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contenuti dei media, e di come nella maturazione delle idee dei cittadini entrino in gioco
molti altri fattori, che spesso condizionano fortemente anche il tipo di interpretazione che
il singolo individuo elabora su ciò che legge o vede in televisione. E a questo punto
entrano in gioco le teorie sull’influenza selettiva, che nella ricerca contemporanea
sembrano avere definitivamente soppiantato i vecchi modelli basati sullo schema stimolo-
risposta. Secondo questo approccio teorico tra lo stimolo prodotto dai media ( i contenuti
di tv e giornali ), e la risposta fornita dal pubblico ( il cambiamento nei valori e nei
bisogni delle persone ) agiscono tutta una serie di fattori psicologici e sociologici che
decodificano lo stimolo, lo interpretano in modo originale, e determinano la conseguente
risposta individuale. Risposta che può essere sensibilmente differente da persona a
persona, dato che ogni individuo ha caratteristiche sociologiche particolari e un profilo
psicologico unico. Si pensi, tanto per fare un esempio, al diverso significato che possono
attribuire alle notizie riguardanti il popolo tedesco un anziano veterano della resistenza al
nazifascismo e un giovane d’oggi. Anche i legami sociali intrattenuti dalle persone
possono influenzare l’interpretazione dei messaggi dei mass media: i genitori di bambini
piccoli possono mostrare, di fronte a scene di violenza o sesso in televisione, una
sensibilità maggiore rispetto alle coppie senza figli. Gli esempi possono essere infiniti. E’
bene comunque rimarcare che il potere di condizionamento dei media non è limitato
esclusivamente dalla capacità interpretativa delle persone, ma anche dalle fonti di
informazione legate all’esperienza personale dell’individuo. Il pubblico dei media è
naturalmente portato a confrontare, per quanto gli è possibile, ciò che legge sui giornali o
ascolta in televisione a ciò che vede accadere intorno, nel proprio ambiente sociale. Per
fare un esempio magari un po’ sciocco e banale si pensi alle previsione meteo: è
improbabile che i cittadini credano ai metereologi in televisione se ogni volta che questi
prevedono bel tempo l’indomani piove! Poi certo, le notizie fornite dai media su una
lontana guerra in Africa sono molto meno verificabili, per il cittadino medio, di quelle
riguardanti il tempo. Ma è innegabile che l’esperienza diretta della persona possa
indebolire, annullare, o anche rafforzare a seconda dei casi, il messaggio dei media. Del
resto, come molti studiosi hanno fatto notare, parlare di mass media in generale, come se i
mezzi di comunicazione facessero parte di un sistema di informazione omogeneo e
indifferenziato, non è molto corretto. E’ vero che, come si cercherà di argomentare nel
secondo capitolo, i principali mezzi di comunicazione su molte questioni sembrano essere
ispirati agli stessi valori culturali di fondo, che quasi sempre risultano essere i valori
dominanti della società e dell’epoca in cui operano, ma è anche vero che su altre questioni
vi è senza dubbio una maggiore diversificazione di opinioni e di sensibilità. In altre parole
nelle democrazie occidentali i cittadini non sono soggetti a un’informazione omologata e
sempre uguale ma, a seconda delle loro scelte su quale notiziario seguire o quale giornale
acquistare, possono risultare esposti a punti di vista politici almeno in parte diversi. Ma
lasciando da parte le diversità politico-ideologiche tra le diverse testate giornalistiche,
risultano degne di nota anche le differenze tra un medium e l’altro: nel corso del
commento ai risultati dell’indagine CNEL, e ai dati sull’indicizzazione dei contenuti dei
media, risulterà evidente come le idee di chi usa come unico mezzo di informazione la
televisione siano sensibilmente diverse da quelle di chi si serve anche della carta
stampata.
Detto questo possiamo passare a descrivere in breve l’impostazione della tesi, che si
articola in tre capitoli. Nel primo, attraverso l’esposizione delle teorie più autorevoli sulle
dinamiche del potere nei regimi democratici, si tenterà di focalizzare l’attenzione sul
concetto di agenda politica, già citato in precedenza. L’agenda politica di governo in
estrema sintesi consiste nell’ordine di priorità, e nel modo, con cui si affrontano le
questioni sociali ed economiche di competenza dei detentori del potere esecutivo. Per
5
comprendere la reale distribuzione del potere all’interno di un sistema politico risulta
indispensabile capire chi realmente scrive l’agenda, o per essere più espliciti: occorre
individuare quali soggetti dispongono del maggiore potere di influenza sui rappresentanti
politici eletti dal popolo. Nel secondo capitolo si proverà a indagare quale ruolo giochino i
media, spesso definiti come quarto potere, nella scrittura dell’agenda politica: per fare
questo si elencheranno le teorie più importanti sull’argomento provando infine ad arrivare a
una sintesi accettabile delle posizioni più convincenti. Nell’ultimo e terzo capitolo si
passerà ad analizzare i dati dell’indagine CNEL sulle opinioni politiche degli italiani in
merito alle varie iusses, con un paragrafo di approfondimento sul “caso Sardegna”. Nel
corso dell’analisi dei dati si proverà a comprendere quanta parte giochi il potere di
condizionamento dei mass media e quanto invece contino i fattori relativi alle condizioni
oggettive di vita e all’esperienza personale degli intervistati.
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Capitolo I
Quando si studia un sistema politico uno degli elementi di interesse più comune consiste
senza dubbio nel capire chi comanda, e in che modo vengono prese le decisioni che
impegnano tutta la comunità. Per quanto rispondere a un interrogativo del genere possa
risultare difficoltoso anche in una società totalitaria, nella quale i governanti, pur detentori
di un potere pressoché assoluto, non sono mai completamente esenti da influenze esterne,
in una democrazia di tipo occidentale trovare una risposta diventa ancora più complicato.
Perché la società civile è così complessa, gli interessi in gioco talmente disparati, le
pressioni sul potere politico così forti che riuscire a ricostruire i processi decisionali che
conducono a ogni specifica scelta appare di una difficoltà scoraggiante. Certo, una risposta
ingenua potrebbe sostenere che in democrazia fa testo la volontà della maggioranza, ma
anche il cittadino comune sa che gruppi e individui, anche e forse soprattutto in un sistema
democratico, sono sensibilmente dissimili per capacità di influenza, ricchezza e potere.
In questo capitolo saranno passate in rassegna alcune delle teorie più importanti
sull’argomento, che verranno messe a confronto nel tentativo di individuare un metodo che
sappia tener conto di tutti i contributi e che, soprattutto, si riveli un valido strumento nello
studio delle dinamiche del potere all’interno dei sistemi democratici.
