Lo scopo di questo lavoro è quello di esplorare il fenomeno dell’alcolismo da un punto di vista
teorico che possa contribuire a fornire una spiegazione dei numerosi fa ttori in gioco nella sua
determinazione; alla base della dipendenza da sostanze alcoliche sono stati, infatti, elencati
generalmente fattori biologici, psicologici e sociali, ma non è stato ancora delineato un modello
teorico abbastanza ampio da poter unificare tali variabili in un principio interpretativo
multidimensionale. Uno degli approcci teorici che potrebbe offrire un valido contributo è quello
gruppoanalitico, in quanto la sua impostazione epistemologica si rivolge proprio allo studio della
molteplicità, nel riconoscimento della diversità e della reciproca compresenza dei fattori. Il tentativo
di fornire un nuovo modo di intendere la dipendenza dall’alcool non corrisponde alla ricerca di un
ulteriore modello etiologico, bensì coincide con un lavoro di ripensamento teorico dei fattori
chiamati in causa dai diversi approcci per rendere, da un lato, meno astratto il ricorso ad alcune
variabili causali e, dall’altro, per mantenere sempre in costante rapporto tra loro tali fattori.
Riporterò alcuni casi clinici tratti dalla letteratura e delle testimonianze riportate da alcolisti o dai
loro familiari, per introdurre la questione di quanto sia complesso il fenomeno dell’alcolismo.
L’interesse per tale fenomeno, inoltre, nasce dalla rilevante frequenza di uso di sostanze
alcoliche nella specifica realtà italiana e, contemporaneamente, dalla sua diffusione sotterranea e
nascosta che da sempre ha portato a sottovalutarne l’entità reale. Alcuni dati epidemiologici
rendono il quadro generale molto chiaro ed incisivo; l’Italia è il secondo produttore mondiale di
alcolici e questo aspetto è molto importante per comprendere il rapporto e gli atteggiamenti della
popolazione generale nei confronti di tali bevande. Da un rapporto relativo agli anni 1994/95
l’andamento della produzione industriale di alcolici ha registrato le seguenti variazioni:
Andamento della produzione dell’industria delle bevande (1994/1995)
1994 var % 94/95
Alcolici distillati 90.2 -15.5
Alcol etilico di fermentazione 96.7 9.2
Vino 130.6 -1.7
Birra 91.2 8.4
Acque minerali e bevande analcoliche 120.1 1.7
Industria delle bevande 110.3 1.2
Totale industria alimentare 104.6 0.7
Totale industria 101.2 7.8
I dati più rilevanti che si evincono da tale tabella riguardano il calo, anche se poco
significativo, nella produzione di vino (-1,7), mentre risulta aumentato il valore relativo alla birra (+
8,4), in misura alquanto significativa; infatti, nel complesso, l’industria complessiva delle bevande
ha registrato in ogni caso un andamento positivo, di circa il 7,8. L’andamento di tali valori è più
facilmente rilevabile attraverso il seguente grafico:
Il consumo di alcolici registrato al 1979 nei diversi paesi e calcolato per abitante, in litri per anno è
riassumibile dalla seguente tabella (anno 1979):
0 20 40 60 80 100 120 140
1994
var %
94/95
Totale industria
Acque min. e
bevande anal.
Birra
Vino
Alcol etilico di
fermentazione
Alcolici distillati
Nazione Vino
in litri
Birra
in litri
Nazione Vino
in litri
Birra
in litri
Francia 92.6 45.6 Svizzera 46.2 68.2
Lussemburgo 39.4 112 Cecoslovacchia 17.5 139.7
R.T.F. 24.3 145.1 Australia 16.5 134.2
Italia 90 16.9 Nuova Zelanda 11.3 118.7
Belgio 20.4 126 Canada 8.1 84.2
Paesi Bassi 12 84.9 R.D.T. 8.1 134.3
Danimarca 13.9 120.3 Stati Uniti 7.6 92
Irlanda 4.7 122.7 Romania 35 37
Gran Bretagna 7.1 122.1 Polonia 9.8 30.9
Grecia 41 26 Finlandia 8.2 56.2
Spagna 70 53.7 U.R.S.S. 14 24
Portogallo 86 35 Svezia 9.4 48.2
Ungheria 35 86 Giappone 0.5 38.9
Argentina 77 7.7 Norvegia 3.7 45.9
Austria 35.8 103.9
Dalla tabella risulta, dunque, che l’Italia (90 litri pro capite) è seconda solo alla Francia (92,6 litri pr o
capite), per il consumo di vino medio annuale; mentre i dati relativi al consumo di birra non risultano
altrettanto alti rispetto agli altri paesi; ciò conferma che il modello culturale del bere mediterraneo è molto
diverso da quello, ad esempio, relativ o alla Gran Bretagna, in cui i dati presentano un andamento speculare
(7,1 litri pro capite di vino, 122,1 litri pro capite di birra). Dai dati più recenti relativi ai rapporti Eurostat del
1992, si osserva che la diminuzione delle quantità di alcolici (vino, birra e superalcolici) pro capite è
continua, essendo passata da 33.3 litri pro capite nel 1989 a 25.3 litri nel 1992.
