2
Questo testo, pubblicato in Italia nel 1999, dà la prima definizione di stereotipo e
ne spiega l’utilità nella formazione di un preciso consenso pubblico generalizzato a
certe politiche.
A seguire vi è la trattazione del pregiudizio. Oltre alla sua definizione, sono
riportati una serie di studi tramite i quali è stato possibile evidenziare come il
giudizio dato a priori non sia solo il prodotto di una mente “malata”, ma sia
qualcosa che si lega anche alle cognizioni sociali. In prima analisi, sono stati
esaminati gli studi di Dollard (1939) relativi al meccanismo della frustrazione
aggressività e alla definizione dei capri espiatori, e quello di Adorno et alii (1950).
In particolare, La personalità autoritaria si concentra sulle caratteristiche tipiche di
una mentalità fascista ed etnocentrica affrontando il problema non solo dal punto
di vista psicologico, ma anche tenendo conto delle conoscenze stereotipate su cui i
vari soggetti studiati fondano le proprie convinzioni. Dal pregiudizio come
“patologia” del singolo individuo, si è poi passati alla concezione di normalità del
pregiudizio con Allport (1973) e allo studio dei processi cognitivi di cui si è anche
occupato Tajfel (1985). Gli aspetti sottolineati in queste opere riguardano la
dinamica percettiva, essendo la percezione una funzione psichica ordinaria, e i
processi di categorizzazione della realtà.
L’approccio cognitivista ha avuto il merito di sottolineare l’ordinarietà del
pregiudizio e di come i processi mentali che ne stanno alla base favoriscano una
conoscenza stereotipata della realtà esterna. Ancora, nell’ambito di questo primo
capitolo, ci si è occupati di ulteriori approcci al pregiudizio tra cui in particolare lo
studio di Myrdal (1944) relativo alla discriminazione subita dai neri d’america e al
modo in cui il pregiudizio dei bianchi finisca con accrescere l’esclusione dei neri
dalla vita politica ed economica degli USA. Il tutto viene spiegato alla luce del
principio della cumulazione delle forze in base alla quale gli elementi della realtà
studiata- pregiudizio dei bianchi e povertà dei neri- si rafforzano reciprocamente in
un circolo vizioso. Infine, è stato esaminato lo studio di Wieviorka (1993), relativo
al razzismo degli emergenti movimenti comunitari presenti un po’ in tutta Europa.
3
In quest’ambito si è accennato all’idea di strumentalità del pregiudizio (Van Dijk
1993, 1994), in base alla quale questo è uno “strumento” adoperato dalla classe
dominante per far salva la propria posizione nella società.
Nella seconda parte del nostro studio è stata riconsiderata l’opera di Lippman al
fine di evidenziare come nella formazione di un’unica opinione pubblica sia
importante il richiamo sia ai simboli ritenuti rilevanti dai più- come i simboli
nazionali quali la bandiera e l’inno- sia alle emozioni suscitate da precise
immagini- come la guerra o un attacco armato. Ciò assicura un consenso
generalizzato a precise azioni politiche e militari. Nel nostro caso, l’attacco alle
Twin Towers, simbolo di “libertà” e “progresso”, e le emozioni suscitate dalle
immagini di povertà di una particolare area del mondo, hanno consentito la
formazione di un ampio consenso attorno alla guerra in Afghanistan e in generale
alla lotta contro il terrorismo di matrice religiosa.
In particolare, in questa seconda sezione si è dato ampio spazio all’opera di van
Dijk (1991, 1993, 1994).
L’approccio alla tematica della comunicazione e del pregiudizio è molto
interessante. Questo si caratterizza per un quadro teorico multidisciplinare che
considera allo stesso tempo gli studi sul razzismo, quelli relativi alla riproduzione
del razzismo nella nostra società e quelli sulle social cognition. In particolare dagli
studi svolti sia sulla stampa olandese che su quella britannica emergono alcune
caratteristiche tipiche del “modo” di fare comunicazione in Europa tendente ad
esaltare il ruolo della classe dominante, o élite, e a descrivere le minoranze
immigrate sempre in modo negativo. In particolare si ricorda l’importanza delle
headlines, i titoli, aventi come fine quello di informare il lettore in modo
immediato e che assieme alle routine giornalistiche sono gli strumenti
dell’informazione stereotipata.
