3
INTRODUZIONE
Il progetto della presente tesi nasce dal desiderio di approfondire uno
degli aspetti piø importanti e suggestivi della nostra tradizione, ossia quello
che riguarda le masche, figure tra realtà e immaginario popolare, le cui
vicende sono state tramandate di generazione in generazione fino ad oggi,
principalmente attraverso il canale della trasmissione orale. Infatti,
oggigiorno, sono ancora molte le narrazioni popolari che raccontano di
masche, così come sono numerosi gli eventi (piø o meno autentici) che le
vedono protagoniste: sabba, rievocazioni storiche, passeggiate nei boschi,
incontri a tema, che ripropongono in maniera piø o meno precisa le vicende
che riguardano i secoli bui che videro protagonista la tristemente nota Caccia
alle Streghe.
Lo scopo di questa tesi è analizzare, partendo dalle teorie antropologiche
che hanno permesso di contestualizzare questo aspetto della tradizione
popolare, in che modo le storie di masche vengono raccontate ai nostri
giorni, analizzando le metodologie con le quali si sceglie di ricordarle, così
come le motivazioni che spingono a farlo, nonchè i significati simbolici che
queste figure hanno mantenuto o acquisito nel tempo. Tutto questo è stato
possibile attraverso il confronto diretto con gli attori sociali che hanno
permesso la messa in scena della tradizione e la riproposta della storia.
In particolare, per questa ricerca è stata presa in considerazione la masca
Micilina di Pocapaglia, la piø nota del basso Piemonte, protagonista di una
rievocazione storica che è durata per ben tredici anni, nonchØ di un
cortometraggio liberamente ispirato alle sue vicende. Le motivazioni che
hanno fatto ricadere la scelta su Micilina, rispetto alle altre masche della
nostra regione, nasce principalmente da due fattori: in primo luogo, è stato
reputato interessante approfondire i motivi per cui Pocapaglia è così legata
alla sua masca, poichØ quella della strega contadina, nella maggior parte dei
4
casi, è una figura tendenzialmente negativa nell’immaginario collettivo; in
secondo luogo, è stato ritenuto rilevante analizzare il contesto sociale
all’interno del quale, nel 2009, è maturata l’idea di dedicare un
cortometraggio alla masca; piø in generale, si è voluto approfondire lo studio
relativo al progetto di una pellicola che vede come unica protagonista una
figura della tradizione popolare, o meglio, la tradizione stessa.
Il progetto è stato sviluppato affrontando in maniera specifica diversi
aspetti della realtà locale pocapagliese, che spesso sono stati ampliati così
da fornire una raccolta di informazioni piø esauriente possibile rispetto
all’oggetto di studio che si stava affrontando.
Nel primo capitolo, è stato reputato opportuno fornire un breve quadro
teorico per illustrare cosa e quali siano i beni demoetnoantropologici, nonchØ
quale sia il concetto di cultura intesa in senso antropologico; questo quadro è
stato tracciato al fine di collocare con precisione, all’interno del patrimonio
relativo ai beni demoetnoantropologici immateriali, narrazioni come quella
della masca Micilina di Pocapaglia; è stata poi sottolineata l’importanza del
lavoro sul campo e il ruolo dell’antropologo, che si trova a dover affrontare un
compito difficile rispetto alla conservazione di questi beni spesso di non facile
individuazione; per quanto riguarda i beni immateriali, inoltre, le difficoltà
aumentano, poichØ questi elementi “intangibili” della tradizione rischiano di
essere dimenticati in quanto spesso solamente affidati alla parola, ossia
esclusivamente alla trasmissione orale; per evitare la scomparsa dei beni
immateriali, è infatti necessario rieseguirli. E’ stato poi affrontato in linea
generica il discorso sulle masche piemontesi, per comprenderne le
caratteristiche e le capacità, rivolgendo un’attenzione particolare nei confronti
dell’etimologia del termine “masca” e soffermandoci sul momento della
veglia, in cui i racconti di masche avevano grande spazio.
