3
Il primo incontro tra il giornalista e Massud risale al 1981: in
quell’occasione, l’inviato dovette affrontare un viaggio lungo un
mese, scarpinando per i monti afghani, prima di poter raggiungere
il comandante, nascosto nella vallata per sfuggire agli attentati.
Già allora, all’età di 26 anni, l’inviato riconosce nel comandante
la figura mitica, leggendaria, che avrebbe lottato per la liberazione
del Paese.
Nel terzo capitolo si analizza la trasformazione di Massud che, da
giovane studente, riuscirà a diventare un vero e proprio guerriero,
un leader carismatico che raduna attorno a sé i suoi fedeli
mujaheddin. Per ben sette volte, racconta Mo, Massud riuscì a
contrastare l’avanzata dei russi, grazie alla conoscenza perfetta
del territorio, servizi segreti eccellenti e, soprattutto, grandi
capacità di stratega.
Saranno anche le sue doti di condottiero a permettere la definitiva
scacciata dei russi, nel 1989; ma, come descritto nel quarto
capitolo, la guerriglia interna proseguirà ancora, perché «La pace
non si addice all’Afghanistan». Dopo la ritirata dei russi, Massud
si troverà ancora a dover combattere, prima contro Hekmatyar,
leader dello Hezb-i-Islammi, e dopo contro i talebani, i folli
guerrieri di Dio che lottano per la restaurazione di una vera
teocrazia islamica, basata sull’integralismo religioso.
Sarà questa la battaglia più difficile, perché combattuta contro un
nemico interno, i talebani, sovvenzionati dal Pakistan e guidati
dal finanziatore del terrorismo islamico, lo sceicco Osama Bin
Laden.
Nel quinto capitolo si descrive la morte di Massud, ucciso due
giorni prima dell’attacco alle Twin Tower da due kamikaze
talebani.
Segue poi, tra gli allegati, l’articolo scritto da Ettore Mo in
occasione della morte di Massud: solamente attraverso le sue vive
parole, infatti, è possibile capire il rapporto profondo, di stima ed
ammirazione, che il giornalista provava per Massud.
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Come conclusione della tesi ho riportato integralmente l’intervista
che Ettore Mo mi ha concesso, in cui spiega il suo intenso
rapporto con l’Afghanistan ed il suo legame con Massud.
Da queste parole si può cogliere la grandezza di Ettore Mo, un
giornalista che non si è mai stancato di raccontare il volto umano
e sofferente dell’umanità. Senza mai delegare ad altri questo
arduo compito, ma andando sul posto, di persona, con coraggio e
desiderio di capire, scontrandosi con miseria e povertà ma anche
con i grandi eroi del nostro tempo, come era Massud: sempre
armato di matita e taccuino, perché «il vero giornalismo si fa con
la suola delle scarpe».
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I CAPITOLO
L’AFGHANISTAN DI ETTORE MO
«Come tutte le storie d’amore, la mia storia d’amore con
l’Afghanistan ha avuto i suoi alti e bassi…E’ il Paese che ho
frequentato più di tutti gli altri al mondo nella mia vita
professionale ed è perciò naturale che abbia un posto tutto
speciale, nel mio cuore e nei miei ricordi»
1
Ettore Mo mise piede in Afghanistan, per la prima volta, nel
1979; proprio in quell’anno Mo aveva ricevuto il suo primo
incarico come inviato di guerra per il Corriere della Sera, quando
venne inviato a Teheran, che lui visse come una sorta di tirocinio
in cui acquisì le basi del grande inviato di guerra.
In quell’occasione conobbe Tony Cliffton, un cronista australiano
di Newsweek, con cui familiarizzò subito; fu proprio Tony a
suggerire a Mo la missione successiva: «Ettore, la storia che devi
raccontare è qui, a Kabul», gli disse.
Non se lo fece ripetere due volte: «Il prossimo Vietnam sarà
l’Afghanistan», così Mo ricevette dall’allora direttore del
“Corriere della sera”, Franco Di Bella, il benestare per la sua
nuova missione.
Ettore si ritrovò cosi a Peshawar, la città pakistana che segna
l’ultima tappa prima del confine afghano, insieme al fotografo
Giuseppe Colombo: era la prima volta che il giornale
acconsentiva ad inviare anche un fotografo.
