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Introduzione
La letteratura internazionale è unanime nell’affermare il forte potere dei media sulla
costruzione della realtà sociale, in particolar modo sui giudizi riguardanti la razza ed il
crimine (Dixon, 2006a, 2006b; Gilliam & Iyengar, 2000): una notizia non è mai la
semplice descrizione di un evento, ma è sempre la ricostruzione dello stesso, che riflette il
sistema di credenze e valori propri di chi la comunica (Benedict, 1992; Dowler, 2006).
Il presente lavoro si inserisce su questa linea di pensiero, partendo dalle conclusioni di un
crescente numero di ricerche, le quali hanno mostrato che le notizie dei media riportano gli
stranieri come sospetti criminali in modo eccessivo (Dixon& Linz, 2000a; Entman, 1992;
Gilliam, Iyengar, Simon, & Wright, 1996; Romer, Jamieson, & de Coteau, 1998), rispetto
ai reati che effettivamente commettono.
E’ probabile che ciò sia dovuto ad una sistematica distorsione delle informazioni sui reati,
distorsione che è basata su, e a sua volta rinforza, convinzioni erronee, che si radicano nel
sapere condiviso e vanno a costituire stereotipi e pregiudizi, considerati una forma
particolare di rappresentazione sociale. Inoltre, l’esposizione a fonti di informazione può
attivare frequentemente, e quindi rendere facilmente accessibile, un collegamento
cognitivo tra gli immigrati e la criminalità: questa affermazione trova spiegazione nelle
teorie della cognizione sociale, le quali suggeriscono che “le persone utilizzano scorciatoie
derivate dagli stereotipi recentemente o frequentemente attivati, al fine di rendere rilevanti
le opinioni sociali (Dixon, 2008, p.2)”
Il meccanismo sociale di distorsione su cui ci siamo concentrati in questa tesi è di tipo
mass mediologico: ci siamo infatti chiesti se, e come, il modo, tendenziosamente diverso,
in cui i mass media presentano, i fatti criminali che vedono coinvolti rei stranieri oppure
italiani, possa influenzare la paura del crimine ed il livello di pregiudizio degli autoctoni.
Per rispondere a questa domanda di ricerca, abbiamo usato come riferimento teorico
fondamentale la teoria del Linguistic Intergroup Bias (Maass et al., 1989, 1994).
Tale teoria afferma che le società occidentali sono caratterizzate dalla tendenza a
sovrastimare le caratteristiche positive del gruppo di appartenenza e sottostimare quelle
negative dell’outgroup; tale fenomeno si può indagare attraverso l’analisi del livello di
astrazione linguistica utilizzato dai membri di un particolare gruppo. Per effettuare tale
analisi è stato utilizzato il Linguistic Category Model di Semin e Fielder (1988), che
individua quattro livelli di descrizione linguistica: il livello più astratto, quello degli
aggettivi, è usato per descrivere comportamenti positivi dell’ingroup e negativi
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dell’outgroup, così da identificare e generalizzare caratteristiche tipiche dei membri del
gruppo; viceversa, il livello più concreto, quello dei verbi d’azione, è usato dai membri
dell’ingroup per descrivere azioni negative del gruppo di appartenenza e azioni positive
dell’outgroup, con lo scopo di sottolineare la rarità di tali eventi.
Per indagare i livelli di pregiudizio dei rispondenti, abbiamo utilizzato la Scala del
Pregiudizio Classico e Moderno di Ekehammar et all (2000, cfr. Allegati), che indaga le
forme latenti di pregiudizio, ossia la tendenza delle persone a presentare se stesse in modi
socialmente accettabili, quindi come prive di pregiudizio. Inoltre, in molti paesi
l’espressione diretta del pregiudizio razziale può portare a sanzioni legali e quindi molte
persone possono essere riluttanti ad esprimere apertamente il loro giudizio.
