le comparse, si sgombra il set, si correggono impercettibilmente le luci
che illuminano la scena, si riposizionano davanti alla macchina da
presa gli attori. Tutto è pronto per girarne un’altra.
L’ultima fatica di Maurizio Ponzi lo ha visto impegnato
nuovamente sui set del piccolo schermo, quei set che da giovanissimo,
appena all’inizio della sua carriera, lo avevano accolto con entusiasmo
coinvolgendolo in un progetto sperimentale al fianco di altri giovani
registi che poi sarebbero diventati molto conosciuti, come Gianni
Amelio e Pater Del Monte. In quel momento la televisione era un
pratico mezzo per fare esperienza, non solo per quanto riguarda la
grammatica filmica, ma anche in quella sorta di vita parallela che si
respira sotto le luci dei riflettori, fatta di rapporti spesso passionali,
violenti o anche freddissimi, che si consumano nell’arco di pochi
giorni, al massimo qualche settimana. Iniziava per Ponzi un’esistenza
nuova, che fino a quel momento aveva appena imparato a conoscere
dopo aver girato il suo primissimo film I visionari del 1968, cogliendo
al volo la prima inattesa possibilità che il destino gli aveva messo a
disposizione. Così come incoscientemente gira la sua pellicola
d’esordio, disponendo in gran parte solo della sua personalissima
cultura cinematografica, altrettanto spensieratamente affronta gli
sconosciuti tempi e ritmi televisivi, rubando il mestiere ai registi che
girano negli studi attigui al suo e facendo tesoro della sua istintiva
capacità di montatore che già in precedenza aveva dimostrato di
possedere.
Erano però, come mai in questo frangente è più giusto affermare,
altri tempi, non deviati da una concorrenza spietata che vede i vari
programmi in guerra fra loro, e non solo fra aziende diverse, ma anche
all’interno degli stessi palinsesti.
La parola «sperimentale», che così raramente si sente anche solo
sussurrare nei corridoi delle attuali produzioni televisive, e che in
qualche modo si lega alla figura del giovane artista nello stesso tempo
desideroso di mettersi in mostra e intenzionato a trovare nuovi
tipologie espressive, affianca Maurizio Ponzi all’inizio del suo
percorso istintivo, come abbiamo velocemente osservato, ma anche
voluto e, più precisamente, desiderato. È interessante notare, a questo
punto, come il ritorno televisivo, la rinnovata collaborazione con quella
«scatola magica» contesa sempre più politicamente che culturalmente,
avvenga, invece, nel momento più maturo della sua carriera, quando
cioè quello sperimentalismo giovanile ha lasciato il posto ad esigenze
espressive che a livello stilistico non hanno più niente da chiedere. La
televisione di cui Ponzi è protagonista oggi ha tutte altre caratteristiche
rispetto a quella passata, tanto da farne solo una lontana parente.
Adesso, al posto di una regia sperimentale, se ne pretende una
ben sperimentata, che giochi al massimo su piccoli accorgimenti visivi.
Più capitali vengono investiti e meno si è propensi a rischiare di
perdere il passo con il diretto concorrente e quindi, affidarsi a chi in
fatto di esperienza non ha da imparare niente da nessuno, diventa una
oculata soluzione. Tanto più che Il bello delle donne, una super
produzione spalmata su un progetto pluriennale, doveva avere
necessariamente pochissime possibilità di fallire.
Ma fra questi due momenti televisivi così all’opposto fra loro,
uno proiettato tutto al futuro e utilizzato per gettare delle basi solide su
cui poggiare uno slancio artistico, l’altro tutto incentrato a sfruttare al
meglio quel mestiere accumulato in anni di fatica, di successi ma anche
di sconfitte, ci sono più di trent’anni di cinema in cui Ponzi è andato
ricercando una propria identità, subendo momenti di dolorosa
incomprensione ma capace anche di rimettersi in gioco per trovare
rinnovati consensi.
