14
2.3 Sale operatorie ed ambiente
“Healthcare itself pollutes” (McGain, 2020, p.687). La sanità stessa inquina.
E, tra tutti i servizi sanitari, le sale operatorie sono tra quelli più impattanti a livello
ambientale. È stato calcolato che il Sistema Sanitario statunitense produce
annualmente quasi due milioni di tonnellate di rifiuti, delle quali un terzo circa
proviene dalle sale operatorie
14
. Uno studio canadese del 2013 ha dimostrato che,
sebbene i blocchi operatori occupino una superficie decisamente limitata delle varie
strutture sanitarie, si stima che possano produrre tra il 20 ed il 33% di tutti i rifiuti
ospedalieri, e che una singola operazione chirurgica di routine sia in grado di generare
più rifiuti di quanti ne produrrebbe una famiglia di quattro componenti in un’intera
settimana
15
.
Se l’impatto ambientale delle sale operatorie fosse però limitato alla
produzione di rifiuti, probabilmente le soluzioni per contenere il danno ambientale
sarebbero più facilmente percorribili, e basterebbero solo alcuni interventi per renderle
a tutti gli effetti “ambientalmente sostenibili”. Quello dei rifiuti è però solamente uno
di tanti modi in cui i servizi operatori impattano sull’ambiente; forse quello
macroscopicamente più evidente, ma non necessariamente il più grave, in termini
ambientali. Difatti, non è solo il volume di rifiuti prodotti ad avere un impatto negativo
sull’ambiente. Un ospedale impatta sull’ambiente in molteplici modalità: la pratica
clinica, le procedure sterili, gli interventi chirurgici e l’igiene dei pazienti generano
rifiuti, e consumano acqua ed energia; i laboratori analisi producono una serie di scorie
chimiche o radiologiche; i servizi amministrativi impattano col consumo di carta e
l’uso di energia, e contribuiscono indirettamente all’immissione in atmosfera di gas
serra. E così, via dicendo. Complessivamente, il servizio ospedaliero è caratterizzato
da un’ampia gamma di forniture, spesso monouso, che non sempre vengono immesse
in un percorso di riciclo/riuso, oppure dall’uso di farmaci e sostanze tossiche i cui
scarti possono finire ad inquinare le acque reflue o l’atmosfera (Muñoz, 2012).
14
Wormer BA et al., The green operating room: simple changes to reduce cost and our carbon
footprint. Am Surg., 2013, Jul;79(7):666-71.
15
Stall NM, et al., Surgical waste audit of 5 total knee arthroplasties. 2013, Canadian Journal of Surgery
56: 97–102.
15
C’è un crescente interesse in letteratura su come rendere “green” le sale
operatorie, e su quanto questo processo possa contribuire a ridurre la carbon footprint
sanitaria mantenendo adeguati gli standard di sterilità e sicurezza. La carbon footprint,
in italiano tradotto con “impronta ecologica” o “impronta carbonica”, è una misura che
esprime in CO2-equivalenti (CO2e) il totale delle emissioni di gas ad effetto serra
(GHG: GreenHouse Gases) associate direttamente o indirettamente ad un prodotto,
un’organizzazione o un servizio (cfr. https://www.mite.gov.it/pagina/cose-la-carbon-
footprint). I gas a effetto serra, generati prevalentemente dalla combustione di
combustibili fossili nei processi di produzione di energia, surriscaldano la terra e
intrappolano energia e calore all’interno dell’atmosfera: questo processo aumenta la
temperatura della Terra, alterando il clima del pianeta e causando ciò che è
comunemente conosciuto come “surriscaldamento globale”. Che si tratti di
inondazioni, siccità, scioglimento dei ghiacciai, ondate di calore più frequenti e gravi
o di oceani più caldi e più acidi, questi cambiamenti di ampia portata hanno
trasformato e continueranno a trasformare la vita e anche la geografia del pianeta (cfr.
https://www.epa.gov/ghgemissions).
Le emissioni nell’atmosfera di CO2-equivalente (CO2e) comprendono gli
effetti dei gas a effetto serra, tra i quali CH4 (metano) e N2O (protossido di azoto), che
hanno emissioni che sono apparentemente equivalenti alle emissioni variabili di CO2e
(Malik, 2018). Le emissioni di carbonio sono classificate come:
- Dirette, cioè derivanti direttamente dall’energia utilizzata all’interno di un
settore;
- Indirette, ad esempio produzione e consumo di plastica, farmaci, utilizzo di
mezzi di trasporto…
16
16
Sempre Malik et al. (2018)
16
Per quanto riguarda le emissioni di
carbonio dei sistemi sanitari, un recentissimo
studio pubblicato nel 2021 e condotto nel
Regno Unito ha dimostrato che le componenti
che contribuiscono a determinare la carbon
footprint del sistema sanitario inglese (NHS)
sono suddivise come mostrato in Figura 2
17
.