Al fine di presentare la ricerca, il primo capitolo è stato dedicato ad una panoramica degli
studi nazionali ed internazionali sulla paura del crimine; in particolar modo, si è prestata
maggiore attenzione al ruolo dei mass media e del pregiudizio, intesi come predittori della
paura del crimine.
Il secondo capitolo propone la ricerca svolta su un campione di 98 persone, con l’obiettivo
di indagare l’influenza della nazionalità dell’autore di reato e del grado di astrazione
dell’articolo sulla paura del crimine e sul livello di pregiudizio.
Nelle conclusioni, infine, è esposto un quadro riassuntivo di ciò che la ricerca svolta ci ha
permesso di comprendere rispetto al fenomeno sopra indagato, assieme all'analisi dei limiti
e dei suoi possibili sviluppi.
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Capitolo 1
Mass media e pregiudizio:
quali influenze sulla paura del crimine?
“Crime is normal
because a society exempt from it
is utterly impossible”
E. Durkheim
1. Paura del crimine: definizione e confini
La paura del crimine è stata argomento di molte ricerche in ambito scientifico, ma, ad oggi,
non esiste una definizione univoca del costrutto che soddisfi la comunità scientifica. Ciò
probabilmente dipende dalla difficoltà di riconoscere la paura anzitutto come un’emozione,
sperimentata in relazione ad un fenomeno:
“Molta della confusione esistente sul significato di paura nasce dall’incapacità di riconoscere le
differenze fondamentali tra percezione, cognizione ed emozione. Malgrado le affermazioni di
qualcuno, la paura non è una percezione dell’ambiente (consapevolezza o esperienza di stimoli
sensoriali), ma è una reazione all’ambiente percepito. Sebbene la paura possa nascere da un
processo cognitivo o dall’elaborazione di informazioni percettive (ad esempio la consapevolezza
che un uomo che si sta avvicinando è armato o un suono che ci segnala un pericolo), la paura non è
una credenza, un atteggiamento o una valutazione. Al contrario, la paura è un’emozione, un
sentimento di allarme o timore causato dalla consapevolezza o dall’aspettativa di un pericolo”
(Warr, 2000, p. 453, traduzione nostra).
oltre a Warr, anche altri autori (Garofalo, 1979; Skogan e Maxfield, 1981) sono concordi
nel ritenere la paura del crimine una ‘risposta emotiva ad una potenziale vittimizzazione’
(Adams e Serpe, 2000, p. 4, traduzione nostra).
Un costrutto spesso confuso con la paura del crimine è la percezione del rischio di
vittimizzazione, definita da Skogan e Maxfield (1981) come ‘la percezione delle persone
sulla loro apertura all’aggressione, la loro impotenza a resistere all’aggressione, e
l’esposizione ai conseguenti traumi fisici (e probabilmente emozionali), se attaccati’ (p.
69, traduzione nostra). Secondo alcuni autori (Ferraro, 1995; Rountree e Land, 1996), i
concetti di paura del crimine e di percezione del rischio di vittimizzazione hanno delle
differenze sostanziali, perché la prima riguarda aspetti affettivi (essendo la paura
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un’emozione, come detto in precedenza), mentre la seconda fa riferimento alla sfera
cognitiva, trattandosi di una credenza.
Tuttavia, non tutti gli autori danno la stessa interpretazione della relazione tra paura del
crimine e percezione del rischio; Gabriel e Greve (2003), ad esempio, sostengono che non
c’è una separazione netta tra questi due costrutti, ma anzi la paura del crimine è costituita
sia dall’aspetto affettivo, sia da quello cognitivo. In particolare, gli autori considerano gli
aspetti affettivi, cognitivi e razionali come condizioni necessarie per uno stato che può
essere definito di paura.