Nel secondo capitolo, sono stati forniti alcuni dati statistici sui due paesi
roerini strettamente legati alla masca, ossia Barolo (paese natìo della donna)
e Pocapaglia (paese in cui visse e fu bruciata sul rogo), al fine di tracciarne
un quadro sociale quanto piø verosimile possibile; è stato successivamente
messo in atto un confronto tra le fonti pervenuteci riguardo a Micilina, tra le
5
quali spicca un manoscritto della seconda metà del Settecento, il Teatro
Historico, che, nel suo dodicesimo volume, riporta in maniera dettagliata le
vicende della masca Micilina. La consultazione di questo manoscritto è stata
possibile attraverso la collaborazione del Museo Civico di Palazzo Traversa
di Bra, ove il tomo è attualmente custodito, grazie al quale si è riusciti ad
ottenere le scansioni del frontespizio e delle pagine originali del libro. Alla
fine del capitolo sono stati aggiunti, a scopo puramente documentativo,
alcuni elementi palesemente legati all’aspetto turistico e suggestivo della
narrazione della masca, quindi meno rilevanti ai fini di questo elaborato,
ossia il racconto del ritrovamento di un presunto Libro del Comando
contenente le date in cui alcune masche sarebbero entrate in possesso
dell’oggetto (una delle quali farebbe riferimento al futuro), e del ritrovamento,
al Bric Milleocchi, di un pezzo di stoffa contenente la ricetta di un elisir di
lunga vita, chiamato “Il bacio di Micilina”. Il peso dato a questi due documenti
è manifestamente inferiore rispetto alle fonti storiche o agli scritti degli
studiosi locali e non, ma per una questione di completezza di informazioni si
è scelto comunque di non ometterli.
Il terzo capitolo, insieme al quarto, costituisce la parte centrale della tesi.
Questi due capitoli trattano, rispettivamente, della rievocazione storica della
masca Micilina e del cortometraggio che alla masca si è ispirato. In questo
punto della tesi, grazie al contributo di Elisa Barbero e Marina Tibaldi, attrici
rispettivamente della rievocazione storica e del cortometraggio, è emerso
quello che oggi è il nuovo significato che si è scelto di attribuire alla masca di
Pocapaglia. Colpisce in particolar modo, nel terzo capitolo, l’intervento di
Elisa Barbero, appena sedicenne ma comunque capace di spiegare in
maniera piø che esauriente le motivazioni che ancora oggi legano
Pocapaglia a Micilina, il significato della narrazione e della rievocazione per il
paese, e il suo personale punto di vista sulle masche. Queste informazioni
hanno permesso di rispondere ai quesiti posti all’inizio di queste pagine, che
sono all’origine di questo lavoro. Sempre all’interno del terzo capitolo, poi,
emerge un dato sociologico importante che riguarda l’attuale situazione di
Pocapaglia, e che mostra un’assenza di unità di intenti tra la popolazione e la
6
sua Pro loco. Le recenti scelte della Pro loco hanno reso impossibile alla
sottoscritta di assistere alla rievocazione storica: è per questo motivo che si è
cercato di dare un’idea di quella che è stata la rievocazione attraverso
l’analisi dell’ultimo copione ufficiale, risalente al 2009, fornitomi dai registi
Franco Tibaldi e Rita Barbero. Per dare al lettore anche un’idea del
cortometraggio, nel quarto capitolo è invece possibile leggere una breve
trama e una recensione di Io sono masca!.
Il quinto capitolo è quello che, per certi aspetti, piø si allontana dal tema
centrale della tesi, e ha per protagonista l’Ecomuseo delle Rocche del Roero.
La scelta di dedicare spazio a questa istituzione culturale, inizialmente è
derivata dal desiderio di scoprire come sia nato il “sentiero alla masca
Micilina”, così da indagare sulle scelte che hanno portato l’Ecomuseo al
coinvolgimento del Comune di Pocapaglia nel progetto di infrastrutturazione
territoriale proprio con un sentiero dedicato alla nostra masca. Le numerose
e interessanti informazioni ottenute dall’incontro con una degli operatori
ecomuseali, ha fatto poi sì che lo spazio originariamente previsto si
ampliasse notevolmente; queste pagine sono sicuramente utili ad arricchire
le informazioni relative al territorio al quale appartiene il paese di Pocapaglia.