Se per tutti la vita in campo cinematografico non è mai semplice,
per lui, e per chi come lui parte dal gradino più basso, lo è stato ancora
di meno, costretto fin dall’inizio ad affidarsi solo al desiderio e alle
proprie capacità. Gli anni della critica cinematografica, iniziati quasi
casualmente nel 1962, saranno di fondamentale importanza, sia per
conoscere più approfonditamente un linguaggio popolarmente
assimilato nel suo risultato finale ma estremamente complesso nella
sua sintassi, sia per entrare in contatto diretto con chi si occupa già di
cinema prodotto, che poi, come Pasolini o i fratelli Taviani, saranno i
principali personaggi che lo aiuteranno ad iniziare. Ma questo
“passaggio critico”, sempre in qualche modo sbilanciato verso gli
autori, nei quali trova un’attrazione costante che conferma le sue reali
intenzioni, sviluppa in lui anche un approccio decisamente
intellettuale, che sfocerà nella realizzazione di film molto riflessivi e
intimisti, carichi di riferimenti sofisticati di estremo interesse,
sopratutto per un giovane all’esordio, ma che lo isolano dietro
un’etichetta la quale, ammetterà più tardi, egli stesso ha contribuito a
farsi affibbiare.
Ad anni di forzato esilio fanno seguito quelli della crescente
maturazione nei quali Ponzi capisce di poter continuare, attraverso un
genere di cinematografia più vicina alle grandi masse di pubblico, ad
esprimersi senza svilire i suoi propositi, anzi, riuscendo anche a
generarne di nuovi e alimentare la sua crescita. Nel periodo del
sodalizio artistico con Francesco Nuti, Ponzi comprende in quale
misura il cinema sia l’arte di collaborazione per eccellenza. Per tutta la
sua carriera si circonderà di attori dalle precise caratteristiche, che
spesso riutilizzerà più volte cercando in essi una costante ispirazione
non sempre soddisfatta, e collaboratori fidati, anch’essi magari nel
pieno della loro evoluzione professionale e artistica, come ad esempio
Maurizio Calvesi, passato con Ponzi dalla macchina da presa alla
direzione delle luci.
Dopo Son contento (1983) la carriera di Ponzi compie una svolta
evidente, contraddistinta da una filmografia a tratti incostante, spesso
soggetta a cambiamenti repentini da commedia a melodramma, e
viceversa, in seguito a cocenti delusioni causate per la maggior parte
da scelte produttive poco felici. Sarà costantemente alla ricerca di quel
filo del discorso smarrito con la rottura del rapporto con Nuti che
paradossalmente ritroverà, negli ultimi anni, in un genere
cinematografico lontano dalla commedia. In realtà Ponzi sembra
accettare con fatica questa mutazione e lo dimostrano i continui
tentativi, non tutti riusciti, di rinverdire i caratteri di un tipo di cinema
perfetto per la sua visione della vita e delle sue problematiche.
Cercherà di ritrovare in altri interpreti soluzioni diverse per le sue
esigenze ma, ad esempio, Enrico Montesano, l’attore col quale ha
lavorato di più, e Alessandro Haber lo hanno solo in parte
accontentato, l’uno troppo votato al comico, l’altro ai ruoli controversi.
Francesco Nuti, il comico di se stesso, l’ultima vera maschera
tragicomica del cinema italiano, era il suo naturale prolungamento
sulla scena ed Emilio Solfrizzi, l’ultimo volto ricorrente nei recenti
film di Ponzi, lo ricorda in qualche tratto.
I cinque capitoli del presente lavoro sono rivolti all’analisi
stilistica del percorso artistico di Maurizio Ponzi attraverso tutto l’arco
della sua carriera, osservando da vicino anche il periodo della sua
formazione fino a risalire a quella in cui, ancora bambino, veniva
catturato dai richiami che il cinema gli lanciava nei modi più disparati.
Coscienti di trovarci di fronte ad un regista espressione di una
cinematografia minore, spesso ingiustamente sottovalutata, mai vi è
stato il dubbio che egli non nascondesse dietro quella sua natura
defilata una storia affascinante da ascoltare e interessante da
riproporre, ricca di esperienze e incontri straordinari in un mondo,
seppur parallelo, popolato comunque da persone. Solo per il fatto di
essere un protagonista ancora attivissimo di quell’universo che
nell’arco di più di trent’anni è mutato, assecondando il suo carattere
soggetto alle deformazioni provocate dai cambiamenti sociali e politici,
fanno di lui una preziosissima memoria storica sulla quale sarebbe
quanto meno insensato non soffermarcisi almeno un momento.
