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tale, è soggetta alle leggi economiche della domanda e dell’offerta. Con il susseguirsi delle diverse
epoche cambiano le richieste degli uomini che vogliono modificare ora un determinato aspetto della
loro immagine e ora un altro. I trend cambiano e vengono sviluppate offerte personalizzate per i
pazienti: il surgery tourism apre la strada, con i relativi rischi, al low cost del bisturi. Al costo di un
singolo intervento chirurgico il paziente – turista può godersi una vacanza di sole e relax in un
paradiso tropicale del sud est asiatico, oppure lanciarsi in una ventiquattro ore non stop d
divertimento nei caldi lidi dell’America Latina.
A metà strada tra teoria sociologica e ricerca empirica, tale studio raccoglie, tramite colloqui e
interviste, le esperienze dei due protagonisti di un intervento estetico. Da un lato il chirurgo,
dall’altro il paziente: insoddisfazioni, paure, insicurezze e disagi socio - psicologici legati al
rapporto uomo/intervento estetico.
8
Capitolo primo
LA CHIRURGIA PLASTICA NEI SECOLI
Tracciare il percorso evolutivo della chirurgia plastico – estetica lungo i secoli può risultare
alquanto complesso e, a prima vista confusionario. Fare ciò implica necessariamente, come punto di
partenza, l’andare di pari passo con lo studio dell’anatomia umana e il suo sviluppo. D’altra parte il
chirurgo francese Henri de Mondeville affermava questa necessità già a partire dai primi anni del
1300, quando, nell’incipit del suo “Chirurgie” (rimasta però un’opera incompiuta a causa del
sopravvenire della tubercolosi che stroncò precocemente la vita dell’autore), sottolineava l’esistenza
di una sorta di relazione di interdipendenza tra l’anatomia e la chirurgia, in base alla quale le
pratiche chirurgiche, in particolare la chirurgia plastica, non si sarebbero mai potute evolvere nel
corso della storia1.
A tal proposito è utile ricordare la suddivisione in tre periodi dello sviluppo dell’anatomia suggerita
da Santoni – Rugiu e Sykes: il periodo pre–scientifico, quello scientifico e infine il periodo
moderno. Il primo periodo, pre-scientifico, copre un arco temporale molto vasto (dal Paleolitico al
1450 circa) in cui l’osservazione anatomica era ancora lontana dall’essere considerata una scienza
medica. Fino alla prima metà del XV secolo infatti vi era un mescolamento tra anatomia e
speculazione filosofica. Questo aspetto era la risultante di un metodo di approccio allo studio
anatomico di tipo primordiale: per esplorare le viscere corporee si ricorreva ancora alla dissezione
degli animali morti (dando luogo a una specie di studio comparato tra l’anatomia umana e quella
animale). Anche per quanto riguarda la diffusione del sapere, delle scoperte e degli ultimi
ritrovamenti in termini di tecniche e metodologie di studio, ci si affidava maggiormente a disegni e
rappresentazioni rispetto ai trattati scritti.
Tra il 1450 e il XIX secolo prende piede la considerazione dell’anatomia nei termini di scienza
moderna. È questo il cosiddetto periodo scientifico secondo la definizione di Santoni – Rugiu e
Sykes. La trasformazione in scienza moderna di quella disciplina fino a quel punto considerata pre-
scientifica è il risultato della convergenza di vari fattori: la precisione e la cura formale di disegni,
modelli e raffigurazioni anatomiche che corredano i testi medici del tempo (inoltre in quel periodo
cresce l’interesse anche da parte del mondo artistico nei confronti della rappresentazione del corpo
umano, basti pensare agli innumerevoli studi anatomici, in forma di disegno o di testo, di Leonardo
1
Henry de Mondeville esordisce affermando che “no craftsman should work on an object without knowing it. Being the
human body the object of the whole medical art, of which surgery is one of the instruments, it is obvious that a surgeon
who practices incisions on the different areas of the body and on its limbs without being aware of their anatomy will
never operate well” (Santoni – Rugiu e Sykes 2007: 2).