1.1 La teoria delle élites
Forse il primo pensatore, da tempo divenuto un classico, che ha affrontato le
problematiche sulla distribuzione del potere in modo scientifico, e non più aprioristico o
ideologico, è stato Gaetano Mosca, che può essere considerato il fondatore di quella
fortunatissima teoria delle élites che troverà nel corso degli anni molti illustri sostenitori.
Secondo il pensiero di Mosca in ogni società, dalle più primitive a quelle “ più colte e
forti”, è sempre esistita una netta divisione tra una minoranza che governa e una
maggioranza che è governata. La prima si configura come un gruppo fortemente coeso, che
monopolizza il potere politico per consolidare la propria posizione di privilegio e curare i
propri interessi particolari mentre la seconda “ è diretta dalla prima in modo più o meno
legale, ovvero più o meno arbitrario e violento” ( Mosca, 1923, vol. I, p.78 ). Altri autori
prima di Mosca avevano sottolineato il fatto che ovunque minoranze governano e
maggioranze obbediscono, tentando di spiegare questo apparente paradosso attraverso il
concetto di forza : sarebbe dunque il peso delle armi, della forza militare, a determinare la
superiorità della minoranza sulla moltitudine. Mosca invece fornisce una spiegazione
diversa, originale, e senza dubbio particolarmente convincente : il dominio dell’élite
sarebbe garantito non già dal monopolio delle armi ma dall’organizzazione, a fronte della
disorganizzazione che caratterizzerebbe la maggioranza. Quando Mosca scrive che la
minoranza che governa trae la sua forza dal fatto di essere organizzata intende indicare, da
una parte gli interessi comuni che inducono i membri dell’élite a coalizzarsi tra di loro, e
dall’altra l’apparato statale usato come strumento per tutelare quegli interessi e realizzare i
propri fini. Riporto un breve passo, tratto dall’opera fondamentale di Mosca ( Elementi di
teoria politica ), di cui non si può evitare di ammirare la chiarezza e la sintesi di pensiero :
“ La forza di qualsiasi minoranza è irresistibile di fronte ad ogni individuo della
maggioranza, il quale si trova solo davanti alla totalità della minoranza organizzata ; e
nello stesso tempo si può dire che questa è organizzata appunto perché è minoranza. Cento,
che agiscono sempre di concerto e d’intesa gli uni con gli altri, trionferanno su mille presi
ad uno ad uno e che non avranno alcun accordo fra loro : e nello stesso tempo sarà ai primi
7
molto più facile l’agire di concerto e l’avere un’intesa, perché son cento e non mille”
(Mosca, 1923, vol. I, pag. 83). Tuttavia il concetto di èlite in Mosca non trova una
trattazione sempre coerente : in “Elementi di teoria politica” sono di fatto individuabili due
diverse definizioni : nella prima l’élite è identificata con la classe di governo (che dovrebbe
comprendere i detentori di cariche pubbliche e la burocrazia statale), nella seconda la
cosiddetta minoranza organizzata è presentata come classe dominante ( la quale arriverebbe
a comprendere l’intera classe media venendo quasi a perdere il suo carattere di minoranza).
La definizione di élite data da Vilfredo Pareto, che riprende le tesi di Mosca sull’idea di
una minoranza dominante presente in tutte le società, sembra più chiara e coerente. Pareto
distingue due parti diverse all’interno della cosiddetta “classe eletta” : una élite non di
governo ( composta da tutti coloro i quali occupano le posizioni più alte nei vari campi
della vita sociale, senza tuttavia possedere alcuna forma di potere politico) e una élite di
governo ( composta da chi detiene il potere politico ed esercita il dominio per conto
dell’intera minoranza dominante).
La teoria delle élites venne successivamente ripresa negli Stati Uniti, dove grazie al
successo delle opere di James Burnham e soprattutto di C. Wright Mills tornò
prepotentemente all’attenzione generale. Burnham recepisce pienamente la lezione di
Mosca e Pareto : secondo questo autore ogni società è infatti caratterizzata dal fatto di
essere dominata da un gruppo di potere, che deve la sua posizione di dominio al controllo
dei mezzi di produzione ( e qui il riferimento a Marx è esplicito ). Secondo l’analisi di
Burnham nelle società industriali avanzate si sarebbe verificato un passaggio di potere : la
borghesia capitalista avrebbe perso il controllo dei mezzi di produzione a favore di un
nuovo ceto composto da manager e alti burocrati dello stato, divenuti nuova classe
dominante. Grande scalpore fecero le tesi esposte da W. Mills in “La èlite del potere” in
cui, attraverso un’analisi impietosa degli Stati Uniti, l’autore denuncia la presenza di un
ristretto gruppo di potere che governa il paese, composto da coloro che occupano le
posizioni chiave nel settore politico, economico e militare del paese. Questi individui
sarebbero legati gli uni agli altri per ragioni sociali, economiche e familiari : provengono
dallo stesso ristretto numero di famiglie, hanno studiato nelle stesse esclusive università,
appartengono agli stessi ceti sociali e si conoscono personalmente tra di loro ( sono in
definitiva i cosiddetti WASP : ricchi professionisti anglosassoni bianchi ). I forti legami
che intercorrono tra loro e gli interessi comuni che li legano ne fanno una vera e propria
élite al potere che, attraverso il controllo dei gangli vitali della società americana, esautora
di qualsiasi potere reale le classi medie e il resto della popolazione e determina le scelte
fondamentali di politica interna ed estera in funzione della propria convenienza.
1.2 Una conferma ?
L’analisi del background socio - economico dei detentori di cariche pubbliche delle stati
occidentali, che in teoria dovrebbero vantare un alto tasso di democraticità, ha convinto
molti della fondatezza delle teorie elitiste. In effetti da da innumerevoli ricerche, condotte
in diversi paesi, risulta che uomini di governo, parlamentari, alti dirigenti politici e
amministrativi dello stato provengono da gruppi sociali di status elevati e sono assai poco
rappresentativi, in termini socio - economici, dell’insieme della popolazione. A puro titolo
indicativo ho provato a compiere un’analisi del genere, prendendo in considerazione le
caratteristiche di genere e di livello di istruzione
1
della popolazione italiana per operare un
confronto con i membri della Camera dei Deputati del parlamento italiano, di cui sono state
1
Le percentuali sul livello di istruzione si riferiscono in realtà alla sola popolazione in età da lavoro, cioè compresa tra i
25 e i 64 anni, ma possono essere considerate con sufficiente approssimazione come rappresentative dell’intera
popolazione.