«Per me la guerra dell’Afghanistan iniziò quella mattina di
giugno del ’79, nella valle di Kunar, quando dall’alto della
montagna vidi una piccola zattera che attraversava il fiume»
2
1
E. Mo, prefazione a“Kabul”, Rizzoli, Milano, 2001, p. III
2
E. Mo, “Kabul Kabul: cronache della guerra afghana”, Vallecchi, Firenze,
1989, p. 9
6
L’invasione sovietica
Così inizia l’avventura di Ettore Mo, giunto in una terra straniera
sei mesi prima dello scoppio del conflitto con la Russia che
avrebbe portato migliaia di morti; il suo obiettivo era
documentare le fasi iniziali della guerriglia dei mujaheddin contro
il regime rivoluzionario filosovietico di Noor Mohammed Taraki,
instauratosi nel colpo di Stato del 27 aprile 1978, che proponeva
una società socialista.
Si trattava di una guerriglia interna, che fu da preludio alla guerra
ufficiale, all’indomani dell’invasione dell’Armata Rossa, nel
dicembre 1979; da una parte erano schierati i mujaheddin, sotto la
bandiera dell’Islam, e dall’altra le truppe regolari del governo filo
sovietico di Kabul. Mo la definì una guerra santa, di Allah e dei
musulmani contro l’imposizione dall’alto di un modo di vita
totalmente estraneo al loro; per l’Unione Sovietica, quel Paese
rappresentava invece un’importante terra di passaggio che
lasciava la porta aperta sull’Oceano Indiano. Iniziava così la lotta
armata, o Jihad (guerra santa) degli islamici contro i senza Dio del
regime.
Per gli afghani era stato il sentimento religioso, così forte e
sentito, a scatenare la ribellione nei confronti di un potere in cui
non si riconoscevano; e, di fronte ad un comune nemico, anche le
differenze tra le etnie vennero meno e i musulmani si unirono,
fossero essi afghani, pathani o tagiki.
Prima di lui, già altri inviati avevano tentato di vivere con i
guerriglieri per descriverli, ma nessuno c’era riuscito; Ettore Mo
decise dunque di staccarsi dai colleghi, per agire da solo, e di
incontrare Guldubbin Hekmatyar, capo carismatico del partito
Hezb-I-Islami, il più grande gruppo anti marxista: era una sorta di
“Khomeini degli afghani”, nel cui cassetto convivevano
felicemente la pistola e il Corano.
Peshawar, allora, era la roccaforte della resistenza afghana in
esilio; ottenuto il nulla osta, un visto di transito clandestino
concesso dai leader della Resistenza afghana, Mo lasciò la città e
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superò il Khyber Pass, il famoso valico di frontiera insieme ad un
gruppo di fuoco diretti alla valle del Kunar.
Era il giugno del ’79, e lui era il primo giornalista italiano ad
entrare in Afghanistan; Mo decise dunque di scalare a piedi una
montagna di duemila metri, per vivere con i mujaheddin,
testimoniare la sua esperienza non solo da osservatore esterno ma
da partecipante attivo.
«Sei mesi dopo, l’Armata Rossa avrebbe invaso l’Afghanistan.
Ma già allora, nel Paese, erano confortevolmente stanziati più di
tremila consiglieri sovietici tra civili e militari».
3
Mo riuscì ad intervistare a Kabul il primo ministro Hafizullah
Amin; in settembre il presidente Noor Mohammed Taraki venne
assassinato e Amin prese il suo posto. L’inviato capì subito che
non avrebbe avuto una lunga vita e, durante un’intervista che
Amin gli concesse, gli chiese a bruciapelo se non avesse paura di
essere ammazzato. Dopo due mesi, infatti, il presidente fu
assassinato quando i primi reparti russi d’occupazione assalirono
il palazzo presidenziale, per ordine di Leonid Ilic Breznev, il
presidente dell’Unione Sovietica: lui temeva infatti il crollo del
regime filosovietico di Kabul e ordinò l’invasione
dell’Afghanistan.
Amin fu così sostituito da Babrak Karmal, leader del partito
Parcham, che Taraki aveva esiliato in Cecoslovacchia.
Parallelamente aumentava il flusso dei soldati sovietici e si
calcolava che in Afghanistan ne fossero stanziati circa 120 mila.
Nel 1980 l’inviato del “Corriere della sera” dovette affrontare una
delle esperienze più drammatiche, quando restò coinvolto in una
battaglia di sette ore nella piana di Jalalabad, dove furono uccisi
davanti ai suoi occhi tre prigionieri:
«Mi sembrava tutto così assurdo. Nel giro di pochi secondi mi
sentii molto più vecchio e molto più triste, con una sensazione di
completa impotenza davanti alla morte. Avrei voluto urlare, ma
tutto quello che potevo fare era scrivere un buon articolo.