9
da Vinci); lo sviluppo della stampa, mezzo utilissimo per diffondere il sapere e le scoperte; infine,
l’avviamento alla pratica del sezionamento di cadaveri umani, che da un lato ha apportato migliorie
ed efficienze nel lavoro di studio dell’anatomia, ma dall’altro ha dato luogo ad aspri contrasti tra la
comunità medica e la Chiesa sull’utilità e la necessità del dover utilizzare, dissacrandolo, il corpo
umano per motivi di ricerca e approfondimento scientifico.
Infine gli ultimi duecento anni circa che dal 1800 conducono fino ai giorni nostri, in quello che è il
periodo moderno dell’anatomia. Gli studi anatomici sono sempre più approfonditi, precisi e
accurati, tanto da specializzarsi su ogni singola componente del corpo umano (dal sistema cardio–
circolatorio agli strati e substrati epidermici, dal sistema immunitario alla muscolatura, dalle singole
ossa dell’apparato scheletrico al sistema endocrino). Quest’ultima costante specializzazione dello
studio anatomico ha esercitato una notevole influenza sullo sviluppo della chirurgia plastica,
secondo la suddetta relazione di interdipendenza tra l’anatomia e le pratiche chirurgiche individuata
nel XIV secolo dal francese Henri de Mondeville.
Riprendendo lo schema appena descritto, proporrei di riutilizzarne la suddivisione temporale in tre
periodi per fare un po’ di ordine circa le tappe dell’evoluzione della chirurgia plastica.
1. Dall’India all’Italia, passando per la Mesopotamia e la Grecia
Derivante dal greco plastikos, termine che significa modellare e dare forma, si può facilmente
intuire che la chirurgia plastica ha origini e antenati molto lontani. Vi è un periodo unanimemente
riconosciuto da storiografia e comunità medica come l’inizio degli studi e dei primi interventi:
intorno al 600 a.C. (o forse tra il terzo e il quarto secolo a.C.: sulla data vi sono alcuni dubbi dovuti
alla pochezza di tracce e risorse originali rimaste ancora integre) compare quello che è considerato
il primo trattato sulla chirurgia plastica attribuito al chirurgo indiano Sushruta.
Il testo in questione è il “Sushruta Samhita”, in cui vengono descritti quelli che nei secoli successivi
diventeranno i principi fondamentali della chirurgia plastica, oltre che diverse esperienze di
operazioni e tentativi di innesti e ricostruzione di parti lese o amputate. Sushruta illustra
minuziosamente le tecniche utilizzate al tempo riguardanti i primi trapianti di pelle prelevati dalle
natiche (anticipando di oltre duemila anni la descrizione del primo trapianto ufficiale di epidermide,
datato 1869, ad opera del chirurgo svizzero Jacques - Louis Reverdin), oppure il famigerato metodo
indiano nella ricostruzione del naso e delle orecchie. Tale pratica consisteva nell’incidere su tre lati
un’area della cute guanciale adiacente alla parte da ricostruire (per l’orecchio destro o la parte
destra del naso, ad esempio, veniva utilizzata la pelle dello stesso lato del viso), per poi ribaltarla,
fino all’attecchimento, sulla zona da ricostruire. In pratica veniva così ricostruita prima la punta del
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naso, poi veniva dato lo spessore nella zona delle ossa nasali e delle cartilagini laterali. Questo
rudimentale intervento di rinoplastica correttiva, seppur scomodo per il paziente, ha superato
l’esame del corso dei secoli (ripreso e utilizzato anche da greci, arabi e bizantini) tanto da essere
ancora oggi citato come modello nei libri di chirurgia come “metodo indiano”. Ma l’importanza
dell’intervento al naso in quella epoca non è solo riconducibile al vanto di aver inventato una
tecnica chirurgica utilizzata per molti secoli a venire. La rinoplastica nell’India di quel tempo era da
considerarsi un intervento necessario in quanto il codice di condotta sociale e religiosa prevedeva la
completa amputazione dell’organo olfattivo come pena da scontare per esser caduti prigionieri in
battaglia, aver trasgredito le leggi, oppure nei casi di donne infedeli al proprio marito (si veda Ghigi
2008). Dunque emergeva una vera e propria necessità di ricostruzione dell’organo mutilato da parte
di quanti venivano condannati al “taglio del naso”. Questo strumento di punizione sociale e
religiosa (non esistevano ancora le prigioni) venne in seguito utilizzato come uno dei tanti pretesti
da parte dei colonizzatori inglesi per giustificare la proclamazione dell’India colonia al servizio
della regina d’Inghilterra e soggetta alle leggi e alle norme del paese colonizzatore, nascondendo i
reali e ben più noti motivi di tale decisione: una civiltà che amputava il naso a una persona perché
colpevole di qualcosa, o semplicemente accusato di potersi essere reso colpevole di un qualche
reato, aveva bisogno della colonizzazione di una nazione civile come l’Inghilterra per poter essere
raddrizzata moralmente. In pratica l’usanza indiana appariva agli occhi inglesi come una legge del
taglione.
