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esaltati e gonfiati all’inverosimile e di cosa accade fra gli stessi media
quando l’eroe del momento viene scaraventato giù dal trono per una
colpa o per un infamante sospetto.
Nella prima parte analizzo la storia di Marco Pantani, attraverso la
sua storia sportiva il più possibile spoglia di enfasi, sottolineando le
varie componenti che lo hanno reso un campione amato da tutti.
Nella seconda parte mi soffermo sul giornalismo sportivo, attraverso
una disamina che mette in rilievo le caratteristiche, le tecniche e le
degenerazioni di questo linguaggio settoriale che invade sempre di
più la nostra moderna società.
Si passa quindi all’analisi vera e propria di articoli e libri dedicati negli
anni a Marco Pantani, soffermandosi sui punti salienti della sua
parabola. Infine analizzo l’esperienza televisiva del ciclismo, in
particolare dell’anno 1998, mettendo a confronto Giro d’Italia e Tour
de France, due mondi diversi ma con molte cose in comune, fra cui,
in quella stagione, la vittoria di Marco Pantani
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La cronistoria
La parabola degli eventi sportivi e giornalistici che andiamo ad
analizzare abbraccia gli anni dal 1994 al 2001, anni in cui Marco
Pantani si è affermato come giovane promessa, è andato vicino a
grandi risultati, poi è stato vittima di alcuni infortuni, il più grave dei
quali lo ha tenuto per circa un anno e mezzo lontano dalle gare. Al
suo ritorno Pantani ha vinto e si è preso in una volta sola il bottino
più ambito, l’accoppiata Giro d’Italia e Tour de France 1998. L’anno
successivo, mentre si apprestava a vincere senza difficoltà il suo
secondo Giro d’Italia, Pantani veniva fermato alla vigilia della
penultima tappa a causa di valori ematici sballati, pericolosi per la
sua salute e probabili indicatori di pratiche di doping (mai
dimostrato). Segue per Pantani un periodo di rifiuto del ciclismo: non
va al Tour de France ’99, annuncia il ritiro. Poi d’un tratto decide di
ripresentarsi al Giro d’Italia 2000 e diventa lo scudiero utile e
prezioso del suo compagno di squadra Stefano Garzelli che conquista
la maglia rosa. Sulle ali dell’entusiasmo torna a gareggiare anche al
Tour, dove vince due tappe di montagna dimostrando di essere
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sempre un campione, anche se incupito, scontroso, arrabbiato con il
mondo intero. Il 2001 è l’anno peggiore della carriera di Pantani:
impalpabile al Giro, si ritira all’indomani della perquisizione dei Nas
nelle camere d’albergo dei ciclisti in sosta a Sanremo. Gli
organizzatori del Tour de France addirittura non lo invitano.
Questa cronistoria abbraccia soprattutto i primi anni, mentre il
triennio 1998-2000 è analizzato più approfonditamente nel quarto
capitolo.
1994: Marco Pantani da Cesenatico, una folgorazione
Marco Pantani sale alla ribalta del ciclismo e dei mass media nel
1994. Ha 24 anni, da due è professionista (esattamente dal Trofeo
Matteotti del 2 agosto 1992) e si presenta alla partenza del Giro
d’Italia come un perfetto sconosciuto. Sconosciuto all’opinione
pubblica ma non a chi vive nell’ambiente del ciclismo e aveva potuto
seguire le imprese da dilettante del giovane Marco. Quel Giro d’Italia
parte dalla sua Romagna, da Bologna, ma pochi sanno chi è quel
ragazzo mingherlino e con pochi capelli che corre nella Carrera
Tassoni. Pantani è un giovane “gregario”, parola che nel gergo del
ciclismo sta ad indicare tutti i componenti di una squadra che non
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sono “capitani”, e che devono correre più per il capitano che per
loro, aiutandolo nei momenti di difficoltà e costruendo la base per le
sue vittorie. Quella squadra, la Carrera Tassoni, è capitanata dal
mitico “diablo” Claudio Chiappucci, l’unico corridore italiano degli
ultimi anni, insieme al grande velocista Mario Cipollini, ad esser
riuscito a vestire la tanto agognata maglia gialla di capoclassifica del
Tour de France. Alla fine di quel Giro d’Italia Marco Pantani salirà sul
podio, osannato dal pubblico che lo ringrazia per come è riuscito a
raccontare storie di forza e di ardimento sulle più impegnative salite
del Giro, con un impeto ed un talento che non si vedevano da tempo
nei corridori italiani. Un po’ tutti si chiedono, nell’estate 1994, chi è
quel gracile e giovane fenomeno delle due ruote, nato e cresciuto
nella piatta pianura padana e che trova spunti travolgenti quando le
strade s’impennano. Il 1994 è solo il primo di una serie di capitoli
che fanno di Pantani una vera telenovela.