Si riportano, poi, vari studi condotti sui media italiani; in quest’ultimo caso i lavori
considerati erano attinenti al periodo che andava dalla fine degli anni 70 sino alla
fine degli anni 90 e hanno consentito di evidenziare le caratteristiche tipiche degli
4
articoli relativi alla questione immigrazione, le tendenze del giornalismo italiano,
la scarsa tematizzazione di questioni complesse come l’immigrazione o il rapporto
tra Nord e Sud del mondo, gli stereotipi più diffusi riferiti agli immigrati, i discorsi
pubblici relativi a ciò che è stato vissuto sempre come un “problema”. Tra gli
autori riportati in questa parte ritroviamo Mansoubi (1990) con uno dei primi studi
sulla stampa italiana, Marletti (1989) che si è occupato anche di televisione, e
infine, per quel che riguarda la stampa degli anni novanta, Cotesta (1999a) e Dal
Lago (1999) in cui molta attenzione viene dedicata alla immigrazione de facto,
ossia i clandestini.
Infine, come suddetto, viene riportata l’indagine da me svolta sui maggiori
quotidiani italiani, Corriere della Sera, Repubblica e la Stampa nel periodo che va
dal 12 settembre al 12 dicembre 2001.
Questo lavoro “sul campo” si è svolto prevalentemente tra Napoli, Roma e
Cerignola (FG). Si ritiene quindi debitamente opportuno ringraziare l’Emeroteca
dell’ordine dei giornalisti di Napoli, la Bibliomediateca Rai di Roma e la
Biblioteca comunale di Cerignola per la disponibilità accordata.
Tale lavoro ha consentito di mettere in evidenza quei processi performativi
dell’opinione pubblica che si basano su una conoscenza scarsa e ampiamente
stereotipata dell’Islam.
Il lavoro è suddiviso in due sezioni, nella prima in particolare vengono riportati i
risultati statistici dell’indagine svolta. Qui, oltre a rilevare la collocazione degli
articoli esaminati, l’ampiezza, la presenza di foto e firma e la tipologia dei titoli, ci
si è anche concentrati sulle parole maggiormente frequenti nel corpo dei testi. Si è
così sviluppato uno studio sulle parole chiave che è stato poi esteso anche ai titoli
di prima pagina del 12 settembre di altre testate italiane. Di queste parole è stata
messa in evidenza la loro frequenza e soprattutto l’associazione tra i vari termini
considerati e l’idea negativa dell’Islam e degli immigrati che ne deriva.
Nella seconda sezione si discute, tramite alcuni pezzi di giornale, dell’“immagine”
data dai quotidiani italiani della Nostra civiltà, quella occidentale, e di “Loro”, del
5
mondo islamico. In primis, si è fatto riferimento alla teoria del clash of civilization,
usata in questo caso come parametro esplicativo della logica neo razzista che vede
nel contatto tra civiltà diverse la fonte di nuove guerre. A seguire, vi è una
descrizione dell’immagine dell’Islam derivante dai quotidiani italiani e, infine, la
discussione attorno alla questione immigrazione islamica e sicurezza. Infatti,
spesso al problema degli immigrati di fede islamica si associano discorsi tendenti a
sottolineare come questi siano una minaccia sia per la nostra “specificità” culturale
che, dopo l’11 settembre, per l’integrità del nostro territorio.
Si è potuto notare come sui quotidiani italiani manchi una descrizione delle
differenze tra Islam e Islamismo, essendo quest’ultimo un movimento di reazione
contro la tradizione quietista, come si vedrà nel corso del nostro studio. Mancando
tale distinzione si finisce con l’attribuire all’Islam una particolare “essenza”
violenta che viene associata anche agli immigrati islamici. A proposito di questi
ultimi, manca poi sui media italiani uno strumento interpretativo che consenta di
cogliere le differenze con l’Islam dei paesi di origine. Questa carenza è
ingiustificata vista la presenza di studi specifici sull’Islam immigrato come quelli
di Dassetto e Bastenier (1984), Allievi e Dassetto (1993), e Chantal Saint-Blancat
(1995), tanto per citarne alcuni.
L’effetto di tale scarsa conoscenza consiste nella diffusione di immagini
stereotipate sia di Loro che di Noi. Le due realtà vengono comunicate come mondi
perennemente in conflitto, come identità irriducibili. Queste categorie, mutuate da
secoli di storia fatti di Crociate e ben due invasioni islamiche, vengono estese nel
linguaggio dei media anche agli immigrati, lasciando quasi intendere che si tratti di
una nuova “invasione” dei saraceni, o di una “crociata alla rovescia”, come indica
la Fallaci in uno dei testi di nostro maggiore interesse (Corriere della Sera 29
settembre 2001).