A proposito della legge del taglione prevista dal Codice di Hammurabi nell’antico regno degli
assiro–babilonesi, vi è da notare che alcuni storiografi sostengono che gli albori della chirurgia
plastica siano da attribuire a quelle regioni mediorientali in cui il suddetto Codice fu redatto e
rispettato intorno al XX secolo a.C. Secondo tale corrente di pensiero, già assiri e babilonesi prima
di Sushruta avevano messo in pratica interventi di chirurgia plastica ricostruttiva del volto nei casi
di asportazione di tumori cutanei deformanti. Il tutto è riconducibile a una legge2 riguardante le
sanzioni da applicare al medico nel caso di morte o mutilazione del paziente durante un intervento:
il fatto che venga prevista una sanzione per le fatalità appena descritte ha fatto pensare che
effettivamente nella Mesopotamia fossero già diffuse le prime operazioni chirurgiche (almeno sul
volto, stando a quanto stabilito dalla legge). Però ancora oggi vengono poste delle difficoltà ad
accettare questa tesi e altre simili, come ad esempio quella riguardante la possibilità di credere,
leggendo le descrizioni contenute nei papiri di Ebers (3200 a.C. circa) e Smith (2500 a.C. circa),
che nell’antico Egitto venissero praticati interventi di ricostruzione dei tessuti, asportazione di
2
La legge in questione è la 218: “qualora un medico faccia una grande incisione con il coltello operatorio, e lo uccida, o
apra un tumore [sul viso] con il coltello operatorio, e tagli l’occhio, gli saranno tagliate le mani” (da:
http://it.wikipedia.org/wiki/Utente:Filippof/Preambolo_Hammurabi).
11
tumori dei tessuti superficiali e ricostruzioni in seguito a traumi facciali, fratture mandibolari e
nasali (si veda Ghigi 2008).
Non solo in India però, ma anche nel resto dell’Asia si sviluppa in parallelo l’arte della bellezza
chirurgica, con geniali testimonianze cinesi di ricostruzioni estetiche di orecchie e labbra (600 a.C.
circa). Il medico cinese Bian Que scrisse un testo, risalente al V secolo a.C., in cui descriveva i
metodi di cura di orecchie e occhi dei pazienti. In Cina, il divieto tradizionale di incidere il corpo ha
limitato tutti i tipi di intervento chirurgico fino a tempi abbastanza recenti: è solo a partire dal primo
periodo delle dinastie T’ang e Gin, intorno alla metà del X secolo a.C., che i testi medici
cominciarono a documentare delle pratiche di chirurgia ricostruttiva in uso al tempo (soprattutto del
labbro leporino, delle orecchie sporgenti e degli occhi).