In questo capitolo emerge un altro dato sociologico importante, che ha
sempre a che fare con le istituzioni locali di Pocapaglia e una sorta di
manifesto immobilismo politico.
Il sesto capitolo è interamente dedicato a un vero e proprio confronto tra
masche. La lettura della tesi di laurea Rievocazioni storiche e contesto locale
della collega Ilaria Gerbaudo ha messo in evidenza differenze e somiglianze
tra le realtà locali di Pocapaglia e Montà rispetto al significato che la masca
Micilina e la masca Fiorina hanno per i rispettivi territori, e alle modalità di
messa in scena della tradizione, con conclusioni estremamente interessanti.
Il settimo capitolo, infine, è stato dedicato alle conclusioni alle quali questa
indagine ha condotto, e alle valutazioni rispetto ai dati ottenuti durante le
ricerche, che mettono in evidenza i risultati maggiormente rilevanti sia a
livello antropologico che a livello sociologico.
7
Capitolo 1
La tradizione popolare
1.1. I beni demoetnoantropologici e il concetto di cultura
Per comprendere cosa s’intenda per beni culturali demoetnoantropologici
(detti anche beni DEA) è innanzitutto necessario analizzare il concetto di
cultura. Dal punto di vista antropologico, quando si parla di cultura non ci si
riferisce a una distinzione tra soggetti istruiti e non istruiti. Una delle
definizioni piø note, che risale al 1871, fu formulata da Edward Burnett Tylor,
nel suo Primitive Culture. Secondo lo studioso «La cultura, o civiltà, intesa
nel suo ampio senso etnografico, è quell’insieme complesso che include la
conoscenza, le credenze, l’arte, la morale, il diritto, il costume e qualsiasi
altra capacità e abitudine acquisita dall’uomo come membro di una società»
(citato da Bravo e Tucci, 2006, p.9). La cultura, in termini antropologici, è
dunque quell’insieme di elementi
1
che caratterizza un gruppo umano, di cui
l’uomo stesso è creatore e portatore. In quanto «capacità e abitudine
acquisita» (Tylor, 1871, citato da Bravo e Tucci, 2006, p.9), la cultura si
trasmette di generazione in generazione all’interno di ogni gruppo umano,
dando origine alla tradizione.
Relativamente a ciò che concerne il patrimonio DEA del nostro paese, gli
studiosi si sono interessati principalmente alle comunità rurali, dal livello di
alfabetizzazione scarso o totalmente assente. A questo proposito, è
necessario riferirsi alle strutture sociali delle società definite “complesse”,
ossia «società caratterizzate da marcate differenze di reddito, di potere e di
prestigio, di stili di vita e di consumo, di accesso all’istruzione formale e da
un’ampia varietà di figure professionali e di ruoli funzionali» (Bravo e Tucci,
2006, p.10). Analizzando queste molteplici differenze, è spesso stato
1
Per elementi, così come affermano Bravo e Tucci (2006, pp.9-10), si intendono anche «i
manufatti, la varietà di oggetti, i prodotti materiali dell’attività di questi uomini in società,
svolta secondo i saperi, le tecniche e le credenze che tale società caratterizzano».
8
possibile individuare la suddivisione delle società complesse in classi sociali;
tra queste, gli etnologi si sono concentrati sulla cultura delle cosiddette classi
popolari
2
, spesso indicate con i termini di «folklore», «tradizioni popolari»,
«cultura popolare» (Bravo e Tucci, 2006, p.10). E’ dunque dalla base della
gerarchia sociale delle società complesse che è possibile risalire alle
tradizioni popolari.
Con i processi di industrializzazione e urbanizzazione iniziati intorno agli
anni Cinquanta-Sessanta del secolo scorso, si è verificato un graduale
abbandono della tradizione, successivamente ripresa attraverso il fenomeno
di rivitalizzazione, anche detto «folk revival» (Bravo e Tucci, 2006, p.17), una
sorta di reazione ai grandi cambiamenti avvenuti nel nostro paese negli ultimi
quarant’anni del Novecento, iniziata per merito dei cosiddetti «intellettuali
locali
3
» (Bravo e Tucci, 2006, p.18), il cui operato agiva in difesa delle
comunità locali alle quali questi soggetti appartenevano, e che stavano
scomparendo con l’avvento delle industrie e del conseguente esodo nelle
grandi città, nuove mete soprattutto dei giovani, convinti di poter costruire al
di fuori della piccola realtà dalla quale provenivano un futuro piø stabile e
sicuro.