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Ragazzo di pianura
Nato a Cesena il 13 gennaio del 1970, Pantani conduce a Cesenatico
una vita di provincia affrontata con la grinta di chi vuole emergere.
Cresce a piadina e pizza nello “Stand della Pizza” condotto dai
genitori Paolo e Tonina. Da quando ha 12 anni va in giro per le
strade della Romagna con la bicicletta regalatagli dal nonno Sotero e
ogni volta che può cerca una salita: San Marino, Verrucchio, Villa
Grande, Pennabilli. Il suo primo successo arriva da esordiente
quando, nel circuito tutto piatto di Case Missiroli, vicino a Cesena, va
in fuga da solo e vince.
Nel 1986 vive il primo degli sfortunati incidenti che ne
caratterizzeranno la carriera. Si distrae e finisce contro un camion
fermo durante una gara e rimane in coma un giorno. Poco dopo, in
allenamento va a sbattere in discesa contro una macchina e rimane
in ospedale una settimana con varie fratture.
Il ragazzino cresce, inizia a correre nei dilettanti e compie autentiche
imprese che naturalmente rimangono circoscritte all’ambiente del
ciclismo giovanile, non appassionando né l’opinione pubblica né i
giornali. Nel 1992 vince il Giro d’Italia dilettanti con una grande
performance, recuperando in due tappe dolomitiche 5 minuti a
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Casagrande e Belli (tutti futuri campioni fra i professionisti) che lo
precedono. Nel 1993 fa il suo esordio al Giro d’Italia nei
professionisti e si ritira senza essersi fatto notare ma senza neanche
aver sfigurato, a poche tappe dalla fine, diciottesimo in classifica, per
problemi ad un tendine e alle vertebre.
Nel 1994 avviene l’esplosione, dietro al fenomeno (di poche stagioni)
Evgeni Berzin, giovane russo suo coetaneo. Marco Pantani parte
seguito dalla curiosità di pochi, conquista la passione della gente e
alla fine sale sul secondo posto del podio di Milano, avendo
inanellato le sue prime due vittorie da professionista (due tappe di
montagna con arrivi a Merano ed Aprica). Il giovane Marco saprà
ripetersi poche settimane dopo al Tour de France, impegnando
seriamente il dominatore Miguel Indurain, infiammando la corsa in
montagna, finendo, anche senza vittorie di tappa, al terzo posto
della classifica finale. È l’estate del 1994 e Pantani affronta il Giro e il
Tour da novizio ma con grandi ambizioni, lasciando trasparire da
subito il suo talento di scalatore. È l’anno dei mondiali di calcio negli
Stati Uniti, della sconfitta ai rigori della nazionale di Arrigo Sacchi
contro il Brasile, in una delle più brutte finali mai giocate. Pantani
diventa, nell’immaginario collettivo, la riscossa dello sport italiano,
che da sempre si concentra sul calcio e che dal calcio continuava ad
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avere delusioni. Pantani si dimostra capace di imprese da anni
Cinquanta, scatti solitari in salita a recuperare tutti i fuggitivi e a
vincere, stretto fra due ali di folla osannante. Da troppo tempo il
ciclismo non viveva pagine come quelle scritte da Pantani sulle salite
di quel Giro e di quel Tour, da troppo tempo gli spartiacque delle
corse a tappe erano diventate le cronometro in cui, ciclisti più simili
a macchine o a extraterrestri, con bici affusolate e pedalate calcolate
col computer, infliggevano distacchi che poi non venivano più
recuperati. Indurain, Berzin, Rominger sono solo alcuni fra i ciclisti
che hanno saputo vincere le grandi corse a tappe sfruttando le
cronometro, non incontrando poi nessun avversario in grado di
recuperare sulle salite, da sempre le tappe più spettacolari del
ciclismo e più amate dal pubblico.
Quelle prime imprese di Pantani portano con sé una doppia
simbologia. Danno inizio, ma questo non si poteva ancora sapere, ad
una serie di corse in cui i corridori italiani diventano finalmente
competitivi, trainati proprio da Pantani che ne diventa il simbolo,
dopo un decennio dominato da corridori stranieri (su 10 edizioni di
Giro e Tour, solo tre Giri d’Italia vengono vinti da atleti italiani,
Visentini, Bugno e Chioccioli), lo spagnolo Miguel Indurain su tutti.