L’Osservatorio Permanente Giovani e Alcol di Roma (1993), inoltre, ha fornito alcuni dati relativi ai
comportamenti di consumo alcolico diffusi nella popolazione italiana, rendendo evidente la numerosità e la
diffusione di alcolici tra uomini e donne e secondo le diverse fasce di età.
12
28
7
0
2
4
6
8
10
12
14
16
18
20
22
24
26
28
milioni
Suddivisione della popolazione italiana secondo i
comportamenti di consumo alcolico
Astemi
Bevitori regolari
Bevitori occasionali
Il numero dei consumatori abituali, difatti, raggiunge i 28 milioni rispetto al numero esiguo di bevitori
occasionali (7 milioni) e di astemi (12 milioni).
Un’ulteriore differenziazione è stata fatta distinguendo la popolazione italiana in base al sesso dei
consumatori:
Suddivisione della popolazione italiana secondo i comportamenti di
consumo alcolico (valori %)
Consumatori
regolari
Consumatori
occasionali
Non consumatori
Uomini 76,2 10,9 12,9
Donne 43,1 18,0 38,9
Totale 59,0 14,6 26,4
Dal grafico successivo, vediamo quindi la distribuzione in percentuale di uomini e donne all’interno
delle tre categorie di bevitori sopraindicate, da cui si evidenzia la maggiore numerosità di consumatori
abituali di sesso maschile ed un numero rilevante di donne non consumatrici di alcolici:
Infine, secondo una classificazione operata in base alle diverse fasce d’età, il consumo eccessivo è più
frequente tra i 18 e i 24 anni, laddove i fenomeni di ubriachezza si osservano in misura maggiore nelle età
comprese tra i 35 e i 54 anni (vedi tabella successiva).
Comportamenti di eccesso o di ubriachezza nella popolazione in
percentuale (suddivisione per età)
Età Consumo eccessivo Ubriachezza
15-17 7,2 0
18-24 11,2 2
25-34 10,8 2,2
35-54 6,5 2,5
> 54 6,8 1,9
76,2
43,1
10,9
18
12,9
38,9
0
10
20
30
40
50
60
70
80
Consumatori
regolari
Consumatori
occasionali
Non
consumatori
Uomini
Donne
Da cui il grafico:
Altri dati evidenziano la profondità con cui si è radicato culturalmente il consumo di alcolici nelle
diverse situazioni ed occasioni di incontro, dimostrando che l’uso di tali sostanze è molto più frequente,
soprattutto tra i giovani, di quanto si possa immaginare. I due grafici che seguono illustrano questo aspetto
relativamente alla popolazione giovanile italiana:
Compagnie con cui si consumano alcolici
Bevande Contesto
Birra
Aperitivi e digestivi
Superalcolici
86%
78%
85%
Altri giovani e amici
Vino
88%
Familiari e altri adulti
Luoghi ed occasioni di consumo secondo le diverse bevande
Fuori casa
Birra
}
Ai pasti/ristorante 58%
Bar 27%
Casa di amici, feste, discoteca 27%
A casa fuori pasto 8%
Ai pasti
Vino }
In casa 78%
Fuori casa 18%
Fuori casa
Amari
Aperitivi
Digestivi }
Al bar 49%
Al ristorante/pizzeria 18%
A casa di amici, feste, discoteca 32%
Fuori casa
Superalcolici }
Al bar 34%
In discoteca 33%
A casa di amici, alle feste 26%
Da questi dati, risulta quindi che il consumo di birra è più molto legato a contesti extrafamiliari e a
momenti di riunione con amici, in luoghi come il ristorante, il bar e la discoteca; un andamento simile è
7,2
11,2 10,8
6,5 6,8
0
2 2,2 2,5 1,9
0
2
4
6
8
10
12
Consumo eccessivo Ubriachezza
15-17
18-24
25-34
35-54
> 54
Età
riscontrato per le altre bevande alcoliche, come aperitivi e superalcolici. Al contrario il vino è per lo più
consumato in famiglia (78-88%) e preferibilmente durante i pasti.