La maggior parte dell’impatto ambientale del
sistema sanitario deriva dalla catena
dell’approvvigionamento (62%), seguito
dall’erogazione diretta della cura (24%) e dai
trasporti (10%). Questa analisi evidenzia che le più tradizionali iniziative “green”
(come migliorare l’efficienza energetica degli edifici, decarbonizzare i trasporti, o
differenziare tutta la plastica riciclabile), per quanto importanti e necessarie, riflettano
solo una piccola porzione del problema (Charlesworth e Jamieson, 2018).
Andando ad analizzare più nel dettaglio il grafico pubblicato sul The Lancet
(Figura 2), si può notare che i settori collegati più o meno direttamente alle attività
correlate al processo perioperatorio siano tra i più impattanti in assoluto: farmaci,
presidi sanitari, energia, acqua, rifiuti, anestetici... L’importanza dell’impatto
ambientale delle sale operatorie costituisce il riflesso della centralità che hanno queste
strutture all’interno dei srevizi sanitari. A questo proposito, nei prossimi paragrafi si
andranno ad analizzare, una per una, le varie modalità con cui il servizio “sala
operatoria” genera una propria, importante, carbon footprint, contribuendo in maniera
sproporzionata all’impatto ambientale dei Sistemi Sanitari. Comprendere l’impronta
ecologica di un servizio sanitario è essenziale per poi mettere in atto cambiamenti volti
a migliorare l’impatto ambientale generale e, vedremo, l’aspetto economico aziendale
(Wormer, 2013).
17
Tennison I., et al.,. Health care’s response to climate change: a carbon footprint assessment of the
NHS in England. Lancet Planet Health. 2021 Feb;5(2):e84-e92
Figura 2: Contributo dei diversi settori alle emissioni di gas serra nel
NHS inglese nel 2019. Da: Health care’s response to climate change: a
carbon footprint assessment of the NHS in England
17
2.3.1. Consumo di energia
La produzione ed il consumo di energia sono i principali fattori che
determinano l’immissione in atmosfera di gas serra
18
. Circa il 25% del costo operativo
di un ospedale è destinato a soddisfare il suo fabbisogno energetico, con una
distribuzione variabile tra i reparti. (Wyssusek, 2019) Le sale operatorie consumano
una gran parte di questa energia, in quanto considerate unità operative ad alto consumo
energetico: è stato rilevato che l’energia elettrica delle sale operatorie rappresenta
quasi il 50% della totale carbon footprint di una struttura ospedaliera (Wormer, 2013).
Questo è dovuto ad una serie di motivazioni, tutte correlate alla sicurezza del paziente,
e -più nello specifico- al controllo delle infezioni ed al mantenimento della sterilità:
- Presenza di un gran numero di attrezzature elettromedicali, alcune ad alto
consumo;
- Illuminazione esclusivamente artificiale degli ambienti;
- Illuminazione speciale del campo operatorio;
- Sistemi di ventilazione, condizionamento e ricambio continuo dell’aria;
- Attività operatoria potenzialmente ininterrotta (24 ore al giorno, 7 giorni su 7)
(Kwakye, 2011, Kagoma, 2012 e McGain, 2020).
2.3.2. Risorse idriche
Negli ospedali vengono utilizzate grandi quantità d’acqua per bisogni
quotidiani e per le cure igieniche ed alberghiere (rubinetti, bagni, docce), per gli
impianti di climatizzazione o in aree ultra-specializzate (ad es. dialisi, centrale di
sterilizzazione). In sala operatoria, viene utilizzato un gran quantitativo di acqua
principalmente a causa del lavaggio chirurgico delle mani (McGain, 2020). Uno studio
inglese del 2008 si è posto l’obiettivo di quantificare il volume di acqua usato in sala
operatoria per il lavaggio chirurgico delle mani. Sono stati misurati mediamente 18,5
lt di acqua consumati da ogni singolo operatore per singolo lavaggio; questo volume,
moltiplicato per il numero di operatori e di interventi chirurgici, nel corso di un’analisi
18
“Nel complesso, i combustibili fossili forniscono i due terzi dell’energia elettrica mondiale, mentre
quella generata da impianti solari ed eolici ammonta al sette per cento” (Gates, 2021, cap. 4)
18
durata un anno, ha concorso al consumo di 931.938 litri (oltre 900 m
3
) di acqua per il
solo lavaggio chirurgico delle mani nella struttura ospedaliera che era il setting dello
studio (Jehle 2008). Tali numeri sono, per affinità, sovrapponibili a tutte le strutture
che rispettano le linee guida internazionali circa il lavaggio chirurgico delle mani.
