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INTRODUZIONE:
La relazione tra politica e mass media è particolarmente
articolata, eterogenea e sfaccettata: con il progresso delle
tecniche di comunicazione e degli strumenti che la permettono, il
potere del condizionamento della cultura, delle immagini e delle
informazioni è andato sempre più accrescendosi, tanto da far
emergere nel dizionario storico termini come consenso,
propaganda e “quarto potere”. Quando Edmund Burke pronunciò
per la prima volta, rivolgendosi ai giornalisti presenti nella
tribuna della Camera dei Comuni, tale espressione, aveva
probabilmente già in mente quale sarebbe stato il ruolo
dell’informazione nel modellare e influenzare il discorso
politico.
Ma anche il procedimento inverso è valido: l’ambito della
politica è stato uno dei più grandi esploratori delle potenzialità
dell’informazione e dei mezzi di comunicazione come strumenti
per condizionare l’opinione pubblica.
Ecco dunque che il rapporto tra mass media e politica, un
rapporto a doppio senso, diventa l’oggetto di numerose ricerche
e analisi, che finiscono inevitabilmente per coinvolgere anche il
discorso sulla professione giornalistica.
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Nell’intricatissimo mercato dell’informazione odierna,
l’attenzione dell’opinione pubblica verso gli scenari delle
relazioni internazionali allarga poi maggiormente il dibattito.
Lo scopo di questa ricerca è dunque quello di esplorare tale
rapporto nel caso specifico della Siria e delle proteste che hanno
interessato il paese dal mese di febbraio 2011 e che sono tuttora
in corso.
Come si declinerà, tale relazione? Questa è la domanda cui si
tenterà di dare una risposta.
Dopo gli eventi dell’11 settembre, il flusso di informazioni dal e
sul mondo arabo, alimentato da una sempre maggiore domanda,
è cresciuto notevolmente. Tuttavia, certamente anche per motivi
linguistici, la fruizione di informazioni provenienti dal mondo
arabo rimane, in Occidente, piuttosto limitata, così come la
conoscenza del sistema dei media nei singoli paesi che lo
compongono.
L’interesse stimolato dai media arabi è, infatti, relativamente
recente: come ricorda Heinemann 2009, la ricerca scientifica sul
tema ha iniziato a svilupparsi soltanto alla fine degli anni
Novanta, esortata poi dalla nascita di al-Jazeera e delle altre
grandi emittenti satellitari panarabe.
Grande contributo alla ricerca è giunto da Rugh 2004 che, con
Arab Mass media: newspapers, radio, and television in the Arab
politics, ha non solo ampliato la prospettiva sul panorama
mediatico arabo, ma ne ha anche tentato una moderna
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sistematizzazione basata sul livello di libertà di cui i mezzi di
comunicazione godono nei singoli contesti politici.
Altra opera rilevante se si vuole procedere ad un’analisi del
sistema dei media nel mondo arabo è poi Mass media, politics,
and society in the Middle East, di Kai 2001, il cui contributo
consiste nell’esplorare il rapporto tra la globalizzazione dei
media e il cambiamento politico e sociale in Medio Oriente.
Anche Mellor 2005, con The Making of Arab News, costituisce
un’importante fonte di informazioni sul giornalismo arabo, con
particolare attenzione al valore che la pratica giornalistica
occupa nel mondo arabo, e alle modalità con le quali si coniuga.
Le “turbolenze rivoluzionarie” che hanno scosso l’area del
Medio Oriente e dell’Africa settentrionale, hanno indubbiamente
attratto maggiore interesse internazionale sulla regione, ma la
provenienza e la qualità delle informazioni non è stata spesso
sufficiente a soddisfare i parametri di trasparenza che il pubblico
ormai esige.
È necessario, innanzitutto, partire dalla considerazione che i
paesi coinvolti conoscono standard di libertà di informazione e
di espressione quasi sempre fortemente ristretti, se non del tutto
assenti. Diventa difficile, dunque, avere un quadro chiaro sia
della situazione mediatica locale, che della copertura degli
eventi.