8
esaminate le stesse caratteristiche. L’indagine, i cui risultati sono riportati nella tabella 1.0,
TAB 1.0 Caratteristiche di genere e livello di istruzione della popolazione italiana e dei
membri della Camera dei Deputati della XIII Legislatura
Caratteristiche Popolazione
italiana
%
Deputati
%
Genere
Maschi 48,5 88,6
Femmine 51,5 11,4
Livello di istruzione
Senza Titolo e licenza elementare 24,8 0,1
Licenza di scuola media inferiore 40,8 3,2
Licenza di scuola media superiore 25,3 29,7
Laurea 9,1 67,0
Fonti : elaborazioni su dati Istat ( Rapporto annuale 1999 ) e dati del Parlamento ( www.parlamento.it )
ha ovviamente solo un valore di massima : il titolo di studio di per sé non basta a
determinare a quale classe sociale si appartiene ma è certamente un indicatore significativo
ed è già stato usato in molte analisi di questo tipo ( si veda ad esempio Rush, 1988 ). Detto
questo i dati riportati nella tabella non sembrano lasciare spazio a dubbi di sorta : la quasi
totalità dei deputati italiani possiede una licenza di scuola superiore o una laurea ( il 96,7 %
per l’esattezza ) a fronte di una percentuale di diplomati e laureati nella popolazione
italiana che non raggiunge neppure il 35%. Se poi si guarda alla sola percentuale dei
laureati la situazione sembra ancora più chiara e appare legittimo più di un sospetto
sull’esistenza di una élite al potere. I dati sulla presenza delle donne alla Camera sono
altrettanto eloquenti : se di élite si deve parlare, allora questa è sicuramente un’élite al
maschile. E’ bene ricordare che ai medesimi risultati conducono una quantità infinita di
altre ricerche e statistiche, spesso molto più complete e raffinate di questa. Insomma, un
dato appare chiaro e incontrovertibile : la stragrande maggioranza dei detentori di cariche
pubbliche proviene da gruppi socio - economici simili, di status medio - alto e quasi
esclusivamente maschili. Ora il problema è il seguente : sono sufficienti questi dati per
provare l’esistenza di una élite al potere non rappresentativa di quella maggioranza
disorganizzata di cui ci parlava Mosca ? Proviamo a rovesciare la questione e affrontare il
problema da un’altra prospettiva : un governo e un parlamento che rispecchiano fedelmente
il profilo di genere, sociale ed economico della popolazione garantirebbero una maggiore
rappresentatività politica ? Niente lo lascia credere : è infatti perfettamente possibile
“ipotizzare un Parlamento che sia un perfetto specchio di somiglianze di estrazione e che
tuttavia non recepisca affatto i desiderata della società che rispecchia” ( Sartori, 1995, pag.
298 ). In parole povere non è affatto detto che chi ci è sociologicamente simile, sia un
leader politico, un capo di governo o un parlamentare, abbia per forza di cose le nostre
stesse idee politiche : può benissimo darsi che le abbia diverse se non opposte. La
rappresentanza politica non può dunque essere garantita sul piano della rappresentatività
sociologica ma bensì su quello della responsabilità politica, che per un gruppo dirigente si
traduce nella capacità di essere ricettivo, di rispondere per quello che fa e di “comportarsi
responsabilmente operando con efficienza e competenza” ( ibidem, pag. 299 ). Da questo
punto di vista anche un governo e un parlamento fortemente dissomiglianti dalla
popolazione che devono rappresentare, composti da individui appartenenti alle classi
medio - alte, può essere ricettivo ed efficiente e quindi offrire piene garanzie sul piano
della responsabilità politica.
2
Questa riflessione ovviamente non porta ad escludere
2
Ciò non significa in alcun modo negare che sarebbe auspicabile una partecipazione politica più diffusa che consentisse
la formazione di una classe dirigente più rappresentativa, anche in termini sociologici. Per esempio, la scarsa presenza
9
l’esistenza di un’élite al potere ma certamente ridimensiona il significato di dati come
quelli riportati nella tabella 1.0 : la presenza di una maggioranza di detentori di cariche
pubbliche provenienti da gruppi socio - economici di status elevati non è prova sufficiente
che possa avvalorare l’ipotesi di un sistema politico dominato da un gruppo di potere.
Evidentemente sono necessari altri dati e altri riscontri. Robert A. Dahl ha esaminato i
procedimenti usati dagli elitisti per comprovare la validità delle loro ipotesi e ne ha
denunciato l’inadeguatezza , individuando due diversi “errori di verifica”
3
. Un primo errore
consiste nel confondere l’élite dominante con un gruppo dotato di un elevato “potenziale
di controllo”. Con questa dizione Dahl intende indicare un certo numero di individui che,
per le posizioni di vertice che occupano nei vari settori della società, potrebbero
influenzare pesantemente o addirittura determinare alcune decisioni politiche fondamentali.
Ma questo è il punto : potrebbero se, e solo se, fossero concordi tra loro sulle scelte
specifiche da prendere e si adoperassero concretamente per realizzarle . Dahl cita
espressamente il triumvirato descritto da W. Mills : senza dubbio gli individui che
occupano i posti chiave del settore politico, economico e militare sono in grado di
condizionare fortemente le scelte politiche di un paese, ma per dimostrare che questa
capacità è effettivamente esercitata è necessario prima provare che 1) all’interno del gruppo
degli individui in questione regna una totale identità di vedute in relazione ai fini politici
che si vogliono conseguire e 2) che sono stati posti in essere comportamenti e azioni
specifiche per raggiungere gli obiettivi stabiliti. Il secondo errore consiste invece nel
generalizzare le osservazioni compiute in un singolo ambito di influenza. Ciò significa che
se in un determinato settore si riscontra la presenza di un’élite dominante, niente permette
di pensare che la medesima élite goda dello stesso potere di influenza negli altri ambiti
della vita sociale. Parlando di New Haven, una città i cui processi politici sono stati
indagati a fondo dall’autore, Dahl non nega che diverse decisioni vengano prese da un
ristretto numero di persone ma “ si dà il caso che il gruppo ristretto che controlla il
rinnovamento urbano non sia lo stesso che controlla l’istruzione pubblica, e non coincida
neppure con i due gruppi ristretti che guidano i partiti” (Dahl, 1970a, pag. 182 ). Arrivati a
questo punto Dahl elenca tre condizioni particolarmente stringenti che devono essere
verificate se si vuole dimostrare l’esistenza di una élite dominante :
1) L’ipotetica élite dominate è un gruppo ben definito;
2) In un buon numero di casi, riguardanti decisioni politiche fondamentali, le scelte
dell’ipotetica élite dominante sono in contrasto con quelle degli altri gruppi ;
3) In tutti questi casi le scelte dell’élite riescono a prevalere sistematicamente.