Si vanno così a rafforzare idee xenofobe di “salvaguardia” delle frontiere, del
proprio territorio e della propria identità, da una entità, definita con categorie rigide
e statiche, che inevitabilmente ci minaccia.
6
Questo senso di pericolo, e la relativa “voglia di sicurezza”, costituiscono il
substrato emozionale di discorsi pubblici e mediatici che, sfruttando stereotipi e
pregiudizi storici e ben saldi nella mente di ognuno, legittimano leggi fortemente
repressive e lesive dei diritti umani fondamentali.
7
CAPITOLO I
Teorie dello stereotipo e del pregiudizio
1.1 Lo stereotipo: definizione e funzioni.
Lo stereotipo è tutt’oggi un concetto ampiamente applicato nello studio
delle comunicazioni di massa. Ma cosa s’intende effettivamente per
stereotipo? Qual è la sua corretta definizione?
Il termine deriva dal greco ed è il composto di due parole, stereos-
qualcosa di rigido, fisso e topos- carattere (Mazzara 1997, pag.15).
Il Devoto- Oli, dizionario della lingua italiana, definisce lo stereotipo
come
“qualsiasi opinione rigidamente precostituita e generalizzata, su persone
o gruppi sociali”. (Devoto- Oli 1990, pag.1887)
Nel glossario di Nero e Non Solo si parla di:
“un’immagine (di solito vissuta collettivamente) che fissa intorno a
qualcuno o qualcosa una gabbia di elementi che pretendono di
caratterizzarlo/a sempre nello stesso modo.” (Ghirelli 2001)
Ma è nel linguaggio proprio della stampa che se ne dà il corretto
significato, riferendosi a un testo fissato in una forma rigida allo scopo di
essere utilizzato più volte; come ha di fatto evidenziato Pickering:
“The therm stereotipe (…) taken place from the trade vocabulary of
printing and tipography, where it referred to text cast into rigid form for
the purposes of ripetitive use.” (Pickering 2001, pag.9)
Dagli anni 20 del novecento, grazie all’opera di Lippman, il termine
stereotipo entra a far parte del linguaggio delle scienze sociali.
Gradualmente ha assunto un significato differente dall’originale e sempre
8
più legato al termine pregiudizio; spesso infatti, queste due parole sono
state confuse, e buona parte della ricerca sociale inerente il pregiudizio, ha
finito con l’occuparsi degli stereotipi e del loro funzionamento.
Se cerchiamo di definire univocamente lo stereotipo, possiamo dire che
esso costituisce il “nucleo cognitivo del pregiudizio l’insieme, abbastanza rigido, di
informazioni e credenze, che un dato gruppo condivide rispetto ad un certo gruppo o
categoria sociale”. (Mazzara 1997, pag.16).
In realtà, le definizioni a cui possiamo giungere sono molteplici, generiche
o particolareggiate, e consentono di rilevare, di volta in volta, le
caratteristiche e le funzioni dello stereotipo.
1.1.1 Gli stereotipi in W. Lippman.
Per una discussione critica del termine stereotipo, occorre, a mio avviso,
partire dall’opera di Walter Lippman, L’opinione pubblica.
Trattasi di un testo del 1922 che oggi, alla luce della nuova situazione
politica italiana, viene ampiamente riconsiderato, dato che il quesito che
sorregge tutta l’opera è come si forma quel che viene indifferentemente
chiamata Volontà Nazionale o Senso Comune. In breve l’ “Opinione
Pubblica”.
Lippman, che fu un noto pubblicista, direttore di New Republic e World tra
il 1914-1918 e collaboratore dell’ Herald Tribune, concentra la sua analisi
soprattutto sugli eventi della prima guerra mondiale; a guardar bene, il
processo che l’autore descrive non è poi tanto diverso da quel meccanismo
che si attiva oggi quando si parla d’immigrazione. E’ il processo di
dicotomizzazione; questo meccanismo struttura in barriere rigide le
differenze tra i diversi gruppi umani e tende a creare maggiore coesione
9
all’interno del proprio gruppo tramite l’esclusione di chi non ha il
carattere, il topos, sia culturale che fisico, per farne parte.