Dovendo portare avanti un discorso di tipo storico – evolutivo di una disciplina medica non si può
certamente ignorare la figura di colui che è considerato universalmente il padre della medicina:
Ippocrate di Kos. Del figlio del medico Eraclide, il quale si vantava di essere diretto discendente del
dio della medicina Asclepio, si potrebbero dire molte cose, ma in questa sede ci si limiterà a quanto
è essenziale per l’oggetto del presente lavoro. Tra il V e il IV secolo a.C., periodo in cui visse ed
operò Ippocrate, si attesta la conoscenza in Grecia di alcune tecniche di chirurgia ricostruttiva,
alcune arrivate direttamente dall’India di Sushruta (importate nell’area mediterranea a seguito
dell’invasione indiana di Alessandro Magno il Macedone nel IV secolo a.C.), altre invece di
scoperta greca o mutuate da quelle di popolazioni limitrofe. Ne è testimonianza uno degli scritti più
importanti e noti del medico di Kos: il “Corpus Hippocraticum”. Il testo raccoglie diversi trattati
medici in cui si descrivono interventi e metodologie operative per ovviare a fratture o deformità del
naso e malformazioni del volto. La redazione di questi scritti, nonché la base teorica e le tecniche di
intervento, venne acquisita da Ippocrate in maniera “itinerante”: egli studiò e lavorò nel ginnasio
asclepiadeo di Kos, poi esercitò la sua professione nelle regioni settentrionali greche della Tracia e
del Taso, arrivando addirittura ad avere contatti con persi, egiziani e libici.
Dalla vicina Grecia le tecniche e le conoscenze sulla chirurgia ricostruttiva arrivarono facilmente
anche nel vasto impero romano soprattutto al servizio degli apparati militari. Nel “De medicina”
Aulo Cornelio Celso descriveva accuratamente gli interventi di ricostruzione del naso e delle
orecchie feriti o amputati, oltre alla tecnica di correzione delle mutilazioni del labbro, congenite o
provocate in battaglia, utilizzando lembi di pelle del viso secondo le indicazioni del metodo indiano.
In quel periodo, tra il I e il II secolo d.C., gli studi e le ricerche venivano condotti su animali oppure
sui gladiatori feriti. Era naturale quindi che la chirurgia del tempo si occupasse di ricostruire
porzioni o interi organi, soprattutto quelli facenti parte del viso, deturpati o completamente asportati
12
durante le battaglie a fini di spettacolo dei gladiatori nelle arene o dei militari che perivano durante
le campagne belliche per estendere i confini di Roma (si veda Santoni – Rugiu e Sykes 2007).
Dopo la caduta dell’impero romano si assiste a un periodo buio per quanto riguarda lo studio e il
progresso delle tecniche chirurgiche ma non solo: anche lo studio più basilare dell’anatomia umana
vive una fase di stallo un po’ ovunque nell’Europa occidentale (mentre in Arabia e Medio Oriente si
assiste al fenomeno opposto). Gli studi medici vengono ora condotti solo all’interno dei monasteri e
sotto il rigido controllo della Chiesa di Roma, che emana l’emendamento “Ecclesia abhorret a
sanguine”: viene vietata qualsiasi forma di dissezione dei cadaveri (animali o umani) a scopo di
studio in quanto considerata una pratica estremamente cruenta e anticristiana. L’unica eccezione a
tale regola è la Scuola Salernitana (fondata intorno al IX secolo), mantenuta viva e funzionante
perché facente di quella parte di territorio italiano sottoposto alla dominazione araba (che quindi
non rispondeva alle leggi e alle norme emanate da Roma). Questo permise alla scuola di svilupparsi
e di poter portare avanti la ricerca sull’anatomia e sulle tecniche chirurgiche come previsto dal
mondo arabo del tempo. Sull’onda di tale successo, in seguito, quando nel 1240 il re Federico II
fonderà l’università di Napoli, ritornerà in uso la dissezione dei cadaveri a fini di studio e
addottrinamento degli studenti (ivi., pp. 8 – 9).