La ricerca epidemiologica sul consumo di alcolici è importante per rendere evidente la rilevanza del
problema connesso al loro uso e abuso e soprattutto, quindi, ci offre delle stime chiare ed informative
sull’incidenza di malattie, mortalità, crimini e infrazioni correlate ad essi. Riguardo alla mortalità per cirrosi
epatica correlata all’abuso di alcool, l’Italia raggiunge e supera le ventimila unità all’anno; questo dato
allarmante è inoltre confermato dall’incidenza di ricoveri nei presidi psichiatrici, soprattutto nelle regioni del
Nord.
Questi aspetti, qui semplicemente accennati, confermano la necessità non solo di politiche di intervento
pubblico volte alla salvaguardia della salute e del benessere dei cittadini, ma impone anche un continuo
sviluppo ed approfondimento teorico/clinico del fenomeno a tutti i livelli in cui esso si manifesta.
Le ricerche e le spiegazioni specificamente biologiche, psicologiche o
sociologiche rendono difficile integrare le conclusioni derivanti da impostazioni così
diverse tra loro, mentre l’unica affermazione che possiamo rintracciare in quasi tutte
le opere riguardanti l’alcolismo è l’ammissione di trovarsi di fronte ad un fenomeno
molto complesso.
La complessità dell’alcoldipendenza sarà chiara non appena si incomincerà a descrivere gli studi che si
sono susseguiti sull’argomento e soprattutto quando ci si troverà di fronte alla variabilità delle forme cliniche
di questa «malattia». Già il concetto proprio di «malattia» sembra spesso inadeguato a definire questo
variegato quadro sintomatologico e patologico, in cui si sovrappongono motivazioni psicologiche ed affettive
alle conseguenze più propriamente fisiche e biochimiche conseguenti all’assunzione continuata di alcool.
Alcuni autori hanno, infatti, proposto l’utilizzazione della definizione di «malattia» solo dopo che si sia
instaurato il complesso processo fisiologico di modificazione a livello soprattutto cerebrale, successivo
all’introito eccessivo di sostanze alcoliche. Tali autori ritengono, quindi, preferibile parlare di «sintomo» nel
momento in cui l’alcolismo rappresenta un comportamento dipendente nei confronti di una sostanza che non
può prescindere dalle motivazioni psicologiche sottostanti alla ricerca degli effetti prodotti dall’alcool.
Questi due momenti di sintomo e malattia possono essere intesi in termini temporali, ma sarebbe più
adeguato considerarli come due aspetti concomitanti di un problema che, per come si presenta clinicamente,
è psicologico e biologico insieme.
Nell’ambito di tale panoramica, il modello gruppoanalitico viene presentato in relazione a ciascuno di
questi orientamenti con lo scopo di fornirne una diversa impostazione epistemo-metodologica, che non
intende sostituire semplicemente il linguaggio specifico di un orientamento scientifico con un altro, bensì
tende ad inserire i risultati di ciascun settore in un quadro teorico più ampio.
La scelta di utilizzare il modello gruppoanalitico, pertanto, include una riflessione sull’impostazione
epistemologica che caratterizza tale or ientamento, la quale risulta in diretta continuità con la profonda
trasformazione dell’ultimo Novecento negli apparati teorici e metodologici della psicologia clinica.
Introdursi all’interno della letteratura psicologica degli ultimi anni vuol dire immergersi in una nuova
consapevolezza epistemologica derivata da un lungo processo di ripensamento scientifico che ha condotto
alla rottura dei criteri classici della stessa scientificità. Sono stati messi in discussione i vecchi punti saldi del
riduzionismo e del causalismo deterministico, così come “l’introduzione della problematica della
complessità e dell’intersoggettività come parametro di «verità»”1 rappresentano attualmente i riferimenti
epistemici della nuova scienza teorica.