Un aiuto è sì, arrivato dalle nuove tecnologie di informazione –
le grandi emittenti satellitari, internet, i social media – e dal
moderno fenomeno del giornalismo partecipativo, che, come
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ricorda Kai 2001, hanno permesso a una parte del pubblico di
superare i limiti geografici e quelli imposti dal controllo
autoritario dell’informazione, ma il quadro resta tuttavia
offuscato, tanto più che essi hanno allargato lo spazio della
comunicazione, ma non costituiscono una garanzia di
attendibilità.
Alla confusione ha poi contribuito una scarsa conoscenza delle
dinamiche politiche, sociali, ed economiche che agiscono nel
mondo arabo, e che hanno portato, secondo modalità e tempi
diversi, all’esplodere delle proteste in molti degli stati che ne
fanno parte.
Nell’analizzare come attori differenti – quelli istituzionali e non,
i media locali e quelli internazionali – hanno trattato gli eventi
delle proteste e della crisi siriane, si è reso dapprima necessario
contestualizzare il sistema dei mezzi di comunicazione
all’interno delle strutture politiche, economiche, e sociali
caratteristiche del paese.
La prima trappola in cui cade chi si addentra nel campo – ma
anche negli studi sul mondo arabo in senso più ampio - è infatti
quella di considerare la regione come un unico indistinto blocco,
in cui i processi storici si ripetono in maniera uniforme. Il primo
obiettivo della ricerca sarà dunque quello di isolare gli elementi
peculiari del sistema siriano, partendo da una descrizione delle
fasi storiche che hanno plasmato la struttura del potere e del suo
rapporto con la società civile e con la libertà di informazione.
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Si procederà poi ad analizzare l’attuale situazione della stampa,
dei media elettronici e di internet in Siria e, utilizzando come
strumento di analisi la sistematizzazione di Rugh, a fornirne una
categorizzazione.
Particolare attenzione verrà rivolta ai meccanismi di censura
utilizzati dal governo per regolare il flusso di informazioni nel
paese.
La ricerca si propone, inoltre, di individuare i processi di
rappresentazione delle proteste in Siria da parte dei differenti
attori mediatici coinvolti (le autorità governative e l’agenzia di
stampa ufficiale, i media transnazionali e internazionali), e di
delineare meglio il fenomeno della guerra delle immagini e della
mistificazione dei fatti nel contesto della crisi siriana.
Considerando poi l’importanza acquisita dai nuovi mezzi di
comunicazione nell’era contemporanea, si tenterà di descrivere
lo spazio guadagnato dai social media, da internet e dal
giornalismo partecipativo nell’arena della comunicazione, ma
soprattutto nella categoria di news providers in contesti in cui
l’accesso agli attori classici dell’informazione è limitato.
Non si poteva tralasciare, infine, il discorso intorno al ruolo dei
social media come promotori delle proteste: le dinamiche che
hanno interessato la Primavera araba non hanno soltanto assunto
valenza di fenomeno culturale, ma anche e soprattutto di evento
mediatico. Lo scopo sarà dunque quello di fare chiarezza nel
dibattito che vede contrapporsi chi ha parlato di rivoluzione dei
modelli di comunicazione e ha definito le contestazioni arabe “la
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rivoluzione di Twitter”, e chi si oppone ad una promozione dei
social media a motore degli eventi.
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CAP. 1: DALL’INDIPENDENZA A BAŠĀR
AL-ASAD
Parlare del panorama mediatico siriano e delle proteste che
hanno scosso la Siria, mettendone in crisi il governo, nell’ultimo
anno, esige primariamente di tracciare un quadro storico-politico
del paese quanto più esaustivo, per dare un’idea dei presupposti
che sottostanno agli eventi più recenti.
Il capitolo si propone dunque di tracciare una breve cronologia
storica del periodo post-indipendenza in Siria, mettendo in risalto
le questioni connesse al problema dell’identità nazionale e della
formazione del nuovo stato, nonché le lotte di classe che hanno
interessato il paese dopo il 1946.
Particolare accento verrà posto sull’emergere del partito tutt’ora
dominante in Siria, il Ba‛aṯ, e sulle dinamiche che hanno
permesso la formazione dell’attuale classe al potere.
Si è scelto inoltre di ripercorrere i momenti salienti del regime di
Ḥafīẓ al-Asad in quanto ritenuto indispensabile ad una migliore
comprensione del sistema sociale, politico ed economico
ereditato dal figlio Bašār al-Asad nel giugno del 2000.