Nel Medioevo vennero messi in pratica i progressi e le nuove intuizioni chirurgiche derivanti dallo
studio dei medici bizantini e arabi, quali ad esempio Oribasio di Pergamo (che descrive interventi di
ricostruzione di difetti facciali nel suo “Synagogue medicae”) e Paolo di Egina, tra il IV e il VII
secolo d.C. Un aneddoto molto interessante riguarda il caso dell’imperatore bizantino Giustiniano
II. A quanto si racconta, riportato anche con qualche nota umoristica da Rossella Ghigi,
l’imperatore di Bisanzio deposto per essere mandato in esilio a Cherson, in Crimea, dovette subire
lo sfregio dell’amputazione del naso. A quel tempo le menomazioni fisiche erano considerate un
deterrente per coloro che ambivano a posizioni importanti quali il trono, un po’ come accade ancora
oggi quando determinate categorie di persone ricorrono al bisturi per migliorare o modificare il
proprio aspetto esteriore per essere “più presentabili” a un colloquio importante (come si vedrà nei
prossimi capitoli). Da qui l’esigenza di Giustiniano, che da quel momento venne appellato con il
poco rispettoso nome di “Naso Mozzo” (ovvero Giustiniano il Rinotmeto), di recuperare il proprio
naso per poter risalire al trono dell’impero bizantino. Grazie all’aiuto del khan bulgaro Tervel l’ex
imperatore riuscirà a riavere indietro il suo naso grazie a un intervento chirurgico che gli consentirà
di tornare in patria e risalire sul trono. Peccato solo che pochi anni dopo, nel 711, Giustiniano venne
spodestato nuovamente dal trono perdendo anche la testa: i suoi soldati lo decapitarono (si veda
Ghigi 2008).
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Facendo un collegamento a quanto anticipato riguardo ai rapporti burrascosi tra la Chiesa e il
mondo della medicina medievale, c’è da aggiungere che tale periodo di buio scientifico andò avanti
per diversi anni. Fino a quasi tutto il 1300 la Chiesa continuò ad esercitare il proprio potere nel
determinare chi potesse insegnare le arti chirurgiche, chi avesse il diritto di impararle, dove e come
tali insegnamenti potessero avere luogo. Fu così che nel Medioevo l’arte della chirurgia riuscì a
proliferare nei conventi e nei monasteri, come già accennato in precedenza, dove venivano formati i
famigerati barbitonsores (coloro che venivano occupati nel lavoro di barbiere). Questa figura
professionale non si occupava semplicemente del taglio dei capelli, ma si specializzava anche in
tutto ciò che avesse a che fare con il taglio: dalle tumefazioni alla cura (con relativa incisione e
saturazione) degli ascessi, fino alle vere e proprie pratiche chirurgiche. Non a caso infatti, tale
periodo è ancora oggi noto come “l’era dei barbieri”. Così si arrivò a una netta distinzione
professionale tra chi gestiva e professava la conoscenza medica, il medico appunto, e chi invece si
“sporcava le mani” eseguendo gli interventi, i cosiddetti chirurgiens – barbiers, i quali fungevano
da aiutanti dei medici pur non avendo nessuna base teorica sui rudimenti medici. Tra il 1131 e il
12153 vi fu il completo declino della chirurgia: da quel momento ai monaci veniva fatto divieto di
esercitarla o insegnarla in quanto contraria ai principi cristiani di purezza e castità del corpo e dello
spirito. La situazione in cui cadde il mondo medico del tempo ebbe ripercussioni anche su
istituzioni che nulla avevano a che fare con la Chiesa. È il caso delle università in cui erano presenti
corsi di Medicina, i quali però erano del tutto teorici (data l’imposizione di Roma) che non
prevedevano esercitazioni di tipo pratico. Celebre è il caso dell’università di Bologna in cui vi era il
corso in Medicina e Filosofia, lasciando così intendere non solo l’assenza dello studio della
chirurgia e dell’anatomia in aula, ma soprattutto il carattere prettamente ideologico della laurea che
si andava ad acquisire. Ma a partire dal 1378 vi è da registrare un passo in avanti verso il ritorno al
normale lavoro di studio per lo sviluppo della chirurgia, almeno nella storica sede universitaria di
Bologna: viene introdotto l’insegnamento della chirurgia nel piano di studi della facoltà medico –
filosofica. Anni prima inoltre, grazie all’opera del restauratore dell’anatomia Mondino de Liucci,
la dissezione (per il momento si utilizzavano solo i cadaveri di persone giustiziate, o morte
naturalmente in prigione) era diventata una pratica ufficialmente accettata e riconosciuta dall’ateneo
bolognese come fulcro centrale dello studio dell’anatomia e di tutte quelle altre discipline ad essa
correlate, come la chirurgia per esempio (come descritto in Santoni – Rugiu e Sykes 2007: 11).
