ha ispirato la mia esperienza
formativa in ambiente naturale: l’Ecobiopsicologia è una prospettiva di ricerca che si propone come
amplificazione della psicologia analitica junghiana, intrecciandola con le scienze dell’immaginario
e le conoscenze mediche, in accordo con le più recenti acquisizioni delle scienze della complessità.
Questa prospettiva sollecita gli ambiti del sapere che si occupano di cura e terapia a ripensare la
formazione dei propri operatori, a elaborare una formazione che avvicini alla pratica di un pensiero
simbolico, che stimoli all’uso di un’intelligenza ‘analogica’, un’intelligenza più affine a quelle che
chiamiamo ‘le ragioni del cuore’.
Attraverso questi percorsi ho voluto esplicitare così la tesi del presente lavoro. Sostengo che nel
quadro delle trasformazioni socioculturali che ci coinvolgono, sia oggi necessario coltivare, nei
luoghi dell’educazione, una visione tendenzialmente olistica del proprio ‘oggetto di ricerca’,
riconsiderando il ruolo della corporeità e dell’immaginazione nella relazione educativa e
valorizzando la ‘mediazione simbolica’; ma quindi, anche, che sia necessaria una
complessificazione della formazione del ‘soggetto educatore-formatore-terapeuta’, che permetta di
far propria una postura più rispettosa nei confronti dell’altro con cui si entra in relazione. Mi sembra
necessario soprattutto approfondire le capacità di lettura e azione dell’educatore parallelamente sul
piano immaginale e corporeo, per poter cogliere le profondità che abitano ogni relazione educativa:
intendo in particolare le capacità di leggere ‘ecologicamente’ il contesto, di lavorare sulle
dinamiche relazionali a partire dai corpi coinvolti nella loro materialità ed emotività, di prestare
attenzione al vissuto inconscio nella relazione con l’altro, di famigliarizzare con l’immaginario,
personale e collettivo, e con gli altri simboli con cui l’inconscio comunica, di ammorbidire le
rigidità della ragione con le ragioni del cuore, maturando così uno sguardo più sensibile all’altro e
al mondo.
11
CON IL CORPO. Un’esperienza formativa in ambiente naturale
Affidamento alla materia e identità del corpo. L’incontro con la grotta
Nel settembre del 2002 prese avvio a Milano ‘Speleo Laborintus’, corso di formazione e di
aggiornamento professionale sul simbolo e i disturbi psicosomatici, tenuto da Massimo Zaina,
terapeuta a mediazione corporea in ambiente naturale.
Si trattava di un percorso di apprendimento e ricerca sul linguaggio simbolico del gesto e del
movimento, attraverso esperienze di speleologia. Il percorso prese avvio a Milano con una
presentazione audiovisiva sui contenuti immaginali del lavoro, per mettere in movimento, prima del
corpo, la funzione dell’immaginario. Questo momento iniziale serviva per facilitare ai partecipanti
la reciproca conoscenza e per l’esplicitazione dei desideri, delle aspettative personali e
professionali, nonché, sollecitati da alcune fotografie, delle immagini interiori evocate in ognuno di
noi dall’esperienza che ci apprestavamo a fare. Quelle emerse furono immagini e fantasie
primariamente legate alla sfera delle paure e delle fobie: ansia da soffocamento, paura di rimanere
incastrati, o del buio, dell’ombra, del perdere l’orientamento ecc. Ma emersero anche immagini a
valenza positiva: del sentirsi protetti, dell’eccitazione dell’orientamento, del perdersi. Fantasie
legate per ciascuno di noi all’immaginario del corpo e che sarebbero state il materiale per
sviluppare un lavoro personale e di gruppo.
In ottobre mi lanciai in questa esperienza soprattutto per curiosità e ne tornai provato. Il primo
viaggio fu per me una lunga passeggiata in montagna per andare a scovare l’ingresso di una grotta,
qualcosa di ancora soltanto immaginato. L’impatto con quella sorta di profonda vena che si apriva
sulla parete rocciosa di una montagna a mo’ di nido segnò il momento del mio ritiro. Angosciato
dalla prospettiva di incunearmi nello stretto pertugio dentro la terra, rimasi per tutta la durata del
percorso del gruppo a rimuginare sulle emozioni che si erano sollevate in me, con gli occhi quasi
fissi a quella alta parete di pietra.
Nel mese di novembre mi imbarcai per il secondo appuntamento, verso Schio (VI) alla volta del
Buso della Rana. Tutte le sessioni in ambiente naturale erano corredate anche da momenti di lettura
in gruppo di materiali didattici ed evocativi, allo scopo di ‘orientare’ l’esperienza inconscia dei
partecipanti rispetto ai temi-chiave prescelti. Si trattava in generale di temi che hanno portata, oltre
che personale, anche collettiva e archetipica, e dunque mitologica, come nel caso che vado a
raccontare.