Si ripercorreranno, infine, le fasi costitutive del governo di Bašār
al-Asad, dalla sua ascesa al potere alla stagione delle riforme,
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dalla repressione del movimento della società civile al periodo
dell’apertura economica, rivolgendo speciale attenzione alle
dinamiche di potere e al rapporto con la modernizzazione.
1.1: La nascita del moderno stato siriano
Il crollo dell’Impero Ottomano durante le Prima Guerra
Mondiale, e l’imposizione del moderno stato siriano, avevano
lasciato dietro di sé un senso di frustrazione nazionale. Nella
speranza di vedere realizzarsi l’unità territoriale del Bilād
aš-Šam (Grande Siria)
1
, molti siriani si erano rivolti al principe
hašemita Faisal. Le attese riguardanti le dimensioni che il nuovo
1
La Grande Siria (Suriyya al-Kubra) o Bilād aš-Šam (Paese del Nord), è il
nome attribuito all’unità territoriale storica della regione. Sulla sua effettiva
estensione, numerose sono state le definizioni: «[…] fino al 1920, “Siria” si
riferiva a una regione molto più ampia della Repubblica araba siriana, una
regione che si estendeva dai confini dell’Anatolia a quelli dell’Egitto,
dall’Iraq al Mar Mediterraneo. In termini di stati attuali, la vecchia Siria
comprendeva la Siria, il Libano, Israele e la Giordania, più la Striscia di Gaza
e Alessandretta». (Pipes 1990, p. 3)
«Come minimo, la Siria era inclusa in un rettangolo irregolare racchiuso tra il
Mediterraneo a ovest, le montagne del Tauro e dell’Anti-Tauro a nord, e i
deserti arabo, siriano e del Sinai a est e a sud. […] Il viaggiatore francese
Volney scrisse, nel 1787, che la Siria comprendeva “l’area inclusa tra due
linee, una tracciata da Alessandretta all’Eufrate, l’altra da Gaza (nel deserto
arabo) al deserto ad est”. […] Gli Europei erano soliti usare il termine Siria
meridionale con riferimento alla Palestina. […] Alcuni osservatori, la maggior
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stato avrebbe dovuto assumere, furono però presto deluse dalle
mire degli stati europei sulla regione mediorientale
2
. Il
protettorato francese degli anni Venti frazionò ulteriormente
l’unità originaria del Bilād aš-Šam, creando il moderno Libano a
partire dalla Siria occidentale, e cedendo la città di Alessandretta
alla Turchia. L’istituzione dello stato d’Israele nel 1948, infine,
pose termine a qualunque sogno di vedere realizzarsi la Grande
Siria.
Il quadro che si presentava all’indipendenza dal mandato
francese, il 1 gennaio 1946, era dunque quello di uno
stato-nazione privo di una struttura statale stabile, ma soprattutto,
di una genuina identità nazionale.
Il gap tra l’unità politica idealizzata (Suriyya al-Kubra), e la
modesta realtà territoriale ottenuta con l’indipendenza,
parallelamente ad una società segnata da antagonismo settario ed
etnico, rendevano difficile lo stabilirsi di una comunità
politicamente coesa. (Lust 2010)
parte di origine mediorientale, vedevano la Siria come un’entità più estesa.
[…] Antun Sa‛ada, fondatore del Partito Nazional Socialista Siriano, definì
inizialmente la Siria all’interno dei confini minimi; poi aggiunse la Penisola
del Sinai, l’intero Iraq, e persino Cipro». (Ivi, pp. 14, 15)
2
La Gran Bretagna, che inizialmente aveva concesso il suo patrocinio per la
formazione di uno stato indipendente e comandato da Damasco nella Grande
Siria, concordò poi con l’accordo Sykes-Pikot del 1916 la spartizione
dell’area mediorientale, concedendone la parte settentrionale alla Francia, e la
Palestina storica ai sionisti.