1.1.1. La tradizione
Ma che cos’è la tradizione? L’origine di questa parola risale al termine
latino traditio
4
, che deriva dal verbo tradere, ossia rimettere, trasmettere
2
«Sviluppando alcune osservazioni di Antonio Gramsci sul folklore, pubblicate nei Quaderni
del carcere (in particolare Quaderno 27), Alberto Mario Cirese ridefinisce il folklore come la
cultura – ovviamente in senso antropologico – propria delle classi subalterne, caratterizzate
da una specifica condizione socioeconomica, sostanzialmente il lavoro manuale ed
esecutivo, e che sul piano politico e piø in generale hanno assai piø ridotto accesso agli
strumenti del potere e subiscono l’egemonia delle classi dominanti, dei loro intellettuali e dei
valori e modelli di comportamento che essi trasmettono loro» (Bravo e Tucci, 2006, p.11).
3
Come spiegano Bravo e Tucci, «Membri attivi delle comunità locali (…) organizzatori di
cultura e suoi diffusori» (2006, p.18).
4
Come spiega Cuisenier, la parola traditio ricorre con frequenza nei libri sacri, con il
significato di dare, comunicare, consegnare ad altri. Secoli di riflessioni finiscono per
specializzarla, nel pensiero cristiano, in un senso tecnico, quello di comunicare
«l’insegnamento trasmesso oralmente delle verità cristiane». Teorici e vescovi hanno quindi
dovuto distinguere il “vero” insegnamento della Chiesa dalle altre “tradizioni” diffuse nei
diversi ambienti culturali da cui proveniva il “popolo” cristiano. L’opposizione principale era
9
(Cuisenier, 1999, p.19). Prendendo alla lettera il significato di questa parola, i
romani per lungo tempo hanno inteso la tradizione come un gesto materiale,
ossia il passaggio di un oggetto da qualcuno a qualcun altro affinchØ lo
custodisse, consegnandolo poi a sua volta ad altri (generalmente, ai propri
figli).
L’oggetto da trasmettere, però, non deve essere necessariamente
materiale: è anche possibile trasmettere tecniche, saperi, credenze, fiabe,
ecc... E’ a questo punto utile ricordare la definizione di cultura formulata da
Tylor (cfr. par. 1.1), dalla cui lettura è evidente la compresenza, nella
tradizione popolare tramandata di generazione in generazione, di elementi
materiali e immateriali.
1.2. Il patrimonio demoetnoantropologico
Il patrimonio dei beni demoetnoantropologici è estremamente vasto. Una
parte di esso comprende i cosiddetti beni materiali, ossia manufatti e
strumenti di lavoro propri delle realtà preindustriali, nonchØ oggetti di uso
quotidiano e festivo (Bravo e Tucci, 2006, p.33) e qualunque altro elemento
tangibile, concreto, appartenente al mondo agropastorale, compresi quelli
che è possibile considerare «oggetti di affezione» (Clemente, Rossi, 1999;
citato da Bravo e Tucci, 2006, p.34). «In tal senso, il legame di un oggetto
con una specifica produzione o una specifica funzione perde di importanza: è
il suo valore simbolico che ci interessa, nell’ambito di un particolare contesto
di vita» (Bravo e Tucci, 2006, p.34). Al patrimonio DEA materiale
appartengono anche quelli che vengono definiti «beni effimeri» (Bravo e
Tucci, 2006, p.35), ossia beni che non hanno una durata nel tempo
5
. Un’altra
dunque tra il culto del vero Dio e il culto dei falsi dei, l’idolatria; l’adesione alle credenze che
fanno parte di questo culto ricevette, nel XVI secolo, il nome di superstitio» (1999, pp. 20-21,
facendo riferimento ad Harmening, 1979, Superstitio, Berlino, Erich Shmidt). La critica a
queste pratiche fu portata avanti con vigore dalla Chiesa, che istituì un vero e proprio
tribunale, l’Inquisizione, il cui compito era quello di perseguire coloro i quali fossero dediti a
queste pratiche deviate, ispirate al culto del Diavolo. Tra questi, maghi e streghe.