In secondo luogo la ribalta conquistata da Pantani porta l’attenzione
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di tutti sulla nuova generazione di ciclisti, quelli nati negli anni
Settanta, che scalzano i campioni precedenti come Indurain, Bugno,
Chiappucci, Rominger, Argentin.
1994: lo stato del ciclismo
Il 4 giugno 1994 quindi il Giro d’Italia, dominato dal giovane russo
Evgeni Berzin, subisce la sferzata di un protagonista inatteso, Marco
Pantani. Il ciclismo italiano da tempo non riesce ad esprimere un
grande campione che sappia vincere ed entusiasmare il pubblico.
L’ultimo vincitore italiano del Giro d’Italia era stato Franco Chioccioli
nel 1991, un ottimo scalatore che solo in tarda età era riuscito ad
ottenere il grande risultato che da tempo inseguiva. L’anno prima,
nel 1990, Gianni Bugno aveva stravinto il Giro, vestendo la maglia
rosa dalla prima all’ultima tappa. Un grande successo che però, a
causa della tecnica e strategia di Bugno, eccezionale passista, non
entusiasmò le folle. Bugno fu in quell’anno troppo bravo, troppo
superiore, tanto da non rischiare mai di perdere il Giro, da non
partire mai in volate epiche. Ma il Giro, nell’immaginario collettivo,
fra gli appassionati, è la corsa dell’“uomo solo al comando”, per
citare l’espressione più ricorrente che descrive il corridore in fuga da
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solo, da Fausto Coppi in avanti. E un Giro, anche se dominato, senza
fughe solitarie non rende eroico il suo protagonista. Per di più quel
Giro restò l’unico successo nelle grandi corse a tappe di Bugno in
una carriera per nulla avara di soddisfazioni, che lo vide vincere due
campionati del mondo consecutivi, nel 1991 e nel 1992. Apriamo una
breve parentesi sulla gerarchia delle corse. Il campionato del mondo
è il titolo per eccellenza del ciclismo, come in tutti gli sport, ma
evidentemente, per come è strutturato (una corsa in linea di un
giorno) è di gran lunga meno epico e spettacolare non solo di Giro
d’Italia e Tour de France, epopee sui pedali che durano circa un
mese, ma anche delle grandi classiche di un giorno che mantengono
sempre invariato il loro percorso e legano la loro storia a questo o
quel corridore: Milano-Sanremo, Parigi-Rubaix, Giro delle Fiandre,
Liegi-Bastogne-Liegi. Il campionato del mondo su strada, per quanto
duro ed impegnativo possa essere, ogni anno cambia percorso,
nazione, peculiarità e finisce per non entrare mai nel cuore degli
appassionati perché slegato da una solida tradizione. Ciò non toglie
che Bugno fu corridore di gran classe, unico nella storia, insieme ai
belgi Georges Ronsse (anni Venti), Rik Van Steenbergen (anni
Cinquanta) e Rik Van Looy (anni Sessanta), a vincere due mondiali
consecutivi, nel 1991 e nel 1992, vincitore per due volte consecutive
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(1990 e 1991) anche nella mitica tappa del Tour con arrivo all’Alpe
d’Huez. Non seppe però entrare nel cuore di giornalisti e tifosi per
l’apparente indolenza e per la mancanza di determinazione nei
momenti decisivi, per il suo carattere schivo e oltremodo modesto,
caratteristiche che gli impedirono di raccogliere i successi che
avrebbe meritato.
Il fascino del Tour
A parte la parentesi di Bugno e Chioccioli (prima di loro altri tre
corridori stranieri, Roche, Hampsten e Fignon, avevano vinto le
edizioni 1987, 1988 e 1989), il Giro d’Italia era saldamente nelle
mani degli atleti d’oltreconfine. Per non parlare del Tour de France
dove il successo italiano mancava dal 1965, quando un giovane
Felice Gimondi sorprese tutti e andò a rinverdire i fasti italiani
all’estero prima che piombasse sul ciclismo mondiale un fenomeno di
nome Eddy Merckx che dominò un decennio di Giri d’Italia, Tour de
France e grandi classiche, guadagnandosi l’appellativo di
“cannibale”, per la sua fame insaziabile di successi.
