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massa si interessano maggiormente, ho la sensazione
che, nell’opinione pubblica, l’incremento percentuale
dei casi di madri che uccidono i propri figli, sia
percepito come un dato certo, mentre i dati a
disposizione dimostrano che è una cosa non vera.
Come si vedrà più avanti, infatti, infanticidio e
figlicidio sono sempre accaduti ed anche in numero
considerevole.
Dopo le numerose tragiche vicende avvenute negli
ultimi tempi, la gente continua a chiedersi: “E’ possibile
che una madre uccida il proprio figlio?”; “E’ possibile
che la casa, luogo sicuro per eccellenza, divenga invece
un posto in cui i bambini vengono maltrattati ed
uccisi?”.
Per dare una risposta, in primo luogo a me stessa,
ed in secondo luogo a tutte quelle persone che
ritengono che studiare psicologia significhi avere la
verità in tasca, e mi chiedono in continuazione: “ma tu
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cosa ne pensi?”, ho pensato di approfondire questo
tema.
Poiché, finora, non ho saputo rispondere a questa
domanda, ho deciso di affrontare e sviluppare tale
drammatico argomento per poter meglio comprendere
l’angoscia che si cela dietro a questi terribili gesti.
Mi sono documentata ed ho trovato notizie molto
interessanti sul tema: innanzi tutto ho notato che il
figlicidio e l’infanticidio sono sempre esistiti e non sono
quindi, come lascerebbe pensare il clamore attuale
attorno ai recenti molteplici delitti di tal specie,
espressione esclusiva del nostro tempo e della nostra
società.
Ho notato poi come tra gli animali – che spesso
vengono portati ad esempio di sacrificio materno –
l’uccisione della prole sia molto praticata per vari
motivi.
Ad esempio la cagna mangia i propri piccoli se si
trova in situazioni di stress; il leone divora i cuccioli per
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potersi accoppiare nuovamente con la femmina madre,
la quale, durante l’allattamento, non è attiva
sessualmente.
Ho visto poi come, anche tra gli esseri umani, di
culture diverse dalla nostra, l’uccisione dei figli sia
messa in atto, a volte in modo sistematico. Ad esempio,
in Cina, tale fenomeno investe in special modo le figlie
femmine, le quali vengono considerate solo un peso, un
fardello da mantenere, mentre i figli maschi,
tramandando usi e tradizioni paterne ed essendo più
idonei al lavoro, sono maggiormente tutelati. Altre
volte, in alcune culture sono le ragioni sociali, quali il
mantenimento della purezza del sangue aristocratico, a
condurre all’infanticidio. Non è poi da dimenticare il
fatto che in alcune tribù si compiono sacrifici rituali
utilizzando i figli come “animale” sacrificale, o che gli
stessi vengano uccisi per fame.
Nel primo capitolo di questo lavoro analizzerò il
figlicidio e l’infanticidio e il figlicidio nel mito, per la
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funzione didattica e terapeutica che esso porta con sé, e
nella storia. Inizierò questa mia disamina citando la più
nota figlicida di tutti i tempi ossia Medea e, dopo aver
analizzato altre protagoniste di tragedie greche e
romane, proseguirò col parlare dell’infanticidio e del
figlicidio dal punto di vista socio-culturale. Analizzerò
la presenza di questo delitto nelle varie epoche storiche
e il modo in cui è cambiato nel tempo il giudizio sociale
e penale riservato a questo tipo di reato.
Nel secondo capitolo accennerò alla criminalità
femminile, in quanto infanticidio figlicidio, assieme
all’uccisione del coniuge, sono i reati di sangue
maggiormente commessi dalle donne. Mi occuperò poi
brevemente della “capacità di intendere e di volere” in
quanto nozioni che stanno alla base dell’imputabilità
del reo e delle leggi italiane a tutela della maternità
responsabile. Verrà presentato, a questo proposito il
caso clinico di una infanticida che ho avuto modo di
estrapolare presso l’Ospedale Psichiatrico Giudiziario
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di Castiglione delle Stiviere, che è l’unico in Italia ad
ospitare le donne autrici di reato considerate non
imputabili, e di cui verranno illustrati scopi e finalità.
Il terzo capitolo concluderà la dissertazione, con la
presentazione delle varie patologie post-parto, ma non
solo di queste che, in molti casi sono alla base di
comportamenti con agiti violenti fino all’omicidio.
Correderanno questo capitolo una serie di casi tra
quelli rilevati dalle storie cliniche delle madri ricoverate
nel succitato OPG per omicidio nei confronti dei figli.
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I CAPITOLO
Excursus mitologico - antropologico e storico
dell’infanticidio e figlicidio
1.1 – Medea e le altre – il figlicidio nella
mitologia.
Questo primo capitolo della dissertazione si
propone di ripercorrere alcune versioni del mito, ossia
di quelle “storie” che sono state tramandate dai
tragediografi dell’antichità classica.
Il “mito” dal greco mytos, che significa parola,
discorso, racconto, è in primo luogo la più ricca fonte di
informazioni della remota storia umana, la quale non
disponendo della scrittura, si è trasmessa per tradizione
orale, come narrazione. Il noto antropologo polacco B.
Malinowski dà la seguente definizione del mito.