5
«Addobbi floreali, strumenti musicali vegetali, ricoversi pastorali temporanei, costumi di
carnevale, preparazioni alimentari ecc…» (Simeoni, 1994; citato da Bravo e Tucci, 2006,
p.35)
10
parte di questo immenso patrimonio comprende invece i beni immateriali,
così definiti perchØ non tangibili, anzi addirittura detti «volatili» (Cirese, 1996,
p.251; citato da Bravo e Tucci, 2006, p.35) perchØ privi di stabile presenza
sul territorio. Qui rientrano le tradizioni orali, le feste, i riti, la musica, le danze
proprie di una società
6
(Bravo e Tucci, 2006, p.35). I beni immateriali, per
essere osservati devono essere necessariamente rieseguiti, e questo li rende
inevitabilmente «mutevoli» (Bravo e Tucci, 2006, p.35) perchØ ogni
esecuzione, per quanto simile, non potrà mai essere identica alla
precedente.
Il valore simbolico è però fondamentale anche in riferimento ad elementi
che rientrano a pieno titolo nel patrimonio dei beni immateriali. E’ il significato
del bene a renderlo differente da qualunque altro anche simile o
apparentemente identico, ed è il contesto dal quale è stato generato a
renderlo unico, e a conferirgli il valore di documento dalla grande rilevanza
demoetnoantropologica.
La ricerca sul campo è la tecnica piø efficace atta a cogliere questi aspetti
per nulla immediati e tutt’altro che semplici da identificare.
1.3. La ricerca sul campo
La ricerca antropologica non può assolutamente prescindere dal lavoro
sul campo. Per ciò che concerne il rilevamento sul terreno dei beni
demoetnoantropologici, l’antropologo è tenuto a conoscere una serie di
aspetti tecnici e d’indagine che gli permettano di affrontare il lavoro in
maniera adeguata. Queste conoscenze si riferiscono a competenze tra loro
molto diversificate, che vanno dai saperi legati alle tecniche di costruzione
degli strumenti del lavoro contadino alle tecniche agricole, e comprendono
anche conoscenze relative alle attrezzature utilizzate per documentare i beni
materiali e immateriali (dispositivi audio e video). Tutto questo non è però
sufficiente a comprendere gli aspetti essenziali dei beni che costituiscono il
6
Negli ultimi anni il concetto di patrimonio immateriale si è ampliato, arrivando a
comprendere una pluralità di beni anche molto differenziati tra loro come spettacoli,
comunicazioni non verbali, storie di vita, lessici orali, ecc… (Bravo e Tucci, 2006, p.37).
11
patrimonio demoetnoantropologico.
Lo studio dei beni demoetnoantropologici è relativamente recente, ed è
particolarmente difficile per gli studiosi, non disponendo di archivi e
biblioteche che offrano dati sufficientemente ampi e precisi, ricostruire le
origini del proprio oggetto di studio. Nel tentativo di riuscirci, questi si affidano
alla memoria degli attori sociali, testimoni della tradizione e parte integrante
della stessa. Solo grazie al loro contributo è possibile evidenziare gli aspetti
non solo materiali, ma soprattutto immateriali dei beni
demoetnoantropologici, che rimarrebbero altrimenti sconosciuti e che
rischierebbero, nel tempo, di scomparire del tutto. Per creare un corredo
documentale sia dei beni immateriali che di quelli materiali, gli antropologi si
servono di strumentazioni atte a registrare fedelmente i dati raccolti
attraverso la ricerca sul campo, al fine di raccogliere informazioni
sufficientemente esaurienti che diano un concreto contributo allo studio degli
aspetti legati alle realtà locali analizzate.