“La storia della complessità - infatti - rimanda all’intera storia della nostra tradizione scientifica ed
epistemologica. [...] nelle scienze umane si delinea la possibilità di un approccio alla natura umana non
mutilante, in grado di concepirla come completamente biologica e completamente culturale a un tempo,
studiabile solo attraverso la messa in relazione di molteplici dimensioni isolate in campi disciplinari
differenti” 2. Lo studio dell’essere umano, allora, evolve attraverso il sostegno di un pensiero ecologico.
La «rivoluzione paradigmatica» operatasi nell’ultima parte del nostro secolo ha preso le mosse da
alcune nuove consapevolezze; a partire dagli assunti della teoria della relatività e del principio di
indeterminazione di Heisenberg, si è smorzata la fedeltà nei «dati» esistenti in quanto tali, ed è emersa una
coscienza critica che riesce a vedere in essi il risultato del modo particolare di segmentare la realtà proprio
dell’osservatore, non scevri, dunque, dalla particolare visione del mondo di cui egli è portatore. In questo
assunto rintracciamo uno dei principi alla base del paradigma della complessità, ovvero quello della
1 Lo Verso G., Le relazioni soggettuali, Bollati Boringhieri, Torino, 1994.
2 Bocchi G., Ceruti M. (a cura di), La sfida della complessità, Feltrinelli, Milano, 1985.
relazione tra l’osservatore e l’oggetto osservato che porta alla necessità di introdurre il soggetto umano nel
processo di costruzione della conoscenza.
Così Maturana e Varela esprimono tale consapevolezza: “Tutto ciò che è detto, è detto da un
osservatore. L’operazione cognitiva fondamentale che un osservatore esegue è l’operazione di distinzione.
Con questa operazione l’osservatore specifica un’unità come entità distinta da uno sfondo, e uno sfondo
come il dominio nel quale un’entità è differenziata”3.
La termodinamica, la teoria evoluzionistica ed i progressi delle varie scienze della fisica, biologia e di
quelle cognitive, inoltre, convergono in una prospettiva di un universo incerto, non più dominato dagli stati
di equilibrio, dall’uniformità delle situazioni e dalla assolutizzazione atemporale delle leggi; tali
caratteristiche possono essere espresse attraverso i concetti di Morin 4 dell’ordine, disordine, sistema e
organizzazione. L’idea di ordine, in particolare, non si identifica più con quella di legge anonima e suprema,
ma contiene in essa la relatività rispetto alle singolari condizioni di formazione ed esistenza stessa del
sistema; all’interno di tale sistema viene, poi, introdotta la qualità di creatività data dalla nozione di disordine
implicante la possibilità di incidente e perturbazione. La stessa concezione di sistema è orientata in direzione
di una unità complessa regolata dalle interrelazioni tra le parti ed il tutto, la quale è al tempo stesso
produttrice di unità e diversità; ciò che, infine, definisce il sistema è la sua organizzazione, o meglio
l’autoorganizzazione attiva che è alla base dell’evoluzione del sistema stesso. Ne emerge, quindi, una nuova
visione della realtà, interpretabile come sistema ed insieme di sistemi in continua evoluzione, autopoietici in
quanto “chiusi (autonomi, con una propria identità) dal punto di vista dell’organizzazione [...]; dall’altra
parte sono sistemi aperti (dipendenti), in quanto il loro comportamento è influenzato dalle perturbazioni
dell’ambiente...”5.
Non entriamo nel merito della questione della concettualizzazione di sistema nel pensiero di Maturana,
la quale esula dal discorso che tratto in questa sede, ma si deve riconoscere nel suo contributo, in
continuità/discontinuità con l’eredità di Bateson, un importante riferimento per la costruzione epistemologica
delle scienze sociali alle quali entrambi hanno fornito un substrato biologico. Ciò che vorrei sottolineare,
3 Maturana H.R., Varela F.J., Anthropopoiesis and Cognition, Reider, Dordrecht, 1985; (trad. it. La realizzazione del
vivente, Marsilio, Venezia, 1990).