«…Nella cultura primitiva il mito esplica una funzione
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indispensabile: è l’espressione, la valorizzazione, la
codificazione di un credo; difende e rinforza la
moralità; garantisce l’efficacia del rito, e contiene
pratiche che guidano l’uomo. Il mito è perciò una forza
attiva operante; non è una spiegazione razionale o
un’immaginazione artistica, ma un documento
pragmatico di fede primitiva, di saggezza morale.»
1
Da queste parole si evince che il mito non è solo
una “storia” o, come siamo abituati a considerarlo
nell’accezione odierna, un racconto fantastico,
inventato. Il mito è tutt’altro: è la legge tramandata in
forma orale è la storia che i narratori raccontavano nelle
lunghe ore di veglia. Secondo lo psicoanalista argentino
Rascovsky, autore del più famoso testo sul figlicidio, «è
probabile che attraverso il mito possa spiegarsi lo
sviluppo filogenetico ed ontogenetico dei popoli e
dell’individuo».
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1
B. K. Malinowski, Il mito e il padre nella psicologia primitiva, Newton
Compton, Roma 1976, p. 47
2
A. Rascovsky, Il figlicidio, Astrolabio, Roma 1974; p. 35
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Si deve quindi supporre che gli infanticidi
compiuti da innumerevoli figure mitologiche siano,
almeno in parte, da attribuire realmente alle persone cui
i tragediografi hanno dedicato larga parte della loro
produzione.
Non v’è dubbio che la storia sia disseminata di
infanticidi e che l’antichità greca, soprattutto, sia di
questi una fucina. Le cosmogonie e le teogonie infatti
parlano di padri che divorano o sotterrano i figli, come
Urano e Crono, e lo fanno per il timore di essere da loro
spodestati. Le madri, in questi casi, si comportano come
ci si aspetterebbe da una madre amorevole e cioè con
dolore e disperazione per il destino dei figli e tentano di
salvare almeno uno di essi.
Nella tragedia, invece, molte delle madri descritte,
da Medea a Ino a Procne ed alle Menadi ad esempio, si
spogliano della loro umanità e infieriscono sui figli
senza alcuna pietà. Le Menadi, seguaci del dio Dioniso
che personificano gli spiriti orgiastici della natura,
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vengono istigate dallo stesso Dio Dioniso ad uccidere il
figlio di una di esse, colpevole di opporsi alle feste
orgiastiche della madre.
Quello delle Menadi è un tipico caso di figlicidio
per insanità di mente, tanto è vero che Dioniso era
anche chiamato Menadones, ossia portatore di follia.
Probabilmente, se si fossero macchiate di un simile
reato oggi, sarebbero state giudicate “incapaci di
intendere e volere al momento del fatto”.
La scelta di iniziare il presente lavoro da una
rivisitazione del mito è dovuta al fatto che, nell’ambito
degli studi psicologici/criminologici, una delle
motivazioni che spingono a commettere il figlicidio è
chiamata “sindrome di Medea”: Medea è infatti la più
famosa figlicida che, dall’antica storia greca sia giunta
fino ai giorni nostri.
La figura di Medea compare in diverse tragedie
greche, ma le versioni più famose del mito sono quelle
narrate da Apollonio Rodio, che costituiscono una sorta
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di prologo, pur essendo Apollonio di molto successivo
ad Euripide, per le vicende che aveva trattato
quest’ultimo.
Nelle Argonautiche, Apollonio Rodio narra, infatti,
dell’incontro di Giasone e Medea la quale, innamoratasi
perdutamente dell’eroe lo aiuta a conquistare il vello
d’oro e a sfuggire a suo padre. Lo stratagemma che
utilizza per compiere ciò è piuttosto macabro e
singolare. Medea, infatti, uccide il fratello e lo getta in
mare un pezzo alla volta così da fare in modo che il
padre, che la seguiva, fosse costretto a fermarsi più
volte per raccoglierne il cadavere.
La vicenda narrata da Euripide ha invece inizio
quando i due amanti giungono nella regione della
Corinzia, il re di questo paese offre la figlia Glauce in
sposa a Giasone, il quale accetta la proposta per ragioni
di prestigio. Medea subisce questo affronto, ma medita
una tremenda vendetta: uccidere i figli avuti da
Giasone per punirlo del tradimento. Vendetta che
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compirà pugnalandoli. Al termine della tragedia
Medea, pur ammettendo di soffrire essa stessa, si
dichiara comunque soddisfatta per la sofferenza che ha
causato a Giasone.
Aldo Carotenuto, professore di Psicologia della
Personalità, recentemente scomparso, sostiene che
«Medea costituisce il prototipo di un personaggio
femminile struggente le cui vicende si snodano lungo
un continuum di amore, passione e disperazione».
3
Nella Medea di Euripide il delitto commesso si
lega strettamente alla sofferenza da lei provata per il
tradimento. Compiendo quindi un figlicidio per
vendetta, Medea dimentica che essa stessa aveva
“tradito” l’amore del padre, aiutando Giasone e
uccidendo il proprio fratello.
Isabella Merzagora Betsos, docente di
Criminologia e Perito forense, sostiene che «la
psicoanalisi va oltre nell’interpretazione: il duplice
3
A. Carotenuto , L’anima delle donne, Bompiani, Milano 2001, p. 39