1.3 Chi detiene il potere ?
Diventa allora chiaro che per capire chi realmente detiene il potere, se una élite dominante
o una serie più ampia di soggetti, risulta indispensabile spostare l’analisi sulle decisioni
concrete. Bisogna esaminare attentamente i meccanismi attraverso i quali i vari attori
arrivano a influenzare o determinare le scelte politiche più importanti. In breve : è
necessaria un’indagine approfondita sull’agenda politica, che riesca a mettere in luce quali
accodi, quali scontri e quali volontà sono causa di ciascun provvedimento specifico. Robert
Dahl in un suo celebre studio ha esaminato il sistema politico della città di New Haven
cercando di scoprire quali fossero le dinamiche del potere locale. Egli ha preso in
delle donne nelle istituzioni politiche rappresenta un grave problema nel raggiungimento di una effettiva parità tra i
sessi.
3
In realtà sarebbero tre ma il secondo, che consisterebbe nel “confondere l’èlite dominante con il gruppo di individui
che nel sistema hanno la massima influenza” ( Dahl, 1970, pag 182 ), appare sostanzialmente uguale al primo.
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considerazione quattro modelli di leadership, “scelte per il loro carattere di frequenza e
generalità “ ( Dahl, 1970b, pag 159). Li riportiamo nell’ordine seguito dall’autore :
1) Una élite composta dai cittadini più ricchi e appartenenti alle classi sociali più elevate
che guidano la vita politica attraverso mediazioni e negoziati segreti condotti
nell’intimità delle loro abitazioni, aziende o circoli privati. I veri leader dunque non
sarebbero necessariamente i detentori delle cariche pubbliche ma un gruppo di potere
ristretto che esercita la propria influenza in forma clandestina e segreta. E’ chiaro che in
questo caso non è possibile sperare in nessun tipo di cambiamento democratico : visto
che i politici sono solo dei burattini nelle mani delle classi dominanti, le uniche
possibilità di superamento dello status quo sono legate a fattori esterni al confronto
democratico e alle elezioni politiche, come il progresso tecnico o una rivoluzione.
2) Una grande coalizione composta da leader eletti, funzionari pubblici e privati cittadini
imperniata sull’esecutivo, in cui spicca la figura carismatica del capo ( nel testo si fanno
gli esempi della presidenza di Roosevelt e di quella di Truman ). Come fa giustamente
notare Dahl questo modello di leadership è molto meno stabile del primo, che è il
riflesso di fattori socio - economici relativamente durevoli. Infatti una grande coalizione
formata da politici eletti e funzionari pubblici può mutare nella sua composizione o
addirittura dissolversi, quando i leader che ne fanno parte non dovessero più riuscire a
conciliare le loro strategie.
3) Una coalizione di capi, di leader e pubblici funzionari che rappresentano i diversi
interessi dei vari settori della comunità. Questo tipo di leadership è molto simile al
precedente, salvo che in questo caso l’accordo che tiene in piedi la coalizione è affidato
al lavoro di negoziazione dei vari capi, laddove nel secondo modello l’integrazione
delle strategie politiche dipendeva sostanzialmente dall’abilità e dal prestigio del capo
dell’esecutivo.
4) Piccole “sovranità” autonome ( meglio sarebbe dire organizzazioni ) che controllano
ciascuna un diverso settore della società facendosi portavoce di esigenze e interessi
specifici. Finché le strategie politiche delle diverse “sovranità” non entrano in conflitto
tra loro ognuna si dedica alla tutela dei propri interessi in perfetta autonomia dalle altre,
senza contatti o negoziati. La possibilità di uno scontro dagli esiti incerti è senza dubbio
vista con paura, per cui nella maggior parte dei casi si stipulano delle esplicite intese che
definiscono i confini delle diverse sfere di influenza ed evitano possibili contrasti. Nel
caso in cui invece lo scontro divenga inevitabile il ricorso alle urne, una decisione
dell’esecutivo o una sentenza della magistratura, a secondo del tipo di problema e delle
organizzazioni coinvolte, decreterà vincitori e vinti.
Nella sua analisi su New Haven Dahl sostiene di aver trovato prove dell’esistenza di tutti
questi modelli di leadership, eccezion fatta per il primo caso, quello riguardante la presenza
di un’élite dominante. Sostanzialmente Dahl descrive un sistema in cui le decisioni
politiche sono il prodotto dello sconto, della competizione e della contrattazione tra diversi
soggetti ( partiti, organizzazioni, gruppi di interesse ) diversi per interessi, strategie e potere
di influenza. Secondo i pluralisti, di cui Dahl è l’esponente di spicco, le conclusioni della
ricerca sul sistema politico di New Haven sono applicabili alla generalità dei sistemi
democratici, che vengono appunto denominati poliarchie. L’espressione , che letteralmente
significa governo di molti, vuole sottolineare la presenza di una molteplicità di
organizzazioni libere e autonome che concorrono, in misura diversa, alla determinazione
delle scelte politiche. Il diritto dei cittadini ad associarsi, per tutelare i propri interessi
particolari, attraverso organizzazioni libere ( siano partiti, gruppi di pressione o altro
ancora) è considerata da Dahl uno dei requisiti essenziali che deve possedere uno stato per
potersi definire democratico, accanto all’eguaglianza politica, alla libertà di voto, alla
libertà di opinione ecc. Infatti la libera formazione dei partiti politici costituisce il
11
meccanismo indispensabile per la selezione e l’elezione alle cariche pubbliche di
rappresentanti graditi al popolo, mentre la presenza dei gruppi di pressione garantisce la
partecipazione dei cittadini al processo decisionale e, quindi, il controllo finale di questi
ultimi sulla formulazione dell’agenda politica. E’ da notare che Dahl, in pieno accordo con
molti altri teorici dei gruppi di pressione, ritiene che nelle società democratiche esista un
naturale impulso all’organizzazione : ogni interesse richiede una qualche forma di
rappresentanza per essere tutelato e i cittadini imparano presto a comprendere i “ vantaggi
che si possono trarre dalla cooperazione e dall’unione di risorse” ( Dahl, 1982, pag. 46 ).
1.4 I difetti della poliarchia
A prima vista, sebbene convincente per alcuni aspetti, la teoria pluralista sembrerebbe
offrire una descrizione troppo idilliaca, a tratti quasi ingenua, della realtà. Se nelle
cosiddette “poliarchie” ogni gruppo sociale è libero di organizzarsi, far valere i propri
interessi e contribuire alla formulazione dell’agenda politica attraverso il libero confronto
con gli altri gruppi, non si capisce perché i processi di trasformazione sociale sono così
lenti e il motivo per cui alcuni cittadini sembrano possedere un’influenza sulle decisioni
politiche incomparabilmente più alta rispetto ad altri, che paiono sprovvisti di qualsiasi
peso politico. In realtà i pluralisti sono lontani da una descrizione idilliaca e ingenua della
società, e appaiono ben consapevoli della diversa distribuzione di risorse e potere tra i
diversi gruppi sociali e dei “guasti” che questo stato di cose produce nei sistemi
democratici
4
. In particolare Dahl individua quattro distinti difetti della democrazia
pluralista, che riporto di seguito rispettando l’ordine seguito dall’autore ( Dahl, 1982 ).