Negli ultimi anni il grande dominatore del ciclismo internazionale era
invece lo spagnolo Miguel Indurain, un atleta dal fisico imponente e
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massiccio, abilissimo nelle tappe a cronometro, implacabile anche in
salita, dotato di capacità cardiovascolari eccezionali che gli
permettevano di sbaragliare la concorrenza senza apparentemente
faticare. In quel 1994 Miguel Indurain non riesce a mettere il terzo
sigillo personale sul Giro d’Italia, si accontenta del terzo posto finale,
ma il suo obiettivo principale era un altro, entrare nella storia del
ciclismo vincendo cinque volte consecutivamente il Tour de France,
impresa mai riuscita a nessun’altro (vantano cinque vittorie, non
consecutive, solo Anquetil, Merckx e Hinault). Nel 1994 ottenne il
quarto successo e nel 1995 lo storico quinto. Per gli altri solo le
briciole, sino al suo ritiro, piuttosto precoce, agli inizi del 1997.
È sufficiente confrontare l’albo doro delle due competizioni per
capire la loro differenza. Se analizziamo i quindici anni compresi fra il
1981 e il 1995 mentre in Italia hanno vinto 13 corridori diversi, con
due sole doppiette firmate Bernard Hinault (che in totale di Giri ne
vinse 3) e Miguel Indurain, in Francia i vincitori sono stati solamente
6: Hinault (3 vittorie), Fignon (2 vittorie), Lemond (3 vittorie),
Indurain (5 vittorie), Roche e Delgado.
Il prestigio e la tradizione del Tour de France hanno sempre creato
molta attrazione e fascino su atleti, squadre e sponsor. Il Giro
d’Italia ha sempre sofferto, invece, di complessi d’inferiorità perché
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la corsa dell’anno è sempre stata la Grande Boucle, il grande ricciolo
che attraversa le erte e le pianure d’oltralpe. I campioni finivano per
concentrarsi sul Tour e utilizzavano al massimo il Giro come
riscaldamento, come preparazione alla corsa vera, quella francese, o
addirittura snobbavano la corsa rosa. Questo ha fatto in modo che,
da Merckx in poi (lui è stato l’ultimo a voler vincere tutto), i grandi
campioni si siano concentrati sul Tour, dando vita a epici duelli che
hanno infiammato gli anni Ottanta come quelli fra Fignon e Hinault,
Lemond e Fignon (che rimane nella storia soprattutto per il Tour del
1989, risoltosi all’ultima tappa, una cronometro, con il clamoroso
sorpasso dell’americano ai danni del francese in classifica generale,
per soli 8 secondi, il distacco in assoluto più basso fra primo e
secondo classificato in una grande corsa a tappe), Indurain e tutti gli
altri.
Il sapore epico del Tour, il suo essere “corsa regina” della stagione
ha creato, nei tifosi italiani, un crescente senso di inferiorità per non
aver saputo esprimere, in più di trent’anni, un corridore in grado di
vestire la maglia gialla nella passerella finale di Parigi, sotto l’Arco di
Trionfo. Questo accumularsi di aspettative puntualmente deluse
renderanno l’impresa di Pantani, dominatore del Tour 1998,
qualcosa di straordinario che contagerà anche i più tiepidi sportivi.
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D’altronde, il significato del Tour lo si può prendere dalle parole di
Roland Barthes, insigne semiologo francese, indagatore dei simboli
che hanno caratterizzato il Novecento, che anche per il Tour ha
saputo spiegarne l’essenza, l’epica, non oscurata da una falsità di
fondo: “Credo che il Tour sia il miglior esempio che abbiamo mai
incontrato di mito totale, perciò ambiguo; il Tour è
contemporaneamente un mito di espressione e un mito di
proiezione, realistico e utopistico in una sola volta, (...) una favola
unica in cui le imposture tradizionali (psicologia delle essenze,
morale della lotta, magismo degli elementi e delle forze, gerarchia
dei superuomini e dei gregari) si mischiano a forme di interesse
positivo, all’immagine utopistica di un mondo che cerca di
riconciliarsi mediante lo spettacolo di una chiarezza totale dei
rapporti tra l’uomo, gli uomini, e la Natura. Nel Tour è viziata la
base, i moventi economici, il profitto ultimo della prova, generatore
di alibi ideologici. Ciò non toglie che il Tour sia un fatto nazionale
affascinante, nella misura in cui l’epopea esprime quel momento
fragile della Storia in cui l’uomo, anche maldestro, gabbato,
attraverso favole impure intuisce ugualmente a suo modo un
perfetto adeguamento tra sé, la comunità e l’universo”
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Roland BARTHES, Miti d’oggi, Einaudi, Torino, 1974, pag. 114