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comprenda e condivida la “mission” della Casa stessa. Così anche un
operatore volontario che lavora in un’organizzazione che offre assistenza ai
tossicodipendenti, insieme al desiderio di “essere utile” a loro, può essere
spinto da altre ragioni. Proprio tali ragioni, o motivazioni, sono il vero
oggetto di questa ricerca, e non l’azione volontaria in se stessa.
Ristretto il campo di osservazione ad alcune caratteristiche del soggetto
collettivo, è interessante chiedersi quali siano le motivazioni dei volontari e
degli operatori che vi lavorano, oltre quella, (non troppo) scontata,
dell’adesione alla “mission”.
Quando l’azione è davvero oblativa e non motivata da ragioni, ad esempio,
economico-professionali, Corsale (1996) ritiene possa risollevarsi il
problema proposto da Olson (1965) a proposito della logica dell’azione
collettiva, sugli incentivi selettivi che motivano il soggetto a compiere
un’azione per l’interesse collettivo: un elemento che può giustificare
un’attività gratuita senza attendere che altri facciano la stessa cosa.
Se esistono tali incentivi e si rintracciano nel bisogno di sentirsi utili, di
appartenere ad un gruppo, o semplicemente di sottrarsi ad una serie di
abitudini, non può di certo dirsi che si tratti di bisogni di secondaria
importanza: secondo Corsale (1996), si possono riassumere nel “bisogno di
gratificazione da autoriconoscimento, nel bisogno di «senso», che del resto
sta dietro anche all’interesse economico”. L’azione volontaria, che
all’esterno dà molto spesso l’impressione di essere un atto unicamente
gratuito e disinteressato, può essere verosimilmente motivata dal desiderio
di realizzazione personale attraverso obiettivi meta-personali che spaziano
in un campo che va dall’esistenziale al professionale.
È anche molto probabile che tali motivazioni non si escludano a vicenda,
ma concorrano insieme a determinare l’azione; non è inoltre escluso che
varino nel tempo, influenzate da altri obiettivi personali, dalle relazioni che
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si creeranno con altri volontari ed operatori, e dai “risultati” che si
otterranno.
Infatti non può parlarsi di solidarietà come orientamento all’agire del tutto
autonomo ed indipendente da altri meccanismi.
Un altro stimolo che proviene sempre dallo stesso autore è il seguente:
“in che misura si può sostenere che il ruolo attualmente crescente del
volontariato sia un modo di reagire all’eccessiva spersonalizzazione e
tecnologizzazione del moderno sistema dei servizi (pubblico e privato
integrati) recuperando, sia pure in forma diversa, aspetti della solidarietà
comunitaria?”. Infatti si può parlare di solidarietà anche riferendosi,
durkheimianamente, al meccanismo di coesione di un gruppo sociale e poi
dell’intera collettività. Se si considera anche in questo modo, sarà per
quest’osservazione, maggiore la facilità di avvicinamento ai gruppi di
volontari di cui più tardi vorrò parlare.
La ricerca inizierà con una descrizione delle organizzazioni in cui l’azione
volontaria si svolge; così richiamerò le “tipizzazioni” che sono state
elaborate sui volontari e sulle organizzazioni volontarie; successivamente
esporrò alcune teorie socio-psicologiche sull’agire altruistico e dei
“concetti chiave” attorno ai quali la letteratura su quest’argomento si è
soffermata molto. Introdurrò alcuni elementi sulla fenomenologia del
gruppo che ritengo utili per osservare e analizzare le interazioni tra i
volontari. La metodologia d’indagine che utilizzerò sarà l’osservazione
partecipante.
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CAPITOLO 1
I soggetti collettivi agenti
1.1 Il terzo settore
Di fronte all’esplosione delle formazioni sociali che si identificano nel
“terzo settore”, è sorta l’esigenza (Donati 96) di trovare un modo per
descrivere questo fenomeno nella sua struttura, nelle finalità e nei suoi
modi di agire per chiarire il suo ruolo nella società complessiva.
Lo stesso autore ha evidenziato l’originalità del fenomeno “terzo settore”
poiché presenta delle differenze specifiche rispetto agli altri, e la sua
originarietà, l’essere “sorgivo” poiché ha le sue proprie autonome fonti di
esistenza, costituzione e legittimazione. Quindi ha voluto approfondire il
suo studio in una prospettiva sociologica trattando alcuni orientamenti
nuovi.