4
Morin E., La méthode vol. I, La nature de la nature, Seuil, Paris, 1977; (trad. it., Il metodo, Feltrinelli, Milano, 1983).
invece, funzionalmente al mio discorso, è la relativizzazione di ogni evento o cambiamento implicita nella
sua concezione di determinismo strutturale; questo coincide con l’organizzazione interna del sistema che
definisce le possibilità di azione e risposta dello stesso a qualunque stimolo. Un esempio può aiutare a
comprendere meglio tale concetto; nel biliardo il giocatore colpisce la palla la quale fa fare carambola alla
palla che era ferma. La più immediata schematizzazione di tale fenomeno ci condurrebbe alla sequenza
causale giocatore-palla -carambola; tale punteggiatura dell’interazione, però, ci fa ignorare il fatto che è la
struttura della palla ferma a determinare la possibilità di essere messa in movimento ed in che modo.
In questo modo, Maturana ci conduce all’assunto che la reazione di un sistema a qualunque evento non
è determinata causalmente dall’evento esterno, bensì dipende dalla struttura interna del sistema, ovvero dalla
«sua» disposizione a determinate azioni/cambiamenti.
Così, se ci si sposta al livello prassico, si riconosce la difficoltà che spesso si incontra nella tecnica
terapeutica o educativa per la mancanza di una unica modalità di azione efficace per tutti i soggetti; “i metodi
educativi di una madre possono funzionare bene con il primo figlio, ma fallire miseramente con il secondo.
Perché? Perché è la struttura del bambino che determina come si comporterà, non i metodi pedagogici della
madre”6.
Il più grosso limite denunciato alle teorizzazioni psicologiche e psicoanalitiche passate, dunque,
consiste nel cosiddetto «come se» teorico-clinico, ovvero l’assolutizzazione della propria teoria e prassi.
Esse, viste dall’ottica suaccennata, infatti, non sono altro che “la forbice attraverso cui viene ritagliato un
pezzo dell’esperienza”7; d’altronde, il «come se», ovvero il proporre che l’oggetto sia solo quello ritagliato e
guardabile solo in tale contesto con quella determinata griglia teorica, è una condizione-base del pensiero
umano il quale possiede le caratteristiche della linearità e segmentazione. In tal modo, e solo con esso, il
nostro pensiero può fare fronte alla simultaneità delle sensazioni che provengono dall’esterno sostituendo al
flusso continuo di tali percezioni, delle rappresentazioni di un mondo ordinato secondo categorie distinte.
Ritorniamo, allora, al problema posto inizialmente, della continua frammentazione dell’immagine del
genere umano, laddove probabilmente esiste una continuità assoluta. Nel campo della ricerca psicologica,
5 Dell P.F., Bateson e Maturana: verso una fondazione biologica delle scienze sociali, in "Terapia Familiare", ITF, n°21,
Luglio 1986.
6 Dell P.F., Bateson e Maturana: verso una fondazione biologica delle scienze sociali, Op. Cit..
7 Lo Verso G., La gruppoanalisi fra istituzione esterna e interna, in "Quaderni di psicoterapia di gruppo. Formazione
Trasformazione", vol.4, Ed. Borla, Roma.
infatti, il «come se» ha portato a dei “paradossi quali quello di considerare l’uomo come una monade isolata
e isolabile, o viceversa di considerare astrattamente il sociale”8. A questa delimitazione si è opposto il
pensiero di Bateson che spiega, all’interno della sua epistemologia cibernetica, il comportamento di un
organismo nei termini “dell’organismo come parte interagente di una mente più ampia”; allo stesso modo,
l’unità fondamentale dell’evoluzione non è più il singolo organismo, bensì l’organismo-più -l’ambiente.
Da ciò deriva la necessità di istituire una impostazione in grado di cogliere la complessità dei fenomeni
attraverso l’esplicitazione delle relazioni che li definiscono; attualmente l’acquisizione più significativa degli
scienziati è proprio l’impossibilità di ritenere gli oggetti isolabili dai contesti nei quali vengono osservati.
“Qualsiasi tentativo, dunque, che non contestualizzi il fenomeno in osservazione, mettendo in chiaro la
composizione del «campo» dentro cui esso si colloca [...] risulta necessariamente parziale”9.
In generale, l’ontologia biologica di Maturana e l’epistemologia cibernetica di Bateson convergono, pur
con le dovute differenze, nel fornire una base alle scienze sociali poiché fanno riferimento al problema
dell’osservatore, allo status epistemologico dell’oggettività e alla relazione tra scienze naturali e scienze
sociali.