3
E. Mo, “Kabul Kabul: cronache della guerra afghana”, Vallecchi, Firenze,
1989, p. 9
8
Promisi a me stesso che sarebbe Stato uno dei migliori, in onore
di quei tre poveretti».
4
Da quell’anno, l’Armata Rossa estese il raggio delle operazioni su
tutto il territorio, arrivando a controllare le città principali e le vie
di comunicazione mentre le zone rurali e montane restavano nelle
mani dei mujaheddin.
Furono otto le offensive scatenate dai russi tra il 1980 e il 1985,
ma non riuscirono tuttavia a scalzare il comandante Massud ed i
suoi uomini nella valle del Panshir, importante nodo strategico.
Dopo la caduta del presidente russo Breznev, si susseguirono al
governo dell’Unione Sovietica Kostantin Ustinovic Cernienko
prima e Yuri Andropov; la guerra santa in Afghanistan
continuava tuttavia con la stessa durezza, anche dopo la salita al
potere del nuovo presidente russo Michail Gorbaciov.
In Afghanistan non si fermava l’esodo dei profughi, saliti ormai a
quattro milioni su una popolazione di sedici, in fuga dal Paese
verso il Pakistan e l’Iran.
Nel 1986 Babrak Karmal, cui Mosca rimproverava di non essere
riuscito a creare una base popolare attorno al suo regime, fu
rimosso dall’incarico per “motivi di salute” e sostituito da
Mohammed Najibullah, ex capo del Khad, la polizia segreta
afghana e fedelissimo del Cremlino.
La guerra si combatteva ad armi impari: mentre i russi
possedevano i mezzi più sofisticati di terra e aria, i mujaheddin
combattevano con milizie tragicamente inadeguate.
Armi contraeree, ma aggiornate ed efficienti: erano queste le
richieste che Mo si sentiva spesso ripetere dai leader della
resistenza, come Massud, Abdul Haq, Haqqani, Naquib.
L’intervento americano contribuì a colmare questa disparità; nel
1986 gli Stati Uniti rifornirono i mujaheddin e li dotarono degli
“stingers”, potenti missili da utilizzare contro l’esercito russo.
Gli stingers furono affidati ai comandanti più spietati dei partiti
della Resistenza, che avevano dimostrato doti eccellenti in campo
4
M. Bonetti, “Inviati, giornalisti da salvare”, Editrice Nova Ars Libraria,
Milano, 1996, p 49
9
militare. Fu questa la prima prova dell’intervento diretto
statunitense nel conflitto russo – afghano; prima di allora, infatti,
il presidente americano Ronald Reagan aveva contribuito alla
Jihad solo indirettamente, con lo stanziamento di fondi coperti.
All’inizio del 1987 il nuovo presidente offrì una tregua ai ribelli
afghani, in cambio della promessa del ritiro delle truppe
sovietiche; ma l’offerta fu respinta all’unanimità dai sette partiti
della coalizione che volevano la ritirata immediata dell’Armata
Rossa, senza condizioni.
Da allora Ettore Mo ritornò varie volte in Afghanistan, sempre
clandestinamente, attraverso i passi proibiti: il Paese, infatti,
rimase sigillato fino al 1988, anno in cui i russi si ritirarono
definitivamente.
In quell’anno Mo si illuse che fosse giunta l’ora di tornare in
Afghanistan, ma per la prima volta a viso scoperto, non da
clandestino come aveva fatto negli ultimi nove anni:
«Illusione, ci vollero quattro anni buoni perché i mujaheddin
della jihad avessero la meglio sul regime filo sovietico di
Najibullah rimasto in sella dopo l’esodo dell’Armata Rossa».
5
Ma la guerra continuò anche successivamente, nonostante
l’avvento al potere dei leader della Santa Alleanza, Massud in
testa, che avevano installato un governo islamico nell’aprile 1992:
«La pace non si addice all’Afghanistan. La guerra civile sarebbe
continuata per altri due anni almeno, e non nel nome di
Allah…una guerra alimentata solo dalla sfrenata ambizione del
leader dello Hezb-i-Islami, Hekmatayr il quale, deciso a
spodestare il presidente Rabbani ed il primo ministro Massud,
scaricava quotidianamente sulla capitale tonnellate di missili e
bombe facendo più morti che durante l’invasione sovietica».
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5
E. Mo, “Kabul”, Rizzoli, Milano, 2001, p 150
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ibidem