Il primo di tali orientamenti è il carattere prettamente sociale, cioè
relazionale, del terzo settore (d’ora in poi denominato TS). Il sociale viene
concepito come la matrice generativa delle altre dimensioni (politiche,
giuridiche, culturali, economiche) e quindi come il sostrato proprio del
fenomeno, sia nel suo complesso sia nelle sue forme concrete e locali. In
particolare l’autore vuole sottolineare che il termine sociale, in tale sede,
vuol dire relazionale, cioè di relazionamento tra le persone umane, siano
tali relazioni primarie o secondarie, dirette, (faccia a faccia) o indirette
(mediante ad esempio le tecnologie comunicative). Sociale è ciò da cui si
origina un fenomeno di sociabilità (relazionabilità), prima che esso assuma
una specifica connotazione economica, culturale, giuridica, politica. Così,
le nuove relazioni che si creano, con le loro dinamiche, innovano i modelli
culturali già radicati.
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Secondariamente, il TS produce beni relazionali, originali ed originari
essi stessi. Non sono pubblici, perché non hanno il carattere della
collettività come i beni su cui lo Stato ha un potere politico di disposizione
e non sono accessibili universalisticamente come dovrebbero essere i beni
prodotti e distribuiti sempre dallo Stato; inoltre non sono privati perché non
vengono fruiti dal soggetto che li produce, colui che nella norma dovrebbe
esserne il proprietario. I beni prodotti dal TS sono un “terzium genus”
perché possono essere generati solo con una specifica attenzione alla
relazionalità sociale che si instaura tra i membri partecipanti. Possono
quindi essere prodotti e goduti non individualmente, ma solo “insieme ai
soggetti che hanno concorso a crearli”, sono beni relazionali perché
“stanno” nella relazione.
Nel TS si ha un’economia di condivisione (sharing) che permette di
produrre “beni relazionali collettivi”. Quest’ultimi sono interdipendenti ed
interrelati con il Quarto Settore che produce beni relazionali primari, i quali
hanno il loro referente basilare nelle reti di solidarietà primaria (famiglia,
reti parentali ed amicali) che appunto lo costituiscono.
L’ultimo orientamento evidenziato è la propria auto-direttività, ossia la
sua distinzione direttrice interna che consiste nella creazione di nuove
forme di integrazione, di solidarietà sociale. Considerando che ogni
relazione sociale, e per estensione ogni sistema sociale, ha quattro
fondamentali dimensioni, economica (cioè i mezzi strumentali), normativa
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(le regole o norme che presiedono al processo sociale), politica (le mete
situazionali da realizzare) e culturale (i valori di base che orientano il
sistema di azione), l’autore vuole mostrare come il TS possa essere
collocato in ognuna di tali dimensioni. Ad esempio, può essere collocato
nella dimensione normativa dell’intera società perché crea, promuove,
salvaguarda la solidarietà mediante azioni ispirate a regole di dono, equità,
reciprocità; non ha uno scopo propriamente economico, politico, culturale,
ma di “normatività sociale”. Visto il TS come relazione o sistema sociale a
se stante, esso avrà tutte e quattro le dimensioni, una propria economia, una
propria cultura, una propria politica, una propria regolamentazione.
La cultura del TS spazia dentro tutte le relazioni che stanno tra il profitto ed
il non profitto, fra l’inter-soggettività dei cittadini e le azioni dello Stato: la
natura del TS non è solo quella del puro dono e di totale gratuità perché è
un campo di attività che spesso serve per entrare nel mondo professionale,
utilizza il denaro ed altri mezzi di mercato e deve adeguarsi a norme di
legge cioè alle condizioni imposte dallo Stato.
Il TS, scrive Donati, “non può quindi essere identificato con isole di
marginalità come possono essere isolate azioni di beneficenza o
compassione, ma combina motivazioni ideali e forme di intervento efficaci
e dotate di stabilità, rispondenti a bisogni sociali non occasionali,
profondamente radicati nel tessuto sociale”.
I nuovi soggetti che costituiscono il TS, assumendo impegni e regolandosi
con diritti e doveri, saranno in grado di spostare il baricentro di quella
società che finora è stata caratterizzata dal binomio Stato-mercato.