Si è detto che il mondo arabo non stava certo a recitare il ruolo di spettatore rispetto a quanto
accadeva in Europa tra il XII e il XV secolo. Su tutti spicca il lavoro del medico turco Serafeddin
3
In questo arco di tempo si concentrarono vari editti emanati dalla Chiesa, quali quello del Concilio di Reims (1131), di
Roma (1161), di Montpellier (1163 e 1195), di Tours (1195) e quello del papa Innocenzo III (1215).
14
Sabuncuoglu, che nel suo testo illustrato di chirurgia “Cerrahiyyetül Haniyye” (Chirurgia imperiale)
descrive le prime tecniche di chirurgia maxillo – facciale, di risoluzione delle alterazioni delle
palpebre e di ginecomastia (l’eccessivo sviluppo delle mammelle maschili, noto per l’appunto come
seno maschile). I suoi scritti hanno apportato un notevole accrescimento del sapere, tanto è vero che
la tecnica del chirurgo turco per asportare il tessuto ghiandolare mammario ha anticipato la moderna
mammoplastica riduttiva.
1.1. L’arte italiana e il buio fino al XIX secolo
Il Rinascimento era alle porte e in Italia stava iniziando a crescere una certa attenzione nei confronti
di quella specializzazione della chirurgia che manteneva la promessa di riparare e migliorare
deformità congenite o acquisite nel corso della vita dal corpo di una persona. Grande impulso alla
riscoperta di tali interventi, nonché degli studi ad essa dedicati, venne dato soprattutto dal fiorire del
sistema universitario italiano, che godeva di prestigio e fama a livello internazionale grazie alle
ottime sedi deputate a luogo di insegnamento e di studio, ma anche alle risorse (in termini di
studiosi e docenti) su cui poteva vantare.
Figura di spicco del panorama accademico è senza dubbio il medico bolognese Gaspare
Tagliacozzi, che dopo la laurea in Medicina e Filosofia all’università di Bologna, aveva ottenuto la
cattedra di Medicina, Anatomia e Medicina Teorica presso lo stesso ateneo. Importante è una sua
opera, il “De curtorum chirurgia per insitionem”, attraverso la quale riesce a realizzare quanto
avevano provato a fare prima di lui illustri nomi della chirurgia italiana, quali Andrea Vesalio e
Cesare Aranzio: far considerare la chirurgia ricostruttiva come una vera e propria scienza medica.