Soprattutto in riferimento ai beni materiali, il corredo documentale ottenuto
dalle ricerche sul campo è essenziale per far si che gli oggetti repertati e
catalogati, anche eventualmente spostati all’interno dei numerosi musei
locali, in collezioni dedicate, non perdano il loro significato. I beni effimeri (cfr.
par. 1.2.), inoltre, necessitano assolutamente di un corredo fotografico che
permetta la loro osservazione anche successivamente al loro
deterioramento. La documentazione può essere ottenuta soprattutto
attraverso il contatto con gli attori sociali, per mezzo di interviste e
questionari costituiti da domande mirate, che aiuteranno anche il successivo
lavoro di catalogazione dei beni DEA.
L’individuazione dei beni immateriali risulta decisamente piø complessa.
E’ nel territorio in cui i beni immateriali si realizzano che è possibile
comprendere il profondo legame tra questi e i contesti locali
7
.
7
Come spiegano Bravo e Tucci, il territorio è «una sorta di “vivaio” per questi beni» (2006,
p.38).
12
E’ chiaro che senza un’adeguata attività di ricerca i beni immateriali, pur
presenti in un dato territorio, proprio per la loro intangibilità rischiano di non
essere colti. Una volta individuati, è fondamentale che questi beni vengano
fissati su supporti audiovisivi attraverso registrazioni che conferiscano loro
una sorta di materialità, così che durino nel tempo e possano essere fonte di
analisi e studio. Come è già stato sottolineato, il bene immateriale può
essere osservato e registrato solo attraverso una riesecuzione (cfr. par. 1.2.),
e il risultato di ogni esecuzione varia di volta in volta
8
; in questo senso, la
registrazione di una sola esecuzione a livello analitico risulta limitante in
termini complessivi, ma è del resto l’unica soluzione per garantire la
durevolezza e la fruizione di questi beni, altrimenti destinati a svanire.
E’ per questo motivo che, come affermano Bravo e Tucci (2006, p.39), per
questi beni è importante che si promuova una ricerca scientifica dinamica,
che garantisca un’attività di rilevamento e verifica sul terreno, e che permetta
di cogliere la mutevolezza dei beni immateriali per mezzo della
moltiplicazione dei rilevamenti e dell’arricchimento delle documentazioni
audiovisive registrate sul campo.
1.4. La tradizione: un bene culturale
Le tradizioni contadine e preindustriali sono considerate dei veri e propri
beni culturali, e si collocano all’interno del vasto patrimonio che costituisce i
beni demoetnoantropologici
9
. Così recita l’art.2, Patrimonio culturale, del
recente Codice dei beni culturali e del paesaggio, risalente al 2004, a cura
del Ministero per i Beni e le Attività Culturali: «Sono beni culturali le cose
mobili e immobili che […] presentano interesse artistico, storico,
archeologico, etnoantropologico» (da Bravo, 2005a, p.18).
8
I beni immateriali, per questo motivo vengono anche definiti «patrimonio vivente» (Bravo,
2006, p.39).
9
Che riguardano anche il bacino extraeuropeo delle popolazioni un tempo definite
“primitive”, “selvagge” o “di natura” (Bravo e Tucci, 2006, p.10).
13
Per cose, non si intendono solo i beni materiali
10
, ma anche quelli
immateriali, il cui ambito continua ad ampliarsi. A proposito dei beni
immateriali, Bravo (2005a, p.18) cita un documento dell’UNESCO, ossia la
Convention pour la sauvegarde du patrimoine culturel immatØriel. All’art.2,
Dèfinitions, la Convention elenca alcuni tratti del patrimonio dei beni
immateriali, tra cui le pratiche, le rappresentazioni, le espressioni, le
conoscenze, il saper fare, la lingua, il teatro, le feste, le nozioni su natura e
universo... (Bravo, 2005a, p.18). Da questa elencazione è piø che evidente
che quello dei beni DEA sia un vero e proprio patrimonio «flessibile e in
progress» (Bravo e Tucci, 2006, p.26).
1.5. Le masche, tra narrazione e tradizione
All’interno del patrimonio immateriale dei beni demoetnoantropologici
rientrano anche le narrazioni, solitamente proprie della tradizione orale. Le
narrazioni sono state per molto tempo affidate alla memoria degli anziani
11
ai
quali, nella maggior parte dei casi, sono state raccontate quando erano
ancora bambini e che, secondo il meccanismo proprio della tradizione orale,
essi hanno raccontato a loro volta, talvolta enfatizzando l’uno o l’altro aspetto
della storia, forse quello che piø aveva colpito la loro sensibilità di bambini.