1) Le organizzazioni non si limitano a registrare l’ineguale distribuzione delle risorse ma,
in quanto l’organizzazione è essa stessa una risorsa, possono generare nuove disparità.
Appare infatti evidente la distinzione tra un insieme di cittadini organizzati, che in
quanto tali godono di una certa influenza politica, e il resto dei cittadini non organizzati
che dispongono di molto meno potere
5
. In particolare è possibile che un determinato
assetto pluralista si stabilizzi e contribuisca a “congelare” il sistema di diseguaglianze
politiche, sociali ed economiche attraverso una progressiva istituzionalizzazione delle
pratiche di negoziazione, che divengono sostanzialmente una questione di routine in cui
ogni antagonista ha ben chiari i limiti oltre i quali non può spingersi e accetta
implicitamente le regole del gioco. E’ ciò che Stein Rokkan, con una terminologia molto
felice, ha definito “pluralismo corporativo” : un sistema in cui gli accordi tra le parti
sono sostanzialmente predeterminati e scontati, questione di routine appunto, e dove una
rottura dei negoziati sarebbe vissuta come un disastro nazionale. C’è da aggiungere però
che non tutti hanno espresso una valutazione negativa sui sistemi avvicinabili al
modello del “pluralismo corporativo” : secondo Arend Lijphart una politica basata sul
compromesso è senza dubbio preferibile a una politica fondata sul principio
maggioritario, che valorizza il conflitto politico e lo scontro tra i diversi interessi (
Lijphart, 1994 in Pasquino, 1997 ).
2) Un rischio concreto, che corrono tutti i sistemi democratici e pluralisti, riguarda la
deformazione della coscienza civica. Le organizzazioni, per loro stessa natura, tendono
a privilegiare la difesa degli egoismi di parte sugli interessi generali, che riguardano
l’intera società. In questo senso rafforzano la solidarietà interna, minimizzando i
4
“ Sebbene i critici spesso attribuiscano alla teoria pluralista l’affermazione secondo cui i gruppi posseggono un eguale
grado di influenza sulle decisioni, resta il dubbio se coloro che possono essere definiti teorici del pluralismo abbiano
mai asserito una cosa del genere” ( Dahl, 1982, nota a pag. 48 ).
5
Si noti, su questo punto, la somiglianza col pensiero di Mosca : il singolo individuo è praticamente sprovvisto di
potere, solo all’interno di una organizzazione può sperare di influire sulle scelte politiche e tutelare i propri interessi.
12
conflitti latenti tra i membri ed enfatizzano le divergenze con l’esterno, a scapito della
coesione sociale : i cittadini, in parole povere, rischiano di sentirsi più parte di un
ristretto gruppo organizzato che dell’intera società, con tutte le conseguenze negative
che si possono immaginare sulla conflittualità sociale.
3) In alcune occasioni le decisioni di governo vengono fortemente influenzate, se non
direttamente determinate, dalle pressioni dei gruppi sociali più potenti : in questo caso
l’agenda politica viene distorta. Dahl cita due esempi particolarmente illuminanti. Nel
primo si ricorda come la formazione del bilancio del Congresso degli Stati Uniti, prima
del 1974, avvenisse in modo frammentato e decentrato : le singole decisioni di spesa e
di entrata venivano prese da diversi comitati legislativi, senza che si considerasse
l’ammontare delle spese complessive e il rapporto generale tra spese ed entrate. Si può
ben capire quindi come le scelte di ogni singolo comitato fossero fortemente
condizionate dalle pressioni delle varie lobby, che mettevano in gioco tutto il loro potere
di influenza nell’ambito delle questioni per loro più rilevanti. Nel secondo esempio
viene descritto invece il processo di determinazione del livello generale dei dazi, prima
della riforma del 1934, che risultava essere il sottoprodotto di una serie di singole
decisioni, in maniera del tutto simile al processo di formazione del bilancio
congressuale. In questo modo le scelte relative ai singoli dazi erano sottoposte al
condizionamento dei produttori interessati che, organizzati in potenti lobby, finivano col
determinare il livello generale dei dazi, senza che fosse possibile tenere in conto gli
interessi della collettività.
4) A volte importanti decisioni di competenza degli enti pubblici, specialmente in campo
economico, vengono invece prese da gruppi privati come le grandi multinazionali, le
associazioni degli imprenditori e i sindacati. La domanda che bisogna porsi è allora la
seguente : in questi casi lo stato è in grado di esercitare un controllo tale da ricondurre
all’ordine i sottosistemi ribelli ? La risposta, secondo Dahl, è spesso negativa. In primo
luogo le organizzazioni possono utilizzare le loro risorse private, per aumentare i costi
del controllo statale. Senza contare poi che fattori come l’ideologia di base e la
tradizione possono giocare a sfavore dell’intervento del potere politico. In secondo
luogo sovente lo stato è obbligato a fornire costosi incentivi ai diversi sottosistemi, per
indurli all’obbedienza. Ma questi stessi incentivi ( reddito, ricchezza, prestigio,
influenza, potere ) finiscono per moltiplicare le risorse necessarie ai sottosistemi per
resistere al controllo statale, secondo un modello che assomiglia molto a un circolo
vizioso. Infine il potere politico di un paese democratico è fortemente limitato
dall’assoluta, e crescente, complessità dei sistemi sociali moderni. Le autorità politiche
cedono volontariamente ai diversi sottosistemi parte del loro potere perché consce del
fatto che sarebbe impossibile “imporre una politica omogenea sul piano nazionale”
senza creare il “caos” ( Dahl, 1982, pag. 60). In questo senso possiamo concludere che il
demos, tramite i suoi rappresentanti, ha perso, almeno in parte, il controllo finale
dell’agenda politica.
Il problema fondamentalmente dunque consiste nel fatto che le risorse economiche sono, in
buona sostanza, convertibili in risorse politiche per cui, nei paesi capitalisti ( in maniera
comunque non dissimile dai paesi socialisti ), si riscontrano gravi violazioni
dell’eguaglianza politica. In considerazione di questo fatto Dahl arriva addirittura a mettere
in dubbio la legittimità del possesso privato delle grandi imprese ( Dahl, 1986), seguendo
un’argomentazione che sembra a tratti quella di un teorico marxista, a dispetto di chi
accusa il pluralismo di essere una teoria conservatrice, di semplice giustificazione dello
status quo. Il percorso logico seguito dall’autore è semplice : se la proprietà privata non
può essere considerata un diritto naturale, se non nella misura minima in cui garantisce una
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vita dignitosa e l’esercizio dei diritti democratici, allora per quale motivo il potere politico,
in base al diritto naturale del popolo all’autogoverno, non dovrebbe avere il diritto di
decidere come dovrebbero essere possedute e controllate le imprese economiche ?