Per certi versi, Lippman precede molti studi di psicologia sociale che
verranno trattati di seguito ed ha un peso non irrilevante in questo studio,
tanto da costituirne il filo conduttore.
A proposito del discorso relativo agli stereotipi, Lippman spiega la stretta
relazione che c’è tra situazioni di cui non si ha una diretta esperienza, e le
emozioni che quelle situazioni, lette magari sui giornali, ascoltate alla
radio o viste in televisione, possono suscitare.
“Il solo sentimento che si può provare per un fatto di cui non si ha
un’esperienza diretta, è il sentimento che viene suscitato dall’immagine
mentale di quel fatto. Ecco perché, finché non sappiamo quello che gli
altri ritengono di sapere, non possiamo nemmeno capire davvero le loro
azioni.” (Lippman 1999, ed. orig.1922, pag.42)
Per comprendere che cosa deve intendersi per “opinione pubblica”, è
necessario partire dallo studio delle “immagini mentali” che ognuno
possiede e che svolgono l’importante ruolo di mediazione tra la realtà
esterna così com’è, e l’idea di realtà che tutti ci costruiamo; in altre parole
lo pseudo-ambiente a cui reagiamo e nei confronti del quale manteniamo
un certo comportamento. Ma, il nostro comportamento, le nostre azioni,
non operano nello pseudo-ambiente, bensì, nella realtà. Per questo chi
studia l’opinione pubblica deve necessariamente riconoscere il
“rapporto triangolare esistente tra la scena dell’azione, la
rappresentazione che l’uomo si fa di questa scena e la reazione a tale
rappresentazione, rioperante a sua volta sulla scena dell’azione.” (ivi
pag.45)
Quando Lippman parla di stereotipi, spesso si riferisce alle “immagini
mentali” confondendo lo stereotipo con le categorie mentali che ognuno
10
ha e che sono alla base del meccanismo di apprendimento. La necessità di
distinguere tra le due cose, è stata già sottolineata da Allport (1973), (vedi
avanti “Lo studio dei processi cognitivi”).
Ma è in Pickering (2001) che la distinzione tra i due termini è posta in
maniera più netta. In particolare, Pickering descrive la categoria come lo
strumento necessario per organizzare il mondo nella nostra testa, e, creare
mappe mentali che ci consentono di negoziare quotidianamente il nostro
modo di essere nell’ambito delle relazioni sociali. Trattandosi di un
processo di negoziazione continua, le categorie non possono, al contrario
degli stereotipi, essere rigide e fissate una volte per tutte.
“First, categories (…) can be elastic in form. They are not necessarily
rigid or clearly separate from others, with hard and fixed boundaries
between them (…). Second, categories can be used in conjunction with
individualised understanding(…). Third, categorisation is dependent on
particularisation, since a category is always distinguished from what is
specific or singular” (Pickering 2001, pag 29)
Quindi, le categorie si formano al fine di classificare i fatti in unità che
contengono situazioni aventi caratteristiche tra loro simili. Il pensare per
categorie, però, è solo uno dei diversi modi in cui pensiamo. Noi non
pensiamo e non parliamo solo in relazione alle categorie, di solito si ha
riguardo per le distinzioni tra le categorie; spesso ci distacchiamo da
opinioni ritenute familiari, ogni uomo, infatti, per quanto possa essere
conservatore, ha una sua autonomia di pensiero. E’ per questo che si
afferma che le categorie non sono un qualcosa che limita rigidamente il
pensiero degli uomini, tanto più che le categorie stesse non sono rigide.
Lasciamo lo studio di Pickering, che verrà ripreso più avanti per chiarire il
dilemma centrale alla problematica della stereotipizzazione e le deficienze
11
negli studi sinora svolti, per tornare a Lippman e per capire quali sono le
funzioni che uno stereotipo assolve.
Spesso, quando ci viene chiesto di riportare quanto vediamo nella realtà,
tendiamo a riportare le cose non tanto così come sono, ma apportando
degli elementi o eliminandone alcuni che inconsciamente riteniamo
irrilevanti. Sono pochi i fatti che sembrano essere registrati dalla coscienza
così come effettivamente sono; la maggior parte dei fatti contenuti nella
coscienza appaiono, in parte, costruiti.
“Il ruolo dell’osservatore è sempre selettivo e di solito creativo. I fatti
che vediamo dipendono dal punto di vista in cui ci mettiamo, e dalle
abitudini contratte dai nostri occhi” (Lippman 1999, pag.104).