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La Siria post-indipendenza si trovò dunque immediatamente di
fronte a svariate sfide, la prima e più importante delle quali la
forte “settarizzazione” della società, divisa tra musulmani sunniti
(60%), cristiani (13%), alawiti
3
(12%), drusi
4
(5%),
ismaeliti
5
(1%), curdi, e turcomanni (10%). Inoltre, ampio era il
3
Setta musulmana eterodossa, diramatasi dallo sciismo, condivide elementi
dell’Ismailismo e del Cristianesimo. È diffusa soprattutto nella regione
settentrionale di Latakia (al-Laḏikiyya). «Gli Alawiti sono innegabilmente una
comunità etnica distinta che ha avuto storicamente poca coscienza di essere
araba. La loro origine collettiva, proveniente da un’eterodossia sciita della
Mesopotamia del decimo secolo, potrebbe essere legata a una stirpe persiana,
nonostante ciò non sia del tutto chiaro. L’idea che gli Alawiti discendano dai
Crociati […] è anch’essa inverosimile. Similmente non supportata, è la
visione di Rénan, secondo la quale gli Alawiti sarebbero totalmente Cristiani
[…]. Apparentemente verosimile è il fatto che i Crociati, come altri poteri
orientali di passaggio, abbiano perseguitato gli Alawiti». (Nisan 2002, p. 114)
4
Setta musulmana eterodossa, diffusa principalmente nella regione
meridionale del Ğabal al-Drūz. Derivante principalmente dallo sciismo,
accoglie anche elementi del Cristianesimo, del Giudaismo e dell’Induismo. Il
nome deve la sua origine al predicatore egiziano al-Darāzi, primo leader della
comunità drusa dell’XI sec., dichiarato eretico e fatto giustiziare dal califfo
al-Hākim bi’amr Allah. «Al centro della dottrina drusa si colloca l’unità di
Dio […]. I drusi si considerano i veri “unionisti” (muwaḥḥidūn). […] Con la
sua interpretazione allegorica dei versi coranici, la dottrina drusa considera i
sette pilastri dell’Islām rituali validi soltanto per coloro che accettano
letteralmente il significato dei versi del Corano, ed è per questo che li ha
abbandonati […]. » (Firro 1992, pp. 12, 13)
5
Seconda maggiore corrente dell’Islām sciita, deriva il suo nome dal settimo
Imām Ismā‛īl, del quale viene dichiarata legittima la successione. Conobbe
13
divario tra la popolazione urbana e quella rurale, e acuta la
rivalità tra la capitale Damasco e la città settentrionale di Aleppo.
Infine, una lealtà di carattere regionale, comunitario, etnico,
tribale, o transnazionale prevaleva su una di carattere nazionale.
1.2: Settarismo e lotte di classe
Il dominio ottomano e il mandato francese in Siria, avevano
forgiato una società fortemente divisa sia dal punto di vista
comunitario, sia da quello delle classi sociali.
Già durante l’Impero Ottomano, infatti, forti politiche di
centralizzazione avevano interessato le comunità eterodosse
minoritarie (soprattutto Alawiti e Drusi), alimentando un
antagonismo spesso acuitosi in relazioni ostili e violente. Il
mandato francese aveva poi, seguendo la politica del divide et
l’apice della sua diffusione nell’Egitto fatimide ed è tuttora presente in Siria,
Arabia Saudita, Africa Orientale, Yemen, Tajikistan, Afghanistan, India e
Cina. Gli Ismaeliti si dividono in due grossi gruppi: i Mustafiti e i Misariti.
«Gli Ismaeliti in Siria, all’incirca 200000, sono prevalentemente Misariti:
questo gruppo ha guadagnato importanza durante le Crociate, quando, una sua
società mistica, gli Assassini, tormentava sia i crociati che Saladino […]. I
Mirzaḥ sono la famiglia che guida la comunità. […] Originariamente
raggruppatesi nella provincia di Laḏiqiyya, la maggior parte degli Ismaeliti
siriani si è reinsediata a sud di Salamīa […]». ( Federal Research Division
2004, p. 115)
14
impera, stimolato il risveglio politico delle due minoranze nel
tentativo di contenere il fermento nazionalista.
La classe dei notabili aveva svolto un ruolo di spicco
nell’amministrazione e nella politica ottomane - particolarmente
nel XIX sec. - e aveva dominato il movimento nazionalista
durante il mandato francese. Nel momento della transizione dal
dominio ottomano a quello arabo, dunque, era venuta a
rappresentare l’elemento di maggiore continuità politica.