Figli e nipoti hanno poi fatto lo stesso, permettendo a queste narrazioni di
divenire centenarie, e garantendone il perdurare nel tempo fino ai giorni
nostri.
L’interesse nel mantenere vivi questi racconti spesso sta nei diretti
riferimenti al territorio in cui vengono narrati, che dona alle zone di una
località, altrimenti prive di un interesse particolare, un alone di mistero che
10
«Attrezzi da lavoro, suppellettili, costumi» (Bravo, 2005a, p.18)
11
Come sottolinea Centini, «va detto che rivolgendosi a quanti, nelle diverse aree, hanno
sentito le leggende sulle masche dalla viva voce dei "vecchi", si riscontra una notevole
difficoltà nell'isolare una figura tipologicamente delineata. La definizione è quasi sempre il
risultato di un'analisi strutturale condotta a posteriori dai ricercatore, che però non appare
precisamente definita nella vicenda orale narrata. La masca è una persona in grado di
esercitare il proprio potere negativo sugli altri, può trasformarsi, ma spesso alcune sue
caratteristiche peculiari finiscono per essere mutuate da altre figure dell'immaginario
popolare.» (1998, p.65).
14
suscita inevitabilmente curiosità.
E’ questo il caso della maggior parte dei racconti che riguardano le
masche, resi forse ancora piø interessanti dal fatto che le protagoniste erano
spesso compaesane di cui si conosceva molto bene l’identità.
«Anche se i racconti di masche presentano una serie di connessioni con
la tradizione della fiaba, studiata dalla semiologia e dall'antropologia, spesso
propongono dei riscontri con persone realmente esistite» (Centini, 1998,
p.65). La masca, come afferma Bravo (2005a, p.115), «si configura come un
visibile elemento di vita comunitaria, come persona che ha un viso e un
nome, che ha una sua casa e che si può incontrare, la strega paesana, ben
nota ma non meno temuta
12
».
1.5.1. Masca: l’origine del termine
Il termine masca è utilizzato nel dialetto piemontese per indicare le
streghe protagoniste di narrazioni e tradizioni. L’origine di questa parola è
sicuramente molto antica, e la sua radice etimologica risulta ancora incerta.
Come spiega Centini (1998, p.62), autore di una ricerca molto dettagliata
sull’origine del termine, nell’Alto Medioevo uno spirito negativo era spesso
associato alla maschera, per mezzo di un legame con il termine larva, che
designava sia la maschera che il fantasma malefico. Ǭ interessante notare
che nella cultura demonizzante della Chiesa alto medievale, con il termine
larva si identificavano anche gli attori mascherati nelle rappresentazioni
popolari in cui il travestimento si caricava di potenzialità diaboliche. Larvaria
era un'espressione adottata per identificare la mascherata e, in periodi piø
recenti (XV secolo) divenne sinonimo di charivari. Larvae demonum
esprimeva il giudizio morale della Chiesa, ma anche dell'apparenza
demoniaca almeno di certe maschere» (J. C. Schmitt, Les masques, le
diable, les morts dans l'Occident MØdiØvall, "Razo", Cahiers du centre
12
«E in effetti per la maggioranza degli informatori le masche sono persone, spesso bene
individuate o comunque riferibili al territorio comunitario» (2005a, p.115).
15
d'Øtudes mØdiØvales de Nice, n.7, 1986; citato da Centini, 1998, nota n° 1,
p.68).
Le larvae demonum, nella tradizione cristiana, erano creature che,
insinuandosi tra gli uomini, infondevano in essi il male e il peccato (Isidoro di
Siviglia, Etymologiae VIII; citato da Centini, 1998, p.62)
13
. La larva era
dunque un essere indubbiamente negativo, che poneva in opposizione il
fantasma nella sua accezione di essere malefico, alla maschera,
caratterizzata da istanze ludiche. Isidoro di Siviglia era del parere che «dagli
uomini che ebbero colpe, gli spiriti divengano fantasmi, la natura dei quali si
dice spaventi i piø piccoli negli angoli piø bui» (citato da Centini, 1998, p.62).