In un’occasione egli ha affermato che «Cercare di girare un film
è la cosa più angosciante del mondo, girarlo una delle più
meravigliose». Questa frase, oltre a sintetizzare al meglio la sua
carriera spesso irta di ostacoli, nella quale il film è sempre stato una
specie di parto doloroso, intriso delle sofferenze della produzione, getta
una luce anche sulla duplice composizione dell’espressione
cinematografica, fatta insieme di organizzazione, pianificazione,
costruzione, utilizzazione di mezzi tecnici, correzione di linguaggio,
ma anche di idee sviluppate per dare visibilità ai sogni, alle angosce,
alle insofferenze, alla voglia di ridere. Un costante e indispensabile
equilibrio tra arte e mestiere, tra un uomo che rincorre i suoi pensieri e
una macchina che ha bisogno di regole per riuscire a concretizzarli. Il
cinema di Ponzi nasce essenzialmente da questa ambivalenza, il più
delle volte sfruttandone il contrasto per dargli una forma, una cifra
stilistica, ma sempre poi propenso ad esaltare la forza esercitata
dall’equilibrio dei due pesi. La perfezione si trova nella zona di
contatto che si alimenta da quel lieve gioco oscillatorio come di una
bilancia in eterna ricerca della sua stabilità.
È proprio questa maniacale ricerca che in genere è stata
fraintesa, oppure criticata aspramente quando è fallita. Se il pensiero
comune, per la verità tutto italiano, è quello di considerare buona solo
una regia evidente, virtuosistica, sbilanciata, poco è lo spazio che si
lascia a chi la intende in un altro modo. Eppure Maurizio Ponzi non ha
mancato di dimostrare che la sua visione può dare anche ottimi frutti.
Capitolo Uno
UN PERCORSO ISTINTIVO
1.1 Che cosa vuol dire regia di...?
Maurizio Ponzi nasce a Roma l’8 maggio del 1939 da una
famiglia semplice, che col cinema, dice, «non c’entrava proprio
niente». Il suo albero genealogico affonda saldamente le radici nella
città che fu degli Imperatori e dei Papi, col nonno paterno idraulico di
fiducia del Vaticano incaricato di versare l’ultima goccia di stagno
sulle bare dei pontefici:
Io sono molto romano, ma come lo era Rossellini, non come il
cinema italiano vuole far credere che sono tutti i romani. Quella
saggezza, quella pigrizia, quel po’ di cinismo, che non ha niente a
che vedere con la strafottenza del romano trasteverino. Magari i
miei nonni li ritrovi in un film di Luigi Magni.
1
La madre è una pellicciaia, poi casalinga a tempo pieno; il padre
è direttore di un negozio di tessuti nel quartiere San Silvestro. Ma,
contrariamente a quanto si possa pensare, non sono genitori propensi
ad avviare il bimbo a bottega. L’umile ambiente familiare e il duro
periodo del dopoguerra non gli impediscono di frequentare la scuola e,
fin da subito, le sale cinematografiche e i teatri, i più immediati ed
economici divertimenti per un’Italia che proprio in quegli anni
1
Tratto dalla conversazione, non inserita all’interno di questa Tesi, riguardante la biografia di
Maurizio Ponzi.
riprendeva coraggio. È proprio la mamma, vera appassionata, che tutti i
giorni porta il figlio con sé al cinema, mentre il padre, autodidatta,
fedele lettore de «l’Unità» e di «Paese Sera», un uomo semplice ma
che cerca sempre di darsi a buone letture, spinge il piccolo Maurizio ad
andare a vedere film di alto spessore, come ad esempio Senso (1954) di
Visconti, rimproverando la moglie che invece lo trascina sempre nelle
sale dove proiettano Bellezze al bagno (Bathing Beauty di George
Sidney, 1944):
L’avrò visto dieci volte con mia madre. La faceva ridere Red
Skelton. Tutte le volte che facevano Bellezze al bagno andavamo a
rivederlo.
2
È in una di queste serate dedicate allo spettacolo che Ponzi
assiste col padre, al Teatro Eliseo, alla rappresentazione di Filumena
Marturano con Titina De Filippo. È ancora molto piccolo e di quella
sera ricorderà sopratutto l’atmosfera dell’evento, la folla dentro il
teatro, più che lo spettacolo in sé, ma questo è sufficiente per smuovere
qualcosa nell’animo del futuro regista.