Una scena non familiare è per noi molto caotica, proprio perché non
conosciuta e non ancora facente parte delle nostre immagini mentali.
Come sottolinea John Dewey (cit. in Lippman 1999, pag. 104), ogni cosa
nuova ci colpisce, sempre che sia davvero nuova e insolita. Ne sono un
esempio le lingue straniere
“che non comprendiamo (e che) ci danno sempre l’impressione di un
confuso chiacchierio, un cicaleccio in cui non è possibile fissare alcun
gruppo di suoni nettamente definito e ben individualizzato”, (….) “gli
stranieri di un’altra razza si somigliano tutti, agli occhi del visitatore
forestiero. In un gruppo di pecore, ognuna delle quali è perfettamente
individualizzata per il pastore, un estraneo percepisce soltanto
grossolane differenze di grandezza e di colore.(…) Il problema
dell’acquisto dei significati delle cose, o il problema di formare abiti di
apprensione diretta è dunque quello d’introdurre: definitezza o
distinzione e, coerenza di significati in cose che altrimenti sono vaghe e
fluttuanti.” (ibidem).
Come siano questa precisione e coerenza dipende molto da chi le
introduce. Noi siamo soliti scegliere quale elemento particolare della
12
realtà caotica che ci avvolge entrerà a far parte della nostra conoscenza e
questa selezione avviene sulla base del nostro bagaglio culturale;
tratteniamo nella nostra mente solo ciò che la nostra cultura ha scelto per
noi e solo nel modo che la cultura ha stereotipato per noi. Quindi,
possiamo capire le azioni degli altri solo se riusciamo a sapere cosa questi
credono di sapere e il modo in cui le informazioni a loro disposizione sono
state filtrate.
“Infatti, i tipi accettati, gli schemi correnti, le versioni standard
intercettano le notizie prima che arrivino alla coscienza.
L’americanizzazione, ad esempio, è, almeno superficialmente, la
sostituzione di stereotipi americani a stereotipi europei.” (Lippman
1999, pag.108).
Altra cosa sottolineata da Lippman è la difficoltà di arrivare ad una
conoscenza profonda della realtà a causa della “mancanza di tempo”. In
questi casi, ci limitiamo a notare solo un tratto tipico di una specifica
situazione, riempiendo il resto dell’immagine con gli stereotipi che ci
portiamo dietro.
Gli stereotipi sono un qualcosa che media la conoscenza della realtà, anzi
ci consentono di “conoscerla” ancor prima di averne diretta esperienza;
contrassegnano gli oggetti in modo tale da renderli familiari o estranei.
“Vengono suscitati da piccoli segni, che possono variare dal vero indice
alla vaga analogia. Una volta suscitati, inondano la visione immediata di
vecchie immagini, e proiettano nel mondo ciò che la memoria ha fatto
resuscitare.” (ivi pag.112)
In particolare, gli stereotipi, possono essere trasmessi in maniera tanto
coerente da sembrare quasi un fatto biologico; non a caso, in passato, il
discorso razzista si basava sulle differenze biologiche tra i vari gruppi
umani, tesi queste ormai smentite dalla stessa scienza.
13
I sistemi di stereotipi, oltre a consentirci un’immediata identificazione di
ciò che, senza le nostre categorie mentali, finirebbe nel dimenticatoio,
hanno anche un’importante funzione di difesa delle nostre posizioni nella
società. Spesso accade che la contestazione dello stereotipo relativo al
nostro gruppo di appartenenza, venga vista come un attaccamento alle
fondamenta del nostro modo di vedere le cose che c’impedisce di avere
una visione più disinteressata della realtà. Tra l’altro, proprio perché
hanno la funzione di difendere le nostre posizioni nella società, gli
stereotipi sono carichi dei sentimenti, positivi o negativi. A tal proposito si
ricorda un episodio del primo libro della Politica di Aristotele (cit. in
Lippman, pag.119), in cui si elabora la nozione di “schiavo per natura”
finalizzata a consentire il perdurare della schiavitù, contrariamente a chi
era sempre più scettico in merito alla possibile esistenza di una reale
distinzione tra schiavi e cittadini liberi.
Aristotele comprese l’importanza di dover insegnare agli altri a vedere gli
schiavi come tali e non come esseri alla pari; perciò, lo schiavo per natura
è “colui che può appartenere ad un altro”(ibidem).