1.5 La seconda dimensione del potere
Una critica convincente alle teorie pluraliste arriva dal famoso studio di Peter Bachrach e
Morton S. Baratz, nel quale gli autori sottopongono a un’attenta analisi critica un classico
del pluralismo : la ricerca condotta da Dahl sulla dinamica dei processi decisionali di New
Haven, della quale vengono evidenziati i limiti. Occorre subito dire che la critica dei teorici
della seconda dimensione del potere non è espressa nei termini di una stroncatura generale
e senza appello delle teorie pluraliste, ma viene sviluppata su di un piano costruttivo, quasi
a voler completare, e non certo demolire, il lavoro svolto da Dahl e soci, di cui si
condividono le critiche al modello elitista. Su questo punto gli autori sono molto chiari, fin
dalle prime pagine del loro studio : “La nostra argomentazione si svolgerà entro i confini
della tesi principale da noi sostenuta, quella, cioè, che il potere ha due facce, di cui nessuna
è percepita dai sociologi - cioè gli elitisti, N.d.R. - e solo una dai cultori di scienza politica
- ovvero i pluralisti, N.d.R. - “ ( Bachrach e Baratz, 1970a, pag. 187, corsivo mio ). Ma in
cosa consiste la critica al modello pluralista ? Secondo Bachrach e Baratz i pluralisti,
limitando la loro attenzione sulle decisioni concrete, direttamente osservabili all’interno
dell’agenda politica, mancano di considerare le questioni che sono tenute fuori dall’agenda
stessa. Infatti possono esistere soggetti, gruppi e organizzazioni interessati alla
“soppressione” di alcune decisioni che, attraverso l’influenza sui valori sociali e le pratiche
istituzionali, riescono a limitare il campo delle decisioni a questioni per loro relativamente
sicure, cacciando in una sorta di oblio quelle per loro potenzialmente più scomode. In
questo modo il quadro dei valori dominanti, dei riti e delle procedure istituzionali può,
come effettivamente accade in molti sistemi sociali, operare per favorire sistematicamente
un numero limitato di persone e gruppi, a spese degli interessi della collettività. Tuttavia
“elitism is neither foreordained or omnipresent”, come dimostra il caso della mobilitazione
popolare contro la guerra del Vietnam degli anni 60-70, che impose alle alte sfere politiche,
economiche e militari degli Stati Uniti la rinuncia a una guerra non più accettata dalla
maggioranza dei cittadini ( Bachrach e Baratz, 1970b, pag. 43-44). E’ importante
sottolineare bene le differenze tra l’approccio pluralista al potere e quello proposto dai
teorici della seconda dimensione. In una situazione osservabile secondo lo schema
pluralista, dove cioè le scelte politiche sono frutto della competizione democratica tra
istanze diverse, i gruppi che escono sconfitti dal confronto politico sono portati ad accettare
le decisioni prese perché le riconoscono come legittime, cioè prodotte attraverso una
procedura corretta e prevista dalla legge ( l’esito delle elezioni o di un referendum, il voto
del parlamento o un decreto del governo, una sentenza della magistratura ecc. ). Nel caso in
cui invece un gruppo particolarmente influente riesca a imporre la propria volontà,
attraverso il mantenimento di alcune questioni scomode all’esterno dell’agenda politica, la
maggior parte dei cittadini vengono scippati dalla possibilità stessa di appoggiare od
ostacolare le scelte politiche compiute, perché risultano di fatto impossibilitati a
riconoscere la fonte del potere e l’esatta natura delle decisioni prese. Quando Dahl, nel suo
studio su New Haven, analizza il processo decisionale che porta alla formulazione della
scelte politiche, non riesce ad ottenere un quadro veramente completo delle forze in gioco,
proprio perché trascura di analizzare le questioni lasciate fuori dall’agenda politica.
Riguardo al problema del rinnovamento urbano, per esempio, egli indica nel sindaco e
nell’amministratore del programma i personaggi che più di ogni altro hanno condizionato
le scelte adottate, ma “ come si può dare un giudizio sull’influenza relativa del sindaco Lee
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e del CAC ( il comitato civico composto dai membri dell’élite economica cittadina ,
N.d.R.) senza prima conoscere le proposte che Lee non avanzò in previsione della violenta
opposizione e, forse, delle sanzioni che avrebbe incontrato da parte del CAC ?” ( Bachrach
e Baratz, 1970a, pag. 193).
Un secondo aspetto oggetto di critica riguarda la definizione di “scelte politiche
fondamentali” fornita dai pluralisti. Nell’esame delle scelte di governo, secondo la teoria
pluralista, bisognerebbe distinguere tra questioni irrilevanti e decisioni chiave, sulle quali
appunto si deve concentrare l’attenzione, se si vuole comprendere chi davvero comanda e
quali sono i soggetti dotati di più influenza politica. L’osservazione è condivisibile, ma il
modello pluralista non riesce a fornire un valido criterio di distinzione. Dahl, per esempio,
si limita a definire le scelte politiche fondamentali come quelle scelte sulle quali si registra
un disaccordo tra due o più gruppi, senza pensare che, come giustamente fanno notare
Bachrach e Baratz, i gruppi possono tranquillamente divergere sia per questioni prive di
interesse che per questioni importanti. Almeno, nulla fa pensare e dimostra il contrario :
che, cioè, si maturino convinzioni differenti solo quando la posta in gioco è in qualche
modo significativa. Come alternativa a questa definizione Bachrach e Baratz ne
propongono una molto più restrittiva : le decisioni politiche fondamentali sarebbero solo
quelle che si propongono di modificare i valori dominanti e le regole del gioco.
Onestamente, se la formulazione di Dahl poteva apparire troppo generica e comprensiva,
questa, d’altra parte, sembra troppo limitativa. Si consideri un semplice esempio : il
governo decide di aumentare di qualche punto percentuale le imposte sui redditi alti e di
diminuire degli stessi punti percentuale le imposte sui redditi bassi. O ancora, si immagini
che il governo disponga di versare una parte dei finanziamenti destinati all’istruzione
pubblica alla scuola privata. Credo che nessuna di queste due decisioni potrebbe essere
considerata come una “sfida” ai valori dominanti o alle regole del gioco di uno stato
democratico, ma senza dubbio molti cittadini sarebbero concordi nel considerarle come
questioni importanti e significative, perché incidono, anche se minimamente, sulla vita di
molti individui e vanno a toccare interessi consolidati. Ragion per cui, a mio modo di
vedere, sarebbe più corretto definire le scelte politiche fondamentali ( cioè significative e
degne di interesse sociologico) come quelle decisioni che mutano lo status quo e tolgono
ad alcuni per dare ad altri, o più precisamente : apportano un vantaggio ad un gruppo e
cagionano uno svantaggio ad un altro gruppo. Senza per questo necessariamente
modificare il quadro dei valori dominanti di una società.