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Un approfondimento definitorio dei concetti di volontariato, terzo settore e
welfare system, proviene da M. Corsale (1996). L’autore sottolinea che per
quanto tali concetti siano strettamente correlati, essi riguardano anche
ambiti di esperienza radicalmente differenti. Infatti spesso, dando per
scontato che il mercato appartenga all’ambito economico e lo Stato a quello
politico, si tende a ritenere che il TS appartenga alla sfera sociale. Ciò crea
una classificazione estrinseca che favorisce il radicamento dell’idea che
esistano nella realtà delle sfere di esperienza separate, di tipo appunto
politico, economico e sociale, mentre nella realtà ci sono solo esperienze
senza etichetta leggibili all’occorrenza sotto molteplici punti di vista.
Il TS comprende soggetti (per lo più collettivi, ma anche individuali), “la
cui azione sociale ha senso, almeno in prima battuta, non dal punto di vista
economico”. Vi fanno parte quindi sia soggetti politici (organizzazioni,
partiti ecc.), che sindacati ed organizzazioni professionali e di categoria, sia
soggetti religiosi, che enti culturali (ad esempio di ricerca), sia
organizzazioni sportive, assistenziali e polifunzionali o di mutuo soccorso
(self help) ed enti economici purché per statuto o per legge escludano i fini
di lucro.
Il volontariato comprende anch’esso settori non legati al Welfare (ad
esempio quello impegnato nella tutela dei beni culturali). Molte forme di
volontariato in cui la motivazione alla solidarietà è del tutto assente,
vengono ad esempio svolte sotto forma di tirocinio non pagato nella
speranza di accedere a determinate professioni ( ad esempio nelle
università), o ai margini di settori interni al sistema di Welfare (sanità,
educazione extra scolastica, ad esempio). Queste forme non dovrebbero
essere incluse nel TS, e solo in parte possono rientrare nel sistema di
Welfare. Esiste un settore di discutibile “volontariato” che viene svolto in
forma di obiezione di coscienza sostituendo il servizio militare.
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Esiste comunque, aggiunge Corsale, un vastissimo settore del volontariato
che si colloca all’interno del sistema di Welfare in cui i “soggetti collettivi
agenti” appartengono pleno jure al TS poiché non hanno finalità di lucro;
ma i soggetti individuali che vi operano all’interno, sono mossi da finalità
economico-professionali ed hanno retribuzioni e garanzie collaterali
decisamente al di sotto degli standard ritenuti accettabili dalle altre
categorie di lavoratori pubblici e privati che svolgono per professione
analoghi tipi di attività. Tali lavori vengono effettuati da quelle cooperative
sociali alle quali sono stati affidati compiti sempre più crescenti
nell’ambito del Welfare: basti pensare, ad esempio, ai servizi per gli
immigrati a cui i tradizionali servizi pubblici non avrebbero potuto far
fronte in modo efficace, mentre quelli privati non vi avrebbero ravvisato
margini di redditività adeguati.
Secondo lo stesso autore, quindi, ci sono quattro dimensioni caratterizzate
da alta elasticità, e che si intrecciano, in cui ciascun tema da trattare può
essere individuato:
1. La dimensione della natura prevalente del soggetto (economica o no-
profit;
2. Quella della afferenza o meno al sistema di Welfare;
3. Quella della motivazione prevalente del soggetto collettivo agente;
4. Quella della motivazione prevalente dei soggetti individuali che
operano all’interno del soggetto collettivo.
Così si potrà utilizzare in ogni specificità il “taglio” opportuno, e si
eviterà di assolutizzare fenomeni che invece sono legati a sfere differenti.
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1.2 Il “privato sociale”
Il concetto sociologico di privato sociale risulta, secondo Donati (1996) più
pertinente di quello di “terzo settore” precisamente perché il termine di
terzo settore indica un settore che viene dopo gli altri due ed è definito in
rapporto a quelli mentre il concetto di privato sociale “rende meglio l’idea
dell’originarietà di questa realtà sociale che consiste di sfere relazionali
che sono private nella loro gestione mentre agiscono in funzione di uno
scopo sociale di solidarietà, ovvero non per interessi strumentali”.
