5
presente nell’art. 38 della Costituzione, che è il punto di riferimento
fondamentale del diritto della previdenza sociale: infatti, tale teoria
«dualistica» ritiene che il comma I, secondo cui «ogni cittadino
inabile al lavoro e sprovvisto dei mezzi necessari per vivere ha diritto
al mantenimento e all’assistenza sociale», si contrappone nettamente
come area di intervento al comma II, in cui si afferma che «i
lavoratori hanno diritto che siano preveduti ed assicurati mezzi
adeguati alle loro esigenze di vita in caso di infortunio, malattia,
invalidità e vecchiaia, disoccupazione». Tuttavia, attualmente è
predominante un’altra visione, imperniata sul pensiero di Mattia
Persiani, in base alla quale il dettato costituzionale supera la
precedente divisione, affermando un’idea di «sicurezza sociale»: si
ipotizza un sistema previdenziale concepito come un servizio
pubblico unitario sostenuto dallo Stato e rivolto a tutti i cittadini
(lavoratori e non). Tale formulazione ha il proprio fondamento
nell’art. 32 della Costituzione, in cui si postula che «la Repubblica
tutela la salute come fondamentale diritto dell’individuo ed interesse
della collettività e garantisce cure gratuite agli indigenti».
Recentemente, invece, è stata proposta un’altra interpretazione che è
stata designata come modello «aperto»: rispetto alle altre due correnti,
si sottolinea come attualmente gli interventi siano garantiti non solo
dallo Stato ma anche da formazioni sociali indipendenti quali gruppi
di volontariato, cooperative sociali, ONLUS, ecc.; viene ribattezzato
sistema aperto proprio perché vi sono modalità non predeterminate di
intervento. Il legislatore confida molto in un efficace intervento del
terzo settore: ad esempio, nella legge quadro sull’assistenza n. 328
dell’8-11-2000 si coinvolgono pienamente proprio gli enti no profit.
Questo dibattito solo negli ultimi tempi ha finito per interessare il
tema della maternità, a causa della recente evoluzione in materia.
Limitandosi ad un’analisi dei provvedimenti di natura economica o
contributiva, per quasi un secolo le normative sono state rivolte
esclusivamente alla donna lavoratrice, facendo perno sull’art. 37 c. I
della Costituzione, in cui si sancisce che «le condizioni di lavoro
6
devono consentire l’adempimento della sua essenziale funzione
familiare e assicurare alla madre e al bambino una speciale adeguata
protezione». Una prima insanabile frattura in questo sistema si è avuta
con l’approvazione della legge n. 194 del 1978, che ha introdotto la
possibilità di interrompere volontariamente la gravidanza entro il
terzo mese dal concepimento. In risposta a questa disciplina, il mondo
cattolico ha avvertito la necessità di fondare istituzioni private di
assistenza, in grado di fornire anche sovvenzioni alle donne incinte in
pericolo di aborto. In questa fase, quindi, compaiono nuove forme di
intervento caratteristiche di una concezione «aperta», che si è poi pian
piano espansa. Un secondo fattore, che al contrario ha costretto lo
Stato in prima persona ad ampliare il proprio raggio d’azione, è stato
il calo di natalità che a partire dagli inizi degli anni ’80 ha
caratterizzato l’intero continente europeo e l’Italia in particolare. Per
affrontare questo problema, il nostro paese, prendendo spunto dalle
norme vigenti in altri stati e rifacendosi all’art. 31 c. II della
Costituzione per cui la Repubblica «protegge la maternità, l’infanzia e
la gioventù, favorendo gli istituti necessari a tale scopo», ha
introdotto all’interno della legge Finanziaria per il 1999 (L. 448/1998)
un assegno di nascita a partire dall’1/7/1999 per tutte le madri non
lavoratrici. I sostenitori della teoria «dualistica» potrebbero affermare
che finalmente ad un sistema previdenziale è stato abbinato uno
assistenziale, ma il contesto non consente una visione così ben
delineata: ad esempio, nell’ambito della legge Finanziaria per il 2000
(L. 488/1999) sono stati ridotti i contributi di maternità dovuti dai
datori di lavoro, ponendoli a carico della fiscalità generale. Dunque,
con questo provvedimento si riaffaccia la nozione di «sicurezza
sociale», per cui lo Stato non riceve specifici contributi per destinarli
esattamente ad una certa funzione, bensì vigono criteri redistributivi
nell’ambito di tutti i fondi raccolti.