Nel trattato, dal nome altamente evocativo in quanto la traduzione recita “Chirurgia per mutilati per
mezzo di innesti” viene spiegato e illustrato quello che passerà alla storia con il nome di “metodo
italiano” per gli interventi di rinoplastica costruttiva. Tale metodo sembrerebbe mutuato dal già
famoso “metodo indiano” e dalle tecniche due note famiglie di chirurghi dell’Italia meridionale del
tempo, i siciliani Gustavo e Antonio Branca e i due fratelli calabresi Pietro e Paolo Vianeo. Nello
specifico si trattava di selezionare una zona del braccio da cui utilizzare una parte della pelle per
ricostruire il naso, tagliare il lembo individuato su tre lati (in modo da rimanere attaccato al braccio
tramite il quarto lato) e, tramite le fasi della educatio e dell’insitio, applicare la pelle sul naso. Per la
riuscita di questo ultimo passaggio era necessario che il braccio del paziente venisse legato in modo
da poter rimanere per circa un paio di settimane attaccato al naso tramite la sezione di pelle
selezionata per la ricostruzione. Una posizione alquanto scomoda, è vero, ma la riuscita
dell’intervento e una massiccia somministrazione di droghe ripagava di tutti gli sforzi. Non prima di
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una decina di giorni il chirurgo poteva operare il distaccamento dell’estremità di pelle ancora
collegata al braccio per adagiarla completamente sul naso, modellarla e suturarla in modo da avere
un nuovo naso ed evitando la necrosi del tessuto tramite la continua irrorazione di sangue dovuta al
fatto che la pelle veniva lasciata attaccata all’arto da dove veniva selezionata (altrimenti, se si fosse
tagliato e adagiato immediatamente il lembo di epidermide sul naso del paziente per il
modellamento, nel giro di pochi giorni il nuovo naso avrebbe dato luogo all’effetto di rigetto a
causa della mancanza di sangue). Le somiglianze con la tecnica indiana di Sushruta sono evidenti4,
facendo così pensare che Tagliacozzi avesse formato parte del suo metodo basandosi sulle
descrizioni del medico indiano (si veda Ghigi 2008).
Se oggi si può parlare di Gaspare Tagliacozzi come di una figura di enorme importanza nella storia
della chirurgia plastica, allo stesso tempo bisogna ammettere che nel suo tempo (ma anche dopo la
morte) non riuscì a godere di tanta fama e prestigio. È attestato che fino a tutto il XVIII secolo le
opere e le intuizioni del medico bolognese vennero recepite in maniera quantomeno ambigua
all’interno delle istituzioni accademiche: da un lato si schieravano i sostenitori del famigerato
trattato, tra i quali un altro luminare della chirurgia di Bologna quale Marcello Malpighi, che
sostenevano l’importanza del testo nell’aver fatto riflettere sul nuovo ruolo della medicina del
migliorare l’aspetto (oltre che la salute) delle persone; dall’altro vi era una nutrita schiera di
oppositori convinti che una pratica in cui la soddisfazione del paziente per il risultato finale era
controbilanciata (in posizione sfavorevole) dai dolori che bisognava sopportare durante e dopo il
trattamento. Per questo motivo il Tagliacozzi venne a lungo accusato di ciarlataneria. Accusa dalla
quale, peraltro, il medico si allontanò quasi istantaneamente (ma invano) sostenendo la differenza
tra la chirurgia decoratoria, ossia quella relativa al miglioramento della bellezza del paziente,
ovvero il tentativo di rendere più bella e attraente la persona che si rivolgeva al chirurgo, e la
chirurgia curtorum, che non è altro di diverso dalla semplice ricostruzione degli organi mutilati o
amputati (che comprende quindi un miglioramento della salute del paziente). Per il medico di
Bologna il fine ultimo e imprescindibile dell’arte medica in generale era quello del cercare in ogni
modo, con qualsiasi strumento e qualsiasi tecnica, di migliorare lo stato di salute di un paziente: se
questi ha una menomazione conseguente alla ferita di una spada che gli ha reciso una parte del naso
(dunque un difetto estetico), è compito del medico cercare di restituirgli uno stato di salute ottimale,
anche se questo implica un intervento rimodellante (Ghigi 2008; Santoni – Rugiu e Sykes 2007).
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Se si esclude solo la parte del corpo da dove veniva “preso in prestito” il lembo di pelle: Sushruta lo prelevava dalla
guancia del paziente, mentre Tagliacozzi preferiva farlo dal braccio. Per il resto, le tecniche hanno una base comune
rintracciabile nell’uso di una parte di pelle che veniva ruotata sul naso per farla attecchire, mantenendo però un lato
attaccato al punto di origine al fine di non arrestare l’irrorazione di sangue nei tessuti.