Si tratta di un’affermazione che dal punto di vista logico non ha alcun
significato, anche se qui forse la logica non c’entra. E’ uno stereotipo. Gli
schiavi hanno la ragione, ma non sanno usarla; la natura vuole che alcuni
siano liberi e altri schiavi. Se guardiamo bene, queste stereotipie non sono
poi tanto diverse da quelle sulle quali si è basata per secoli l’idea di
superiorità dell’occidente sugli “altri”.
Questo esempio indica perfettamente come è fatto uno stereotipo, ma
soprattutto ci dice qual è il suo tratto saliente, ovvero il fatto che il suo uso
precede sempre la ragione:
“è una forma di percezione, che impone un certo stampo ai dati dei
nostri sensi prima che i dati arrivino all’intelligenza” (ivi pag.120).
14
Quando gli stimoli che vengono dall’esterno ben si accordano agli
stereotipi, accade che preconcetti e realtà si fondano e quel che guardiamo,
è esattamente quello che abbiamo potuto prevedere.
In tal caso lo stereotipo si rafforza.
Quando però la realtà contraddice lo stereotipo allora possono accadere
due cose: se l’individuo ritiene scomodo modificare lo stereotipo, tenderà
a definire ciò che accade come un’eccezione. Ma se ha una mentalità un
po’ più aperta, accoglierà il nuovo e modificherà il proprio sistema di
conoscenze precostituito. Ciò accade soprattutto a chi già ritiene scomodi i
propri abiti mentali. E’ ovvio, però, che per cambiare le proprie
convinzioni, la nuova realtà dovrà essere estremamente sconvolgente.
Gli stereotipi ci consentono non solo di descrivere il mondo secondo
canoni familiari, ma anche di dotare tale descrizione di un particolare
giudizio, non a caso gli stereotipi sono carichi di affettività, come già
detto. Ciò ci porta a parlare dei gruppi umani in modo diverso, caricando
le descrizioni di connotati positivi o negativi a seconda dei casi. Tutto
questo è legato al fatto che ogni società ha non solo i propri stereotipi di
riferimento, ma anche i propri pregiudizi in merito agli altri, e l’azione
combinata dei due è fondamentale per percepire come un determinato
gruppo umano si rapporti agli altri.
Una società senza pregiudizi è impensabile, e nessuna si basa, o può
essere sicura di basarsi, su una conoscenza neutrale della realtà. Vero è
che ci comportiamo secondo regole e codici di condotta morale che
derivano, ad esempio, dalla religione o dallo Stato e questi canoni
determinano in larga misura ciò che percepiamo e il modo in cui lo
percepiamo. Stando alle parole di Lippman:
“Un codice morale è uno schema di comportamento applicato a un certo
numero di situazioni tipiche. Comportarsi come prescrive il codice è
15
servire lo scopo che il codice persegue (…) la volontà divina o quella del
re, (…) Alla base di ogni codice morale c’è un’immagine della natura
umana, una carta dell’universo e un’interpretazione della storia”
(Lippman 1999, pag.140 e ss.).
Quanto prescrive il codice si applica ad una realtà e ad un essere umano
così come lo si immagina; quando l’immagine contrasta coi fatti, applicare
la regola risulta complicato. Questo accade soprattutto perché, in un
determinato codice di condotta si affermano regole che si ritengono
assolute, perché rispecchiano la verità assoluta, come nel caso della
religione. Il problema sorge quando c’è l’incontro tra due o più supposte
VERITA’.
E’ scontato che l’assolutizzazione di un qualcosa renda impossibile il
compromesso tra diversi gruppi religiosi, per cui si ritiene necessario, in
tali casi, far sì che non vi sia contatto per evitare lo scontro. La soluzione
ideale, secondo chi sostiene tale posizione, è che vi siano tante terre quanti
sono i gruppi etnici e/o religiosi. Ovviamente si tratta di un’ipotesi
utopistica che però, forse per la sua semplicità, ha ampia presa sulle
persone.
In realtà è impossibile pensare di poter vivere in un luogo dove tutti la
pensino allo stesso modo, dove l’omogeneità di pensiero è tale per cui,
situazioni di crisi non dovrebbero esserci; questo significherebbe una
piena omologazione della vita reale al modello che di questa ci si
costruisce tramite la filiazione religiosa e/o politica. Quotidianamente,
invece, assistiamo a episodi che entrano in contrasto con quanto prescrive
il modello, e ci rendiamo conto di come questa omogeneità supposta non
si sia mai verificata nella storia.