In conclusione, come criterio logico di organizzazione delle notizie
raccolte, è sembrato opportuno dividere la tesi in due parti
indipendenti, così come sono sorte storicamente: nella prima si
7
affronteranno tutte le tematiche concernenti la lavoratrice madre
(ispirate all’art. 37 c. I della Costituzione), mentre nella seconda si
esaminerà la disciplina riferita alla madre non lavoratrice (fondata
sull’art. 31 c. II della Costituzione). Per ora, per come è strutturata la
normativa italiana, al contrario di quanto avviene in altri stati europei,
una persona non può essere interessata da entrambe le categorie di
interventi. Tale distinzione farebbe propendere per l’esistenza di un
sistema «dualistico», ma le logiche di gestione finanziaria dello Stato
decretano l’adesione ad un modello di «sicurezza sociale».
All’interno del diritto della previdenza sociale, un’altra fonte di
disputa ha riguardato l’ambito in cui deve essere inserita la tutela
della maternità ed in questo caso vi sono due classificazioni
contrapposte. Gran parte della dottrina, tra cui Persiani
1
, condivide
l’impostazione storica tradizionale, secondo la quale va collocata
nella protezione contro le malattie comuni, perché destinata a
sopperire ad una temporanea incapacità di produrre reddito. Questa
visione sembra un po’ datata ed appare più convincente la proposta di
alcuni studiosi, tra cui Cinelli
2
, di considerare la maternità in
un’apposita categoria di prestazioni riferita ai carichi di famiglia,
insieme agli assegni per il nucleo familiare. Tale impostazione è
coerente anche con i mutamenti applicati nel corso del tempo dalla
normativa alla materia, in cui l’attenzione si è spostata dai diritti della
madre a quelli del bambino. Per questo motivo, da un lato si è estesa
tutta la disciplina post partum anche al padre cercando di incentivare i
doveri di paternità, dall’altra parte si è allungato notevolmente l’arco
temporale coinvolto dalle disposizioni, che con la legge n. 53 del
2000 (sui congedi parentali) nei casi ordinari interessano il figlio fino
all’ottavo anno di età. Purtroppo, bisogna segnalare come Cinelli, pur
non modificando il proprio parere, nel suo manuale di diritto della
previdenza sociale, a partire dal 1996
3
, ha inserito la maternità nella
sezione dedicata alle malattie comuni.
1
PERSIANI M. (1998), Diritto della previdenza sociale, Cedam, Padova, p. 15.
2
CINELLI M. (1994), Diritto della previdenza sociale, Giuffrè, Milano, p. 265.
3
CINELLI M. (1996), Diritto della previdenza sociale, Giappichelli, Torino, p. 342.
8
Nel corso della trattazione, così come ha fatto il legislatore, saranno
considerate anche tutte le norme che hanno esteso nel tempo i diritti
dei genitori. Pertanto, pur parlando di maternità, è parso opportuno
considerare non solo il periodo che intercorre tra il concepimento
(gravidanza) ed il compimento del primo anno d’età da parte del
bambino (puerperio), ma anche quella parte di infanzia in cui il padre
e la madre possono usufruire di congedi (fino a che il figlio non abbia
otto anni). Poi, si è pensato di considerare solamente gli interventi di
natura economica e contributiva, escludendo quelli relativi alla Sanità
(v. regole igieniche sul parto), all’assistenza psicologica (v. consultori
materni) e all’educazione (v. asili nido). Inoltre, non sono analizzati i
vari aspetti sulla parità di trattamento tra uomo e donna: la maternità è
probabilmente la principale ragione di discriminazione e ci si è
limitati a trattare questo problema, perché concentrarsi anche sulle
altre fattispecie sarebbe stata una semplice estensione, ma avrebbe
distolto l’attenzione dal nucleo portante dell’argomento. Infine,
ancora più sottile e difficile è stata la scelta di escludere gli assegni
per il nucleo familiare e le detrazioni per i figli a carico in sede di
dichiarazione dei redditi: come i congedi parentali, si riferiscono
anche ad età meno tenere del bambino, ma il loro inserimento avrebbe
trasformato il lavoro in un’indagine sull’intera problematica riferita ai
carichi di famiglia.