Il risultato di queste discussioni teoriche è in linea con il dato di fatto della relatività della percezione e
trattamento della patologia in ambito clinico; è evidente, infatti, che un freudiano classico, in base alla
epistemologia propria della sua impostazione, può individuare un complesso edipico, laddove un kleiniano
descriverà un’identificazione proiettiva. Allo stesso modo, un terapista familiare strutturale osserverà i
confini del sistema che ha di fronte, mentre un terapista familiare strategico “vedrà l’applicazione reiterata
della stessa soluzione ad un problema”10.
Il dibattito contemporaneo si infiamma, allora, riguardo alla necessità di una maggiore
responsabilizzazione scientifica, come invito ad integrare la soggettività ed oggettività del proprio approccio;
ogni criterio ed impostazione teorica è una questione di scelta. Ogni osservatore “sa di portare sempre con sé
il peccato originale della sua limitatezza”11; ma se l’obiettivo è quello di comprendere meglio una realtà
8 Lo Verso G., La gruppoanalisi fra istituzione esterna e interna, in "Quaderni di psicoterapia di gruppo. Formazione
Trasformazione", Op. cit..
9 Lo Verso G., Le relazioni soggettuali, Bollati Boringhieri, Torino, 1994.
10 Dell P.F., Bateson e Maturana: verso una fondazione biologica delle scienze sociali, Op. Cit..
11 Ceruti M., La danza che crea, Feltrinelli, Milano, 1989.
altrimenti inafferrabile, l’unico strumento è di immergersi in essa, tenendo presente quei principi che Morin
ha così esemplificato. La prima costante metodologica e concettuale è, come abbiamo già visto,
l’impossibilità di isolare le unità elementari e semplici su cui si basa l’universo fisico; il principio di base è
che risulta impossibile conoscere le parti senza conoscere il tutto così come conoscere il tutto senza
conoscere precisamente le parti.
Questo principio rimanda immediatamente ad un altro criterio epistemologico, per il quale si può
operare una distinzione ma non una disgiunzione tra l’oggetto ed il suo ambiente. Particolarmente saliente
per questo lavoro è l’assunto che la conoscenza di un’organizzazione biologica è necessariamente legata alla
conoscenza delle sue interazioni con il suo ecosistema.
Il mio proponimento, dunque, di fornire un modello che da un lato si adegui alle nuove esigenze
epistemiche e dall’altro riconosca il proprio oggetto di studio nella sua complessità, deve fare i conti con il
riconoscimento dei limiti della dimostrazione logica esaustiva e congruente con i classici metodi di
validazione scientifica.
La scienza dell’uomo e la tecnica psicoterapeutica può essere considerata come una ricerca-azione che
si svolge tramite relazioni interpersonali; la complessità dell’oggetto specifico risiede proprio nei sentimenti,
nell’ordine simbolico, nella soggettività e nella relazione, per cui la tecnica di indagine e di cura della
dimensione psichica umana devono necessariamente tenere conto di tali fattori.
Perfettamente calzante a tale riguardo è l’interrogativo posto dal filosofo americano Kurt Baier: “che
senso avrebbe occuparsi del dolore senza una persona che soffre?”12. Apparentemente banale, tale domanda
riconosce la specificità dello studio e della cura dell’essere umano; l’esperienza reale, fenomenologica,
infatti, ci propone non tanto quel dolore in astratto, ma dei singoli esseri che soffrono, i quali “recano
costitutivamente nel loro soffrire tutta una somma di attribuzioni di senso, di percezioni e autopercezioni, di
investimenti affettivi, esistenziali ed etici da cui è difficile prescindere quando si esamina il dolore
effettivamente vissuto”13.
Il fatto è che “gli esseri umani risultano avere molte proprietà che il resto della natura [...] non ha. Essi
possono pensare, agire, percepire, provare emozioni. Gli alberi, le case, i tavoli non possono. [Impiegare] la
12 Baier K., Smart of Sensations, in Borst C.V. (a cura di), The Mind/Brain Identity Theory, MacMillan, London, 1970.
13 Lo Verso G., Le relazioni soggettuali, Op. Cit..
nozione di persona implica essenzialmente analizzare queste peculiari proprietà”14. Tale aspetto è,
d’altronde, perfettamente in sintonia con i principi della complessità precedentemente discussi, in quanto
l’implicazione di tale idea è che la persona è il punto di vista che costituisce i fenomeni psichici, ovvero li
organizza in un sistema gestaltico di rappresentazioni, di significati ed interpretazioni. In pratica, la
rivalutazione della specificità individuale parte dall’osservazione nella clinica che la stessa patologia assume
«significati» diversi a seconda del soggetto singolo e conduce alla presa di coscienza della non-
riconducibilità dell’agire umano ad una somma di funzioni e prestazioni standard. Infatti, molto spesso la
scoperta di determinate funzioni oggettive, organiche o psichiche, si trasforma nell’interpretazione di queste
quali forme necessitanti o condizionamenti determinanti i comportamenti dell’essere umano. In realtà,
l’esistenza fattuale dell’uomo non è completamente comprensibile alla luce di tali constraints generali, bensì
si realizza in forme e significati che eccedono di gran lunga dalle linee indicate da tali imprintings.