Masca, con valore di stria o striga, compare anche nell’Editto di Rotari
(643): «nullus praesumat haldian alienam aut ancillam quasi strigam, quam
dicunt mascam, occidere» (Centini, 1998, p.62). Toschi (1976, Le origini del
teatro italiano, p.169; citato da Centini, 1998, p.62.) afferma che in
longobardo, con il termine masca ci si riferisce a uno spirito ignobile, simile
alle strigae romane, che divoravano uomini vivi; pare però che inizialmente la
parola masca indicasse un morto avvolto in una rete per ostacolarne il ritorno
sulla terra. L’uso del termine masca è anche frequente nel latino medievale,
e compare anche nei secoli successivi, piø vicini al nostro. Centini (1998,
p.62) riporta inoltre la testimonianza di Gervasio di Tilbury, risalente ai secoli
XII-XIII: «i fisici dicono che le lamie, dette volgarmente masche o in lingua
gallica strie, sono delle visioni notturne che turbano le anime dei dormienti e
provocano oppressione» (Otia Imperialia, III, 88.). Il termine può inoltre
essere attribuito al tardo latino del VII secolo, con radici nel substrato
pregallico, alternante con basca, e forse di derivazione dal termine greco
baskainein
14
(Centini, 1998, p.62).
Dalla parola masca deriva finanche la parola talamasca, che ha un
13
«Secondo il parere di Sant'Agostino, che si rifaceva a Platone, le anime degli uomini sono
demoni, e verso gli uomini, se sono stati buoni, saranno numi protettori, spiriti tormentosi
ossia fantasmi (larvas) se cattivi» (Centini, 1998, p.62).
14
Centini aggiunge che il termine indica fatti collegabili alla magia: baskanos è colui che
strega, baskanin significa amuleto, baskania significa fascino, da cui il latino fascinum, che
significa maleficio (1998, p.62).
16
riferimento diretto alle mascherate organizzate in occasione degli anniversari
dei defunti, così come conferma Incmaro di Reims (882, Capitula presbyteris
data, XVI): «non permettete che si facciano turpi giochi con l’orso, nØ si
consenta che vengano portati avanti quelle larve di demoni, che volgarmente
si chiamano talamasche» (citato da Centini, 1998, p.63) Inoltre, il termine
talamasca si usa anche nell’Alto Medioevo in area germanica, per indicare
una persona mascherata; la parola si fa derivare dal verbo dalen, ossia
bisbigliare, parlare in modo buffo. Di conseguenza, una talamasca sarebbe
una maschera che parla in modo strano, come uno spirito o un ossesso
(Toschi, 1976, Le origini del teatro italiano, p. 170; citato da Centini, 1998,
p.63).
«Da masca deriva quindi con ogni probabilità il termine maschera,
originariamente un essere infernale, una strega, un’anima di morto, o simili»
(cfr. Zironi, 2000, Bravo, 2000, p.378; Crosa, Maioglio, 1988, p.153; Toschi,
1955, pp.169-170; da Bravo, 2005a, nota n° 2. p. 132 ).
1.5.2. Le masche: la rappresentazione del male
La maschera, come osserva Centini (1998, p.63), è caratterizzata da una
allegoria diabolica che cerca di eliminare il bene, ed è considerata dunque
minacciosa per gli esseri umani.
Per comprendere come si sia arrivati all’abbinamento maschera-
fantasma, dobbiamo ricordare che alle origini del Cristianesimo la
demonizzazione del travestimento si accentuò notevolmente, precisamente
nel momento in cui la maschera fu collegata direttamente al Diavolo, per via
della sua capacità di mutare in continuazione, al fine di insinuarsi tra gli
uomini e condurli verso il male, traviandone lo spirito (1998, p.63). A
riguardo, la posizione della Chiesa non è mai stata chiara: pur condannando
«i travestimenti diabolici, quelli del paganesimo, e piø tardi quelli del folklore,
ha pur saputo, talvolta anche in Occidente, valorizzare il santo travestimento,
motivato ai suoi occhi dall’umiltà e non dalla vanità, donde il tema agiografico
della Santa travestita» (J. C. Schmitt, Op.Cit. "Razo"; citato da Centini, 1998,