Relativamente alle fonti, il percorso di raccolta è stato molto lungo e
vasto: inizialmente ero convinto che le questioni sulla maternità non
fossero così numerose e quindi credevo di poter inserire tutto quanto
fosse reperibile, in seguito mi sono reso conto che il materiale era
smisurato (soprattutto quello relativo alle decisioni giurisprudenziali)
e dunque ho capito che era necessaria una selezione per ottenere un
risultato comunque esauriente ma non prolisso. Il punto di partenza è
stato rappresentato dai manuali di diritto del lavoro e della previdenza
sociale, che forniscono sia un quadro complessivo dell’argomento sia
i riferimenti per ampliare le conoscenze iniziali; successivamente, ho
sfruttato gli strumenti informatici (v. banche dati e siti internet) per
9
avere a disposizione a livello italiano ed in modo più generico
europeo tutte le leggi e gran parte delle sentenze: il tentativo è di
riordinare una disciplina molto frammentata (come ha ben compreso
il legislatore, delegando il governo nell’art. 15 della legge n. 53 del
2000 ad emanare un testo unico entro un anno dall’entrata in vigore
delle disposizioni sui congedi parentali avvenuta il 28/3/2000). Una
volta raccolte le norme, ho consultato sia i commenti specifici su
ognuna apparsi nelle varie riviste di diritto del lavoro, sia i testi in cui
viene fatta una disamina completa sull’intera materia. L’obiettivo è di
presentare un’analisi più estesa di quelle sinora pubblicate, tentando
di non trascurare il grado di dettaglio dei vari interventi specifici già
presenti: l’emanazione delle recenti leggi sugli assegni di nascita,
sull’arruolamento delle donne nell’esercito e sui congedi parentali
forniscono l’occasione per aggiornare il panorama presentato finora.
I provvedimenti saranno il punto focale della trattazione e verranno
richiamati il più possibile nel loro contenuto originale con relativi
commenti: solo quando non sono sufficientemente chiari, saranno
parafrasati nel tentativo di formularne una corretta interpretazione.
Come notazione per le sentenze giurisprudenziali, occorre
sottolineare che (al contrario di quanto avviene abitualmente nelle
opere di carattere giuridico) è stato segnalato il riferimento alla
pubblicazione in una certa rivista specializzata solo per le decisioni
dei giudici di merito, perché sono le uniche difficilmente rinvenibili
per intero nelle banche dati e nei siti internet; al contrario, le pronunce
degli altri organi sono velocemente consultabili grazie agli strumenti
informatici e gli estremi della diramazione sui periodici in materia
sono citati unicamente se compaiono commenti da parte dei
professionisti del settore.
Per la redazione di questa tesi, rivolgo un particolare ringraziamento
alla dott.sa Capitani, per la disponibilità e la competenza mostrate in
qualsiasi momento di necessità, e dedico un profondo pensiero ad
Alessandra, per gli stimoli ricevuti in ogni occasione di confronto
sulla materia.
10
Parte I
LAVORATRICE MADRE
11
Capitolo I
Profilo storico
1. ORIGINI DELLA TUTELA
1.1. Le Casse di mutua assistenza
Fino al termine del XIX secolo, fatta eccezione per alcuni sporadici
interventi legati ad un contesto benefico (come la «Scuola materna»
della Marchesa di Barolo fondata nel 1829)
4
o filantropico (come le
liberalità concesse da qualche imprenditore alle proprie dipendenti
incinte), una tenue forma di tutela della maternità era garantita
solamente alle lavoratrici iscritte alle Società di mutuo soccorso: in
particolare erano elargiti sussidi di baliatico e puerperio con modalità
diverse per ogni ente. A causa del perdurare della mancanza di una
protezione legislativa e sulla base di un’insistente richiesta da parte
delle donne, tali istituzioni private decisero di creare al proprio
interno un’apposita Cassa di assistenza per la maternità: la prima fu
fondata a Torino nel 1898 e poi seguirono quelle di Bologna nel 1899
(con esito subito infelice poiché era quasi esclusivamente di
beneficenza), di Firenze e Roma nel 1904, di Milano nel 1905 e di
Brescia e Bergamo nel 1906. In cambio del versamento di un
contributo mensile, alle partorienti si assicurava un’indennità che
consentisse di astenersi dal lavoro per circa tre settimane, in modo da
salvaguardare la salute propria e del nascituro. Tuttavia, l’attività
delle Casse risultava completamente insufficiente a causa del
carattere facoltativo e della scarsezza dei mezzi finanziari; si rendeva
perciò necessario un intervento normativo da parte del legislatore.
4
CHERUBINI A. (1973), Introduzione storica alle assicurazioni sociali in Italia (La tutela della
Maternità: 1900–1922) in «Rivista degli Infortuni e delle malattie professionali», INAIL, Roma,
p. 52.