1.6 La terza dimensione del potere
In seguito Stephen Lukes individua una terza dimensione del potere, che ha l’ambizione di
offrire una visione completa sulle problematiche del comando, superando i limiti dello
schema bidimensionale. La teoria di Lukes, per quanto radicale, non intende confutare la
validità dei due modelli precedenti, di cui invece si riconoscono i meriti : le tre dimensioni
individuate, secondo l’autore, possono essere considerate come valide interpretazioni dello
stesso concetto di potere, che viene espresso in questi termini : “ A esercita potere su B
quando A influisce su B in modo contrario agli interessi di B “ ( Lukes, 1974, pag. 27 ). Ma
entriamo nel merito delle critiche del teorico della terza dimensione ai modelli precedenti.
Per quanto riguarda lo schema pluralista Lukes si limita a condividere gli appunti mossi da
Bachrach e Baratz, senza evitare di riconoscere che in certe situazioni l’approccio pluralista
al potere può rivelarsi fecondo, e condurre anche a delle conclusioni non pluraliste. E’ il
caso dello studio di Robert McKenzie in cui l’autore, pur impiegando gli strumenti della
metodologia pluralista, arriva a sostenere l’esistenza di una distribuzione piramidale del
potere all’interno dei due maggiori partiti politici inglesi. Le ragioni per cui invece è
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ritenuta inadeguata, o meglio incompleta, la teoria di Bachrach e Baratz ci conduce
direttamente a scoprire, nel concreto, in cosa consista la terza dimensione del potere. In
primo luogo si contesta che le scelte all’interno di un sistema politico siano sempre il
prodotto cosciente e intenzionale di volontà individuali, quasi che il futuro politico,
economico e sociale di uno stato moderno possa essere interamente definito, nel suo
sviluppo, da una serie di progetti e decisioni razionali. Lukes infatti sottolinea con forza
l’importanza della struttura sociale, del quadro dei valori dominanti, delle pratiche
istituzionali, il cui ruolo, che influisce pesantemente sulle configurazioni del sistema
politico, non può essere analizzato come espressione di volontà o condotte individuali.
Istituzioni, gruppi, organizzazioni, benché composti da individui, producono degli effetti
sistemici che esulano dalle scelte individuali, essendo il prodotto di forze sociali per buona
parte imprevedibili e incontrollabili. In questo senso i teorici della seconda dimensione, e a
maggior ragione i pluralisti, vengono accusati di adottare una teoria del potere ancora
troppo incentrata sull’individuo, sulla capacità di un soggetto di influenzare un altro, senza
riconoscere il peso che la stratificazione sociale e gli schemi culturali possono avere nella
condotta dei gruppi, al di là delle singole volontà individuali.
In secondo luogo, e a questo punto entriamo nel vivo della teoria, Lukes contesta che si
possano individuare situazioni di potere solo dove si registra un conflitto e una
contrapposizione di interessi direttamente osservabile. Secondo i pluralisti infatti il potere è
connesso alla capacità di un gruppo di far valere le proprie preferenze all’interno dell’arena
politica, nel confronto con gruppi portatori di altri interessi e altre istanze. Secondo i teorici
della seconda dimensione invece il potere può manifestarsi anche in forme più striscianti,
come quando un gruppo particolarmente influente riesce a limitare il contenuto dell’agenda
politica a questioni relativamente sicure per i suoi interessi, approfittando dello svantaggio
di altri gruppi troppo deboli per far sentire la propria voce che, di fatto esclusi dal sistema
politico, non sono in grado di portare all’attenzione generale le loro problematiche e
modificare così l’agenda politica. Ma Lukes va oltre, e si domanda : non siamo in presenza
di un esercizio di potere, del supremo esercizio del potere, quando i gruppi dominanti
riescono a influenzare e modificare la volontà dei gruppi più deboli, evitando così lo
scontro ? Non deve essere definito come potere la capacità di plasmare i desideri degli altri,
in modo da renderli funzionali ai propri interessi? In altre parole secondo Lukes i gruppi
dominanti, attraverso il controllo dei media e del processo di socializzazione, sono in grado
di modificare le percezioni e le preferenze degli individui, e possono riuscire a far apparire
i propri interessi particolari come vantaggiosi per la collettività in generale. Se la
manipolazione delle coscienze individuali ha successo i gruppi più deboli non sono in
grado di riconoscere la propria situazione di svantaggio, e sono portati ad accettare
passivamente l’ordine esistente, perché impossibilitati a immaginare una realtà differente, o
perché persuasi che quel particolare stato di cose sia giusto, naturale o comunque
immodificabile. In questo senso si impone una distinzione di grande importanza tra
interessi soggettivi - quello che le persone vogliono - e interessi oggettivi - quello che le
persone vorrebbero se potessero accedere a diverse fonti di informazione e disponessero di
un quadro di alternative allo staus quo.
Le tesi di Lukes ricordano il concetto marxista di falsa coscienza, ma in un certo senso se
ne discostano, e si avvicinano molto di più alle teorie di Antonio Gramsci e Louis
Althusser, due studiosi che hanno profondamente innovato l’ortodossia marxista. Infatti, se
è vero che per Karl Marx le idee prevalenti di qualsiasi epoca storica sono le idee della
classe dominante, che riesce a far apparire il suo interesse come l’interesse comune di tutta
la società, è anche vero che questo dominio culturale, più che la conseguenza del controllo
dei mezzi di informazione e del processo di socializzazione, è il risultato inevitabile delle
condizioni materiali di vita, ovvero della struttura economica. Perché secondo la teoria
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marxista sono le caratteristiche economiche e produttive di una società, il suo modo di
produzione, a determinare la cosiddetta sovrastruttura, cioè le idee e i valori sociali di una
comunità. Profondamente diversa, e molto più vicina a Lukes, la visione di Antonio
Gramsci, secondo il quale la supremazia di una classe sociale si esercita attraverso due
strumenti complementari : il dominio e l’egemonia. Per dominio si intende l’uso della
forza fisica da parte dello stato, attraverso gli apparati coercitivi della “società politica”,
mentre il concetto di egemonia indica la capacità di farsi guida politica e culturale, e quindi
di conquistare il consenso generale attorno ai propri valori e progetti politici. Inoltre
Gramsci è convinto che in una realtà sociale complessa come quella Occidentale la
funzione dell’egemonia, esercita attraverso gli “appariti egemonici” della società borghese
come i grandi giornali, i partiti liberaldemocratici e la scuola pubblica, sia di gran lunga più
importante, e decisiva, di quella del dominio. Per cui il controllo della funzione egemonica
è fondamentale non solo nella gestione del potere, ma anche per la conquista dello stesso,
da parte di quei gruppi che aspirano a diventare classe dominante. L’argomentazione di
Althusser ricalca sostanzialmente quella di Gramsci : “ Nessuna classe può detenere il
potere di Stato in modo duraturo senza esercitare allo stesso tempo la sua egemonia sugli e
negli apparati ideologici di Stato” ( Althusser, 1972, pag. 28). Gli apparati ideologici di
stato, attraverso i quali si esercita l’egemonia culturale dei gruppi dominanti, vengono
identificati da Althusser nelle seguenti istituzioni: le chiese, le scuole pubbliche e private,
la famiglia, i partiti politici, i tribunali, i sindacati, i media, l’arte e lo sport. Di particolare
rilevanza viene giudicato il ruolo di indottrinamento ai valori borghesi della scuola
pubblica.