Quando i Francesi abbandonarono la Siria, un ristretto gruppo di
famiglie terra tenenti ereditò il potere, e la fase
post-indipendenza fu di fatto una continuazione delle politiche
dei notabili ottomani. Tale continuità ebbe un impatto notevole
non solo sulla gestione politica, ma anche sulle relazioni tra le
varie comunità del neonato stato.
«I notabili siriani al potere […] assunsero la guida delle istituzioni
politiche del post-indipendenza e avviarono un processo di
consolidamento dell’economia nazionale. La loro presenza in posizioni
di potere trasmise un’impressione di continuità politica. Il loro
impegno alla preservazione delle organizzazioni economiche e sociali
comunicò un messaggio di stabilità nella gestione dell’economia
siriana e nell’organizzazione della società». (Heydemann 1999, p. 30)
Grandi terra tenenti dominarono dunque il primo parlamento
della moderna Siria, e il medesimo gruppo di notabili formò il
giacimento di estrazione di primi ministri e funzionari.
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Fino alla fine degli anni Cinquanta, la cosiddetta “vecchia
borghesia” siriana,
6
ideologicamente conservatrice dal punto di
vista religioso e da quello sociale, riuscì a consolidare il proprio
potere e la propria predominanza nella vita politica del nuovo
stato.
Parallelamente al rafforzamento della vecchia borghesia, una
classe di capitalisti agrari e industriali
7
emerse nei primi anni
dell’indipendenza per guidare lo sviluppo economico della
nazione. Un importante strato di questa nuova classe,
proveniente dalle città rurali, confluì in una nuova intellighenzia,
parzialmente urbanizzata.
Nei primi anni post-indipendenza gli sforzi dei capitalisti si
unirono a quelli di politici con tendenze modernizzatrici, nel
tentativo di porre le basi per un patto sociale in Siria
(Heydemann 1999). Il modello auspicato si fondava su
programmi di welfare, riforme del lavoro, e, soprattutto, sulla
6
Al potere fino agli anni Cinquanta, il suo status ricevette un primo colpo con
la riforma terriera del periodo della RAU, mentre venne espulsa dal governo
con il colpo di stato ba‛aṯista del 1963. Il suo potere economico fu invece
fortemente danneggiato dalle nazionalizzazioni del 1963-1965 (Perthes 1991).
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Perthes 1991 inquadra meglio questa nuova categoria: diversa dalla vecchia
borghesia per origine di classe e ambito di produzione - la vecchia borghesia
si concentrava sull’industria pesante, la nuova classe su industrie di rifinitura -
riuscì a scalzare la prima durante il periodo di infitāḥ, beneficiando di
maggiore benessere e influenza politica.
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necessità di una riforma agricola e dell’assimilazione controllata
di contadini e operai nell’arena politica.
Tuttavia, i primi sviluppi economici si rivelarono presto precari e
finirono per generare un conflitto di classi, provando la
debolezza di un sistema, quello siriano, ancora fortemente
feudale e inegualitario, caratterizzato da una netta separazione tra
proprietà e coltivazione della terra. Un sottilissimo strato di
notabili siriani, controllava infatti metà delle terre, concentrate in
grandi tenute terriere. Mercanti urbani o notabili rurali
possedevano invece molte medie e piccole proprietà, mentre più
di due terzi dei contadini coltivava la terra in cambio di parte
della produzione.
L’aspro conflitto tra contadini e terra tenenti scatenatosi a metà
degli anni Cinquanta, costrinse l’alleanza tra capitalisti e
riformatori a rivedere il modello di patto sociale formulato, ma,
soprattutto, mise a dura prova la sua compattezza. Lo scontro
andò di fatti ad acuire le precedenti divisioni interne riguardanti
il modello di sviluppo economico più adatto: mentre i capitalisti
sostenevano l’adozione di un regime di Import Substitution
Industrialization,
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i riformisti auspicavano un sistema di libero
8
L’import Substitution Industrialization è una politica economica che prevede
la sostituzione delle importazioni con la produzione domestica, con lo scopo
di ridurre la dipendenza da altri stati attraverso la produzione locale di
prodotti industriali. Basandosi essenzialmente sul mercato interno, l’ISI è
sostenuto da politiche di nazionalizzazione, sussidi alle industrie primarie,
aumento delle tasse, ed elevato protezionismo. (Carbaugh 2010)