La realtà del privato sociale ha mille volti che vanno, secondo F. Franzoni
(1996) dal volontariato alle cooperative di solidarietà, alle cooperative di
lavoro, alle associazioni. La legge 381/1991 ha ad esempio disciplinato le
cooperative sociali distinguendole in
ξ Cooperative di tipo a che si occupano della gestione dei servizi socio
sanitari ed educativi e possono comprendere soci volontari
(raggruppa così le cooperative di servizi sociali e quelle di solidarietà
sociale;
ξ Cooperative di tipo b che attraverso lo svolgimento di attività diverse,
sono finalizzate all’inserimento lavorativo di persone svantaggiate.
L’autrice sottolinea che neanche queste tipologizzazioni riescono a
cogliere le varie sfaccettature del fenomeno della cooperazione sociale.
All’interno delle cooperative del primo tipo vi rientrano, ad esempio,
alcune che hanno raggiunto un fatturato che supera i dieci miliardi
diventando vere e proprie aziende; per contro vi sono strutture di piccole
dimensioni (ad esempio quelle nate da esperienze di volontariato cattolico)
che restano connotate ad un sistema di valori lontano da culture
manageriali.
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1.3 Le organizzazioni del terzo settore
È stata proposta da G. Rossi (1996) una distinzione delle organizzazioni
che operano nel TS nei seguenti quattro tipi:
ξ Il volontariato organizzato;
ξ La cooperazione sociale;
ξ L’associazionismo prosociale o sociale;
ξ Le “fondazioni prosociali o di utilità sociale”.
L’autrice sottolinea come queste forme organizzative no-profit hanno
assunto negli ultimi anni un certo spessore e maggiore presenza nel TS
italiano. Il volontariato organizzato si è distinto soprattutto per la capacità
di predisporre servizi difficilmente vendibili dove viene offerta
“relazionalità”. La cooperazione sociale ha trovato spazio dove era
necessario fornire servizi che richiedevano complessità organizzativa e
professionalità (con l’impiego di lavoratori retribuiti). L’associazionismo
prosociale, pur non avendo una chiara connotazione giuridica e apparendo
il meno idoneo ad operare imprenditorialmente, ha trovato uno spazio
specifico nel «favorire azioni di reciprocità» senza vendere le proprie
prestazioni e con utilizzo ridotto ai minimi termini di personale retribuito.
Le fondazioni prosociali, escludendo quelle finalizzate alla mera
distribuzione di fondi per attività sociali, culturali ecc., risultano essere le
organizzazioni forse più «fortemente strutturate, capaci di operare in modo
continuativo e professionale e spesso legate in modo determinante al
patrimonio di un mecenate» (CECOP, CGM, 1995).
L’Italia viene accomunata, in una prospettiva trans-nazionale, alla Francia
sia dalla prevalenza dell’area di servizio sociale (lì rappresenta il 30% circa
delle spese sostenute dal settore no-profit, qui è pressappoco il 25% ) sia
da una elevata presenza del no-profit nel campo dell’istruzione/ricerca, sia
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infine dal peso decisamente inferiore rispetto ad altri paesi occupato dalle
spese no-profit in campo sanitario, coperte in modo massiccio dalle
istituzioni pubbliche.
Il settore trainante è quello dell’assistenza sociale, sia per la percentuale di
personale dipendente sia per la percentuale di volontari.
Le aree di intervento del TS; i valori percentuali degli occupati, dei
volontari, delle spese e del valore aggiunto prodotto
Aree di intervento Occupati Volontari Spese Valore aggiunto totale
Cultura e ricreazione 6.3 30.3 11.4 16.2
Istruzione e ricerca
28.5 9.2 20.7 20.1
Sanità 14.1 12.8 17.8 16.7
Assistenza sociale 33.4 35.3 21.4 23.5
Ambientalismo 0.2 1.6 0.2 0.3
Promozione, sviluppo di comunità locali,
sviluppo del patrimonio abitativo.
4.5 2.9 1.6 1.6
Promozione. e tutela diritti civili 2.1 1.7 2.3 2.4
Intermediazione filantropica, promozione
del volontariato.
0.4 0.1 0.9 0.3
Attività internazionali 1.4 1.5 1.7 1.6
Organizzazioni imprenditoriali,
professionali e sindacali.
8.8 4.5 22.0 17.3
Totale settore no-profit 100.0 100.0 100.0 100.0
G. Rossi, 1996, Il caso italiano, in P. Donati, 1996, Sociologia del TS,
pag. 68