Riprendendo una metafora di Moravia 15, si potrebbe intendere la vita del soggetto come un dramma teatrale
che parte da un certo canovaccio, ma poi si realizza nella direzione di una certa libertà e contingenza.
Ugualmente, per quanto riguarda la fondazione biologica dell’uomo, il filosofo Max Scheler sostiene che
l’uomo si differenzia dagli altri animali avendo “la possibilità di conoscere ed agire sulle cose
indipendentemente dal loro stretto interesse biologico” 16.
Così dal versante antropologico, la gruppoanalisi si affianca alla concezione della specificità umana
produttrice di cultura; essa è, infatti, la natura specifica dell’uomo, in quanto egli non dispone,
differentemente dalle altre specie, di un dispositivo organismico e funzionale specificamente adattativo in un
ambiente naturale. La creazione della cultura rappresenta, allora, una necessità di fondare un ambiente
artificiale in cui l’uomo possa con relativa sicurezza abitare; “concepire un mondo significa dare un senso
alle cose che egli percepisce e connettere quindi queste cose secondo raggruppamenti o categorie logiche [...]
che gli consentano di trasformare il caos in cosmo” 17.
Alla luce di tali argomentazioni, il riferimento a disposizione per dare un sostegno al presente discorso
è, allora, la necessità “di trovare chiavi di lettura della realtà non riduzionistiche e non deterministiche, ma
14 Wilkerson T., Mind, Brains and People, Clarendon, Oxford, 1974.
15
Moravia S., L’enigma della mente, Laterza, Bari, 1986.
16 Scheler M. (1928), Il posto dell’uomo nel cosmo, Fabbri, 1970.
17 Napolitani D., Per una antropologia gruppoanalitica. Al di là della dicotomia individuo-gruppo, Op. cit..
quanto più possibile comprensive e attente a tenere conto della complessità dei fenomeni” 18. Questa linea di
pensiero conduce all’insofferenza sempre più acuta per quei modelli o/o, tendenti cioè all’esclusività della
propria metodologia ignorando gli elementi contraddittori. L’epistemologia della complessità, al contrario,
conduce i teorici alla logica e/e, la quale comporta l’associazione di nozioni allo stesso tempo
complementari, concorrenziali e antagoniste.
Il mio intento, pertanto, si colloca all’interno di un più generale movimento teso “ad esplorare la
possibilità di un’ottica comprendente e sufficientemente ampia”19; l’oggetto specifico del mio studio,
l’alcolismo, rappresenta un’occasione attraverso cui si possano unificare i due momenti fondanti della
scienza gruppoanalitica e psicologica in generale. Ovvero, se da un lato è importante fornire una adeguata
base teorica alla pratica psicoterapeutica, dall’altro lato l’utilità stessa della teoria può essere accertata
fondamentalmente in riferimento alla sua applicazione clinica.
Nel ripensare attraverso le chiavi di lettura gruppoanalitiche tale fenomeno, lo scopo è di ricondurlo alla
sua reale complessità, ben consapevole della provvisorietà dei risultati della mia analisi in quanto essi si
collocano in un continuo processo di costruzione scientifica sempre in trasformazione e che riconosce la
possibilità di altri punti di vista, in una logica, appunto, dell’e/e teorico-epistemologico.
18 Lo Verso G., Le relazioni soggettuali, Op. Cit..
19 Lo Verso G., Il campo gruppale: un modello clinico ed epistemologico, in "Psicologia Italiana", vol. 5, n°3-4, 1983.
PARTE PRIMA - GENERALITÀ SULL’ALCOLISMO
CAPITOLO 1
CENNI STORICI SUL CONSUMO DI ALCOOL E SIGNIFICATI
SIMBOLICO-MITOLOGICI