12
1.2. La tutela legislativa
1.2.1. Le operaie
Ben prima dell’inizio del XX secolo nel nostro paese vi sarebbe
dovuta già essere una disciplina relativa al lavoro femminile, ma la
prima normativa sociale (legge dell’11-2-1886), rivolta inizialmente
ai due tipi di “mezze forze”, finì per dettare alcune principi solo per
l’impiego dei fanciulli, perché le limitazioni allo sfruttamento delle
donne furono progressivamente stralciate fino alla completa
eliminazione in modo da non ledere gli interessi degli imprenditori
5
.
Dopo che era stata perduta questa possibilità di regolamentazione, sia
alla Conferenza internazionale del lavoro di Berna (1890), sia al
Congresso per l’assicurazione infortuni di Milano (1895), sia al
Congresso internazionale per le assicurazioni sociali di Parigi (1900)
illustri pareri cominciarono a sostenere l’esigenza di un adeguamento
legislativo: in particolare, Paolina Schiff fu tra le prime a proporre
l’istituzione di una Cassa nazionale d’assicurazione per la maternità.
In questo contesto, si decise di modificare i provvedimenti di tutela
del lavoro delle “mezze forze”, includendo in questo caso anche le
dipendenti: pertanto, dopo un lungo iter parlamentare che ne attenuò
l’impatto innovativo, venne promulgata la legge n. 242 del 19-6-1902
sul lavoro delle donne e dei fanciulli nell’industria (con esclusione
delle lavoratrici a domicilio), nota come legge Carcano dal nome del
ministro che l’aveva presentata. Si trattava di una fattispecie molto
ampia che, per il contenuto di questa tesi, ci interessa solo nel suo art.
6 secondo cui «le puerpere non possono essere impiegate al lavoro se
non trascorso un mese da quello del parto o in via eccezionale dopo
almeno tre settimane, quando risulti dall’Ufficiale sanitario del
proprio Comune di dimora abituale che le condizioni di salute
permettono loro di compiere senza pregiudizio il lavoro nel quale
intendono occuparsi». Pertanto, veniva introdotta un’astensione
5
BALLESTRERO M. (1979), Dalla tutela alla parità, Il Mulino, Bologna, p. 17.
13
obbligatoria post partum, mentre non era ancora previsto né alcun
congedo ante partum né alcuna forma di indennità. Il dettato in
questione non fu modificato dalla successiva L. 416/1907 e confluì
direttamente nella legge n. 818 del 10-11-1907, che costituiva il Testo
unico sul lavoro di donne e bambini nell’industria: in questo caso si
ampliò la normativa che ci interessa, obbligando l’impresa a
consentire l’allattamento dei neonati sia nei locali dell’azienda
appositamente predisposti sia mediante permessi di uscita durante
l’orario di lavoro
6
. Tale provvedimento fu puntualizzato nel
regolamento per l’applicazione del T.U., approvato con il Regio
decreto n. 442 del 14-6-1909, che autorizzava pause per allevare il
neonato di un’ora se era necessario uscire dalla fabbrica o di mezz’ora
se esistevano apposite camere al suo interno; inoltre, si decise che, per
riprendere le proprie funzioni dopo il parto, ogni madre dovesse
presentare un certificato del medico da cui risultasse che era trascorso
oltre un mese dall’evento.
Nel frattempo, nel 1905 il Ministro per Agricoltura, Industria e
Commercio Rava
7
aveva presentato in Parlamento un progetto per
garantire alle puerpere un sussidio in grado di compensare il danno
economico risentito durante il periodo di forzata non occupazione;
tuttavia, per varie ragioni di natura politica ed economica, fu
momentaneamente accantonato. Qualche anno più tardi il nuovo
Ministro per Agricoltura, Industria e Commercio Cocco-Ortu formulò
il proprio disegno, che ricalcava quello precedente con alcune
modifiche decise dalla commissione parlamentare. Finalmente, dopo
lunghe discussioni in sede di approvazione, fu promulgata la legge n.
520 del 17-7-1910 che istituiva la Cassa nazionale di maternità (come
una sezione autonoma della Cassa nazionale di previdenza) per le
operaie contemplate nel testo unico del 1907 (pertanto, restavano
escluse le lavoratrici a domicilio). Si trattava del primo nucleo
consolidato di una disciplina, che arrivava in ritardo nei confronti di
6
CAVALLO R. (1985), Lavoro delle donne in «Enciclopedia del diritto», Giuffrè, Milano, p. 557
7
CHERUBINI A. (1977), Storia della previdenza sociale in Italia (1860–1960), Editori Riuniti,
Roma, p. 167.