E’ importante, inoltre, differenziare la paura del crimine dalla preoccupazione per il
crimine come problema sociale (concern about crime as a social problem). Questa
distinzione è stata proposta per la prima volta da Furstenberg (1971) che parla, appunto, di
due possibili reazioni psicologiche alla criminalità; la prima è la paura del crimine, ossia
‘una sensazione di agitazione o di ansietà per la propria sicurezza personale o quella della
personale proprietà’ (Amerio e Roccato, 2005, p.2), che può manifestarsi anche quando il
pericolo non è reale, ma solo potenziale; la seconda reazione si riferisce alla
preoccupazione sociale per il crimine, ossia ad una sensazione di agitazione legata alla
diffusione della criminalità in una specifica zona (Amerio e Roccato, 2005), che riguarda il
benessere e la sicurezza dell’intera comunità. La preoccupazione si riferisce alle
conseguenze psicologiche dei reati avvenuti a persone e in contesti diversi e distanti da
quelli in cui vive l’individuo. Secondo Furstenberg, il concern about crime as a social
problem è legato al grado di partecipazione politica, all’adesione a specifici valori sociali e
politici da perseguire, e al bagaglio culturale proprio dell’individuo (Polano, Cervai,
Borelli, 2007).
2. Conseguenze individuali e sociali della paura del crimine
Considerando la paura del crimine un’emozione, questa, al pari di tutte le altre emozioni,
ha un ruolo adattivo nella relazione dell’individuo con l’ambiente: innanzitutto permette
alle persone di mettersi in guardia e prendere precauzioni, qualora dovessero percepire la
possibilità di essere vittimizzate. Inoltre, a livello comunitario, favorisce la coesione tra i
membri, per cui, ad esempio, coloro che vivono in un determinato quartiere possono
sostenersi a vicenda e scoraggiare atti criminali (Roccato e Russo, 2012): alcune ricerche
hanno dimostrato che l’integrazione sociale rappresenta una forma di tutela indiretta dalla
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paura, perché migliora il senso di controllo sull’ambiente circostante e, conseguentemente,
migliora il benessere soggettivo (Adams e Serpe, 2000).
Ma come tutte le altre emozioni, anche la paura del crimine, se vissuta in maniera
eccessiva, può avere conseguenze negative sia a livello individuale che sociale. La ricerca
in merito ha dimostrato che la paura del crimine, negli individui, produce ansia, sfiducia,
senso di insoddisfazione e di impotenza, angoscia e alienazione nei confronti della vita;
conduce alla rinuncia e/o alla riduzione della partecipazione alla vita sociale e del controllo
sociale informale nelle zone in cui si abita (Barbagli, 1999); incentiva i comportamenti
negativi e la messa in atto di azioni di autoprotezione, pericolose per sé e per gli altri (ad
esempio, la detenzione di armi per paura di subire rapine, l’installazione di sofisticati
sistemi di allarme in casa, pagamenti elevati per premi assicurativi che possono,
paradossalmente, far aumentare la paura del crimine, soprattutto tra coloro che mettono in
atto questi comportamenti) (Roccato e Russo, 2012).
La paura del crimine, inoltre, peggiora il benessere psicosociale delle persone, inducendole
a modificare abitudini e attività fisiche e sociali considerate piacevoli, ma che potrebbero
aumentare il rischio di essere vittimizzati: ad esempio, le donne spaventate potrebbero
sviluppare una mentalità chiusa e rinunciare alle opportunità sociali o lavorative; gli
anziani potrebbero diventare prigionieri delle loro case; chi pratica regolarmente sport
all’aria aperta potrebbe decidere di rinunciare alla sua attività per non incorrere in pericoli
(Roccato e Russo, 2012). A livello collettivo, infine, la paura del crimine riduce la
coesione e la solidarietà, dando spazio a comunità chiuse, fondate sull’emarginazione del
diverso. (Parisi e Roccato, 2008).
In conclusione, però, è importante sottolineare che non esiste una correlazione effettiva tra
i reati commessi e la paura della criminalità; anzi molto spesso si nota una netta differenza
tra i vissuti individuali e la stima ufficiale dei reati commessi (Hough e Mayhew
1983,1985; Hough 1995): i secondi tendono ad essere sproporzionati rispetto al rischio
effettivo di vittimizzazione corso dalle persone.