Di fronte alla teoria della terza dimensione ci si trova in una situazione paradossale : non
si può negare la validità delle ragioni addotte da Lukes nel sostenere che il potere può
essere esercitato attraverso la manipolazione delle coscienze, si pensi ai poderosi sistemi
di controllo dell’informazione e di indottrinamento ideologico di cui si sono dotati gli
stati totalitari, ma è altrettanto vero che diventa pressoché impossibile distinguere tra
interessi soggettivi e interessi oggettivi. In primo luogo perché questa distinzione
presuppone un giudizio di valore che, in quanto tale, non ha nulla di scientifico e, in
secondo luogo, perché niente lascia pensare che lo scienziato sociale, chiamato a
individuare gli interessi oggettivi dei gruppi subalterni, sia immune dal condizionamento
dei valori sociali dominanti. Come scrive Polsby :” La presunzione che i reali interessi di
una classe possano essere assegnati da uno studioso consente allo studioso stesso di
denunciare una falsa coscienza di classe quando la classe in questione non è d’accordo
con le sue opinioni” (Polsby, 1963, pag. 23, traduzione mia ). In conclusione le
argomentazioni di Lukes sono senza dubbio affascinanti, e mettono in luce un aspetto
reale del potere, che è quello appunto di condizionare le preferenze delle persone
attraverso la manipolazione delle coscienze. Ma detto questo la ricerca sociologica non
possiede gli strumenti per individuare gli interessi oggettivi degli individui, perché un’
operazione del genere, mettendo in gioco i giudizi di valore, perderebbe il suo carattere di
scientificità e si ridurrebbe a un semplice dibattito politico. E’ invece possibile tenere
conto della terza faccia del potere individuata da Lukes e denunciare tutte quelle
situazioni in cui la povertà del dibattito politico, la mancanza di pluralismo culturale e il
monopolio dei mezzi di informazione possano far sospettare dei processi in atto di
manipolazione e distorsione dell’opinione pubblica.
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Capitolo II
Nel primo capitolo è stato appurato come, nello studio sulle dinamiche del potere, assuma
un’importanza centrale il concetto di agenda politica : sia per quanto riguarda il merito
delle questioni affrontate e l’ordine di priorità che viene loro assegnato, sia per quanto
riguarda l’insieme delle questioni che sono tenute fuori dal dibattito politico. Inoltre sono
stati citati gli attori più importanti e influenti del gioco politico, individuati sulla base del
loro potere di condizionamento sulla scrittura dell’agenda : partiti politici, grandi industrie
e multinazionali, sindacati, gruppi di pressione di vario tipo ( ambientalisti, economici,
religiosi, etnici ecc. ). Ma nella nostra società moderna, definita da più parti come “società
dell’informazione”, non si può mancare di esaminare il ruolo di condizionamento sulle
scelte politiche svolto dai mass media, i quali sono spesso stati accusati - a torto o a ragione
- di esercitare uno straordinario potere di persuasione e manipolazione sull’elettorato e
sull’opinione pubblica tout court. In questo capitolo si tenterà di chiarire meglio il ruolo
svolto dai media sia riguardo alla capacità di modificare l’agenda politica, sia riguardo al
grado di influenza esercitato sui processi di mutamento sociale a lungo termine : saranno
presentate le teorie e i punti di vista più rilevanti e si proverà, in conclusione, a presentare
un bilancio finale delle diverse argomentazioni. In parole povere la semplice domanda a cui
si vuole tentare di dare risposta è : i media possono essere considerati, al pari dei più
importanti attori del sistema politico ( partiti, industrie, sindacati, gruppi di pressione ), un
vero e proprio potere , indipendente dagli altri, libero nelle scelte e capace di condizionare
le decisioni politiche?
2.1 Media e agenda politica
Si potrebbe stilare un lungo elenco di casi in cui l’attività dei media ha finito col
condizionare pesantemente la scrittura dell’agenda politica, sconvolgendo l’ordine delle
priorità assegnate ai vari temi o addirittura imponendo all’attenzione del dibattito politico
questioni prima non considerate. Uno degli esempi meno recenti e più spesso ricordati
riguarda il caso del politico inglese Enoch Powell, il quale nel 1968 tenne un discorso, di
fronte a un piccolo pubblico, sui rischi connessi all’immigrazione. Powell durante quel
discorso sostenne che il crescente numero di immigrati che arrivavano dalle ex colonie
comportasse una serie di gravi problemi, legati all’aumento della criminalità e della
povertà e a una maggiore frammentazione della società inglese. Come detto il discorso
era destinato a un’audience limitata, ma furono distribuite copie dell’intervento di Powell
ai media, che provedettero a dare ampia pubblicità alle parole del politico inglese. Si
scatenò un vespaio di polemiche e Powell, accusato da più parti di razzismo, fu isolato e
costretto alla dimissioni dal governo ombra del leader conservatore Edward Heath. La
polemica fece balzare la questione dei rapporti razziali a uno dei primi posti nell’agenda
politica inglese dell’epoca ( Seymour-Ure, 1974, in Rush 1994 ). Episodi come questo si
sono moltiplicati negli anni più recenti, e non è difficile indicare dei casi in cui le
campagne dei media abbiano consentito a questioni dimenticate o poco considerate di
irrompere prepotentemente sulla scena politica, modificando la composizione dell’agenda
di governo. In tempi meno lontani possiamo ricordare, per esempio, il ruolo giocato dai
mass media nel portare all’attenzione dell’opinione pubblica e del potere politico le
tematiche relative alla diffusione dell’AIDS e alle estreme condizioni di indigenza di
alcuni paesi del terzo mondo. Le campagne dei media degli anni 80 e 90 hanno senza
dubbio contribuito a far divenire le questioni legate all’AIDS e alla povertà dei paesi in
via di sviluppo temi fondamentali dell’agenda politica dei paesi occidentali. Ma
continuare nell’elencazione di singoli episodi non è di grande aiuto, perché il problema