14
Germania (1883), Danimarca (1892) e Lussemburgo (1901), circa in
contemporanea con altri paesi europei come Norvegia (1909), Gran
Bretagna e Irlanda (1911) e Olanda (1913) ed infine in netto anticipo
rispetto a Spagna (1942), Belgio (1963) e Portogallo (1984). Emanato
il R.D. n. 1382 del 26-12-1911 come regolamento d’esecuzione, dal
6-4-1912 fu elargito un sussidio in misura fissa indipendente dal
salario e dall’età: tale diritto spettava anche a chi abortiva dopo il
terzo mese e a chi abbandonava l’incarico o era licenziata negli ultimi
due mesi di gravidanza, mentre era esclusa da tale prestazione chi non
rispettava il periodo di astensione obbligatoria. Per quanto riguarda il
finanziamento della normativa, si prevedeva che la contribuzione
venisse dimezzata in caso di operaia al di sotto dei vent’anni e che
fosse equiripartita tra la lavoratrice e l’imprenditore (con intervento
anche da parte dello Stato, che erogava un quarto della cifra).
Immediatamente, si verificò un netto squilibrio tra uscite ed entrate e
quindi la Cassa nazionale di previdenza fu obbligata ad intervenire a
più riprese per colmare il deficit. Per fronteggiare questo problema, si
provvide a modificare la disciplina attraverso il D.L.Lgt. n. 322 del
17-2-1917 ed il rispettivo regolamento D.L.Lgt. n. 1071 del 21-6-
1917, che stabilirono l’unificazione del contributo per qualsiasi fascia
d’età ed un aumento delle quote a carico del datore di lavoro e dello
Stato. Comunque, si erano create le fondamenta del sistema di
protezione, che nel decennio successivo (prima della venuta del
Fascismo) subì solo lievi integrazioni: il D.L.Lgt. 1136/1916
(regolamento per l’attuazione del testo unico sul lavoro di donne e
bambini del 1907) sancì regole più precise sulle camere di
allattamento, la circolare 409819/1917 del Ministero della guerra
dettò norme più rigorose sugli adempimenti burocratici in materia,
l’art. 8 del D.L.Lgt. 112/1919 (sul contratto di impiego nel settore
privato) fissò il diritto alla conservazione del posto per tre mesi in
caso di malattia dovuta al parto di un’impiegata (fino ad allora esclusa
da qualsiasi tipo di protezione) e infine il R.D.L. 543/1920 deliberò
un incremento del sussidio di puerperio.
15
1.2.2. Le coltivatrici di riso
All’interno del settore agricolo, un provvedimento speciale per la
risicoltura fu l’occasione per generare una disciplina distinta e a volte
più favorevole rispetto al contesto industriale, che durante il periodo
corporativo fu estesa anche alle altre lavorazioni legate alla terra e si
protrasse fino al periodo costituzionale. Il pilastro di tale protezione
“parallela” fu rappresentato dall’art. 82 del R.D. n. 636 del 6-8-1907,
che era il T.U. delle leggi sanitarie per la coltivazione del riso, e dal
relativo regolamento approvato con il R.D. n. 157 del 29-3-1908
8
: si
sanciva l’obbligo di astensione dal lavoro sia nell’ultimo mese di
gestazione sia nel primo mese di puerperio ed il diritto a riposi per
l’allattamento non inferiori a mezz’ora; inoltre, le donne incinte
dovevano presentare un certificato medico attestante il periodo di
gravidanza. Quindi, confrontando la normativa con quella riguardante
le imprese, si evincono da un lato migliorie e dall’altro restrizioni: in
particolare, per la prima volta si imponeva l’assenza dall’attività
anche per la fase precedente al parto (salvaguardando maggiormente
la salute della madre e del nascituro), mentre non era previsto alcun
tipo di sostegno economico. Cercando di fornire un’interpretazione
complessiva di questi due aspetti, probabilmente il secondo andava a
discapito della validità del primo: in una condizione di sfruttamento
anche nel campo agricolo come quella presente nel nostro paese agli
inizi del secolo, spesso le risaiuole, pur di non veder lesi i diritti
economici, erano incentivate a non rispettare la legge e a proseguire
in modo “sommerso” i propri compiti nelle fasi prossime al parto,
anche a causa di un sistema di controlli non sempre efficiente. Infine,
occorre ricordare come un’unica categoria di lavoratrici agricole fosse
protetta, generando un’enorme sperequazione all’interno del sistema:
purtroppo, si aspettò fino al 1936 per dare un assetto più esteso e
generalizzato alla questione.
8
CHERUBINI A. (1973), Introduzione storica alle assicurazioni sociali in Italia (La tutela della
Maternità: 1900–1922) in «Rivista degli Infortuni e delle malattie professionali», INAIL, Roma,
p. 66.