All’inizio, dunque, sono i genitori che, in una sorta di inconsueto
liberalismo, spingono il figlio all’arte e alla cultura, ma ben presto sarà
proprio lui, come a dimostrazione di essere un campo fertile per quella
semina, a non nascondere una sottile curiosità e una spinta
incontrollata per quel mondo. Un giorno all’uscita dal cinema
Brancaccio, mentre cammina al fianco della madre, le chiede: «Che
2
Tratto dalla conversazione non inserita.
cosa vuole dire regia di...?». Una domanda alla quale seppe rispondersi
solo qualche tempo dopo. In quel momento non ha ancora ben chiaro
se, in un film, quello sia il ruolo più importante o quello di minor
rilievo visto che appare per ultimo nei titoli di testa. A tredici anni
viene a sapere che vicino casa sua stanno girando una scena di un film
con Lucia Bosé. Si precipita a capofitto fino in Via Tasso dove però la
troupe sta già in parte smontando e dove riesce a notare solo l’attrice
Leda Gloria. Ne rimane ovviamente deluso. Il film era Le ragazze di
piazza di Spagna (1952) di Luciano Emmer.
Ma quella strada, che tanto lo affascina e che ancora vede
confusa davanti ai suoi occhi, lo conduce anche verso il teatro. È come
se il giovane Ponzi in questo periodo andasse alla ricerca delle
emozioni giuste, di quelle che gli avrebbero schiarito le idee e che,
come vedremo, una volta limpide, in età più matura, gli fecero
prendere una delle decisioni più difficili e sofferte della sua vita.
Contrariamente a quanto fanno i suoi compagni Ponzi è un avido
lettore di commedie e compra regolarmente «Sipario» e «Il Dramma»,
due periodici teatrali. Il suo non è un folgorante innamoramento per il
teatro in sé ma, in realtà, un richiamo istintivo verso la pagina fitta di
dialoghi, l’unica cosa che possa ricordargli da vicino una sceneggiatura
cinematografica: «In quelle pagine», dice, «ci vedevo i dialoghi dei
film». Nello stesso periodo riesce ad entrare in un gruppo di claque in
modo da poter andare a teatro senza pagare. Per alcuni anni segue con
passione gli spettacoli in cartello nei teatri romani e una sera, una di
quelle rappresentazioni, aggiunge un tassello alla sua sensibilità di
artista che inconsapevolmente si sta formando.
Al Teatro delle Arti, Visconti mette in scena La Contessina
Giulia di Strindberg, con Massimo Girotti, Lillà Brignone e Ave
Ninchi. Il giovanissimo Ponzi ne rimane folgorato ma ci ritorna una
seconda volta per capire meglio la ragione di quella folgorazione. La
regia di Visconti gli appare indubbiamente impeccabile ma in realtà è
la presenza sulla scena di Ave Ninchi a colpirlo maggiormente:
[...] per me era la moglie di Fabrizi nei film comici. Vedere Ave
Ninchi fare Strindberg a teatro mi illuminò su cosa volesse dire
fare l’attore. Quella cosa mi marcò molto.
3
Non è tutta la messa in scena, dunque, a colpirlo, ma un elemento di
essa: la recitazione.
Continuando a frequentare i teatri affina un marcato interesse
anche per un altro aspetto che fin da subito gli appare di fondamentale
importanza: la scenografia. La sua attenzione cade sempre su come lo
scenografo abbia curato la scenografia nei cambi di scena, non
mancando di essere critico nei confronti di stravolgimenti scenografici
rispetto alle didascalie indicate dall’autore:
Se avessi fatto il regista teatrale avrei rispettato il testo e questo mi
avrebbe messo automaticamente fuori gioco, mi avrebbe fatto
sembrare sorpassato.
4
3
Tratto dalla conversazione non inserita.
Il teatro, come abbiamo visto, non lo coinvolge in pieno anche
se, lo scopriremo trattando più approfonditamente i suoi film, egli vi
attinge spesso soprattutto per quanto riguarda un discorso pirandelliano
di travestimento, di personaggi che si mettono in scena, sul fingere di
essere quello che non si è.
Quello che lo colpisce, dunque, sono essenzialmente due
elementi: la parola («Nel teatro la parola degli attori è la cosa più
importante») e la scenografia («La regia si, però...se avessi fatto teatro
avrei dato molto peso alla scenografia, addirittura avrei cercato di farla
da me»). Sono queste le cose che gli appaiono più significative, e non
la regia che tutt’al più reputa impeccabile, ma mai fondamentale:
E poi il solo fatto di lasciare gli attori soli alle repliche mi ha
sempre fatto sembrare la regia teatrale una cosa meno importante.
5
Sembra ormai che nella sua testa inizino a formarsi delle idee
precise. Quell’esperienza teatrale gli lascia l’amaro in bocca. Il teatro
non è la sua stazione d’arrivo, sente che quello non è il posto giusto per
lui: gli attori e lo scenografo hanno un loro spazio importante, non il
regista. Inoltre, più frequenta il teatro e più lo vede come un mondo
aristocratico, lontano da sé e dal suo immaginario che, invece, si
identifica sempre di più con il cinema.
4
Tratto dalla conversazione non inserita.
5
Tratto dalla conversazione non inserita.
Ma questa identificazione, questa sorta di attrazione inconscia,
che come abbiamo visto si fa più forte e viene confermata solo dopo
essere passato per il teatro, non si sviluppa certo all’istante ma ha
bisogno di attraversare un percorso di formazione che appare quanto
meno istintivo.
1.2 Gli anni della scuola
Un giorno suo padre porta a casa una copia del «Corriere dei
Piccoli» e per lui è una vera e propria illuminazione:
Quel giorno ho scoperto i fumetti ed è stata un’altra ubriacatura,
con grande violenza come mi capita sempre. Non leggevo nessun
giornaletto e da quel momento ho iniziato a comprarne
venticinque a settimana. La mia vita era fatta tutta per rimediare
dieci lire per andare a comprare «Jim Toro», «Kansas Kid», «Il
Piccolo Sceriffo», «Sciuscià». Era una valanga, li adoravo, li
leggevo tutti. E lì mi divertivo a vedere come già nel disegno
esista la scansione del montaggio cinematografico, erano degli
storyboard meravigliosi. Vedevo come i tempi alle volte fossero
dilatati, quando una vignetta risolveva tutta una situazione, quando
invece ce ne volevano cinque. Ho avuto questa cotta fino a tredici
- quattordici anni. Poi uno i fumetti li abbandona perché sembrano
stupidaggini. Li ho buttati tutti con gran pentimento.
1
Verso i quindici anni scorge, esposta in bella mostra in
un’edicola, il numero 57 di «Cinema Nuovo» con in copertina
Eleonora Rossi Drago ne Le amiche (1955) di Michelangelo
Antonioni. Vuole quella rivista a tutti i costi e convince la madre a
comprargliela.
Se ci lasciamo prendere dalla vena poetica, o solo da certe
credenze secondo le quali le coincidenze non sono mai sole
1
Tratto dalla conversazione non inserita.
coincidenze, potremmo sostenere che in realtà fu la Rossi Drago che
attirò a sé l’adolescente Ponzi. Comunque la si pensi resta il fatto che
quest’incontro gli aprì in qualche modo le porte di un nuovo percorso
che vedremo essere di fondamentale importanza per il futuro regista.
Certo l’impatto non è dei più piacevoli. Quella rivista gli sembra
astrusa, troppo su di tono e certamente non adatta alla sua giovane età
(«[...] era un modo di parlare di cinema che mi risultava difficile»)
2
, ma
non si perde d’animo e invece di abbandonare decide di spostarsi su
altri fronti. Le sue letture preferite diventano allora «Hollywood»,
«Novelle Film», i cineromanzi, il primo grado insomma. Per un paio
d’anni, prima di tornare a comprare pubblicazioni più tecniche, come
appunto «Cinema Nuovo», colleziona riviste con le facce dei divi che
sorridono dalle copertine patinate.
Ecco tornare nuovamente quel suo procedere a tappe, senza salti
improvvisi ma, anzi, con veri e propri periodi di assaporamento, come
quando un degustatore di vini, prima di dare un responso, guarda e
odora con attenzione il prezioso liquido, poi ne sorseggia una piccola
dose facendola scivolare in bocca prima da una parte poi dall’altra
aiutandosi con la lingua, e poi deglutisce. In realtà è solo il
comportamento di un ragazzo che procede un passo alla volta
assorbendo ricordi ed emozioni da ogni momento della sua vita.
Il cinema è un nuovo mondo tutto da scoprire che non si spegne
quando le luci della sala si riaccendono; lo schermo non è più una
2
L’argomento di quel numero di «Cinema Nuovo» è Il cinema e la resistenza, con articoli scritti,
tra gli altri, da CesareeZavattini, Franco Antonicelli, Renzo Renzi, Italo Calvino, Callisto Cosulich.