Oltre a quella consumata per il lavaggio chirurgico delle mani, ai servizi si può
imputare anche il consumo di acqua e di energia necessari per il funzionamento delle
autoclavi a vapore. Uno studio del 2017 si è posto l’obiettivo di quantificare la quantità
di acqua e di energia impiegati per il funzionamento della centrale di sterilizzazione di
un ospedale australiano. I risultati, interessantissimi, mostrano che in un anno (304
giorni operativi) il funzionamento delle autoclavi a vapore, che comprendeva i cicli
standard ed i test di accensione, ha contribuito al consumo di 32.625 kWh (circa quello
consumato in un anno da 10 famiglie di 4 persone), di cui il 40% per il mantenimento
stand-by, e di 1.243.950 litri di acqua, che corrisponde grossolanamente al volume di
una piscina da 10 corsie, lunga 25 metri. (McGain, 2017).
2.3.3. L’impatto del settore anestesiologico
La pratica anestesiologica, fra tutte le discipline correlate al perioperatorio, è
quella che ha un maggiore impatto sull’ambiente. Approssimativamente, gli anestesisti
producono il 25% dei rifiuti della sala operatoria; di questi, il 40-60%, dopo opportuna
riprocessazione, può essere considerato riciclabile: vetro, plastica, lame monouso del
laringoscopi, fiale, ecc.. (Wyssusek, 2018, Enzor, 2013 e Shelton, 2013).
L’impatto ecologico maggiore, però, è dovuto dal rilascio in atmosfera di gas
serra (GHG). Gli anestetici inalatori comunemente utilizzati (protossido di azoto e gas
alogenati: sevoflurano, desflurano, isoflurano…) sono potenti gas che contribuiscono
considerevolmente ad aumentare l’effetto-serra. I gas anestetici vengono metabolizzati
dall’organismo solo per il 5-20%, mentre il resto viene rilasciato in atmosfera dove,
potenzialmente, concorrono al riscaldamento globale fino duemila volte più della CO2
(Wyssusek, 2018 e Kagoma, 2012). Secondo altre stime, una normale seduta
operatoria effettuata con protossido di azoto o desflurano può contribuire ad immettere
in atmosfera gas serra equivalenti ad un viaggio in auto di 1.000 km (McGain, 2012a).
Sempre McGain (2012a) ha stimato che, in un anno, l’intera produzione internazionale
19
di gas anestetici ha lo stesso potenziale in termini di riscaldamento globale che hanno
un milione di utilitarie statunitensi. Nello stesso studio afferma che ogni giorno, negli
Stati Uniti, vengono interrate in discarica circa 250 tonnellate di rifiuti di origine
anestesiologica.
Analogamente, i farmaci anestetici ad uso parenterale non utilizzati, e quindi
scartati, rappresentano un importante problema, in quanto contribusicono alla
contaminazione ambientale con potenziali effetti nocivi e pericolosi sull’ambiente
(Mankes, 2012). Sempre Mankes (2012) approfondisce questo tema, analizzando nel
dettaglio il caso del propofol, un anestetico ipnotico largamente utilizzato in anestesia.
Il propofol costituisce una seria minaccia per l’ambiente perché non si degrada, si
accumula nel grasso, è tossico per gli organismi acquatici, e richiede l’incenerimento
per poter essere completamente distrutto.
Infine, la quantità cumulativa di materiali di scarto (specialmente in anestesia)
ha un impatto ecologico estremamente rilevante. Questo è dovuto principalmente alla
produzione di migliaia di materiali monouso, tra cui siringhe, fiale di vetro e aghi, dei
quali ognuno richiede uno smaltimento costoso e ad alta intensità energetica, quale -
ad esempio- l’incenerimento, che a sua volta contribuisce in maniera importante
all’immissione in atmosfera di gas serra (Atcheson, 2016).
2.3.4. Approvvigionamento e gestione dei rifiuti
Negli ultimi 50 anni, l’industria sanitaria ha subito cambiamenti radicali nei
tipi di prodotti che utilizza e nelle pratiche di smaltimento dei rifiuti. Negli anni ‘80 le
preoccupazioni circa la diffusione di malattie trasmissibili per via ematica portarono
ad un passaggio nemmeno troppo graduale dai dispositivi pluriuso a quelli monouso,
con conseguente drastico aumento della produzione di rifiuti (Kagoma, 2012). I rifiuti
ospedalieri diventano quindi un sottoprodotto necessario di un qualsiasi setting
sanitario. Nei soli Stati Uniti vengono prodotti annualmente più di 4 milioni di
tonnellate di rifiuti ospedalieri, il cui smaltimento rappresenta circa il 20% del bilancio
dei servizi ambientali dell’ospedale (Conrardy, 2010).
I rifiuti medici possono essere suddivisi in cinque categorie principali, che
richiedono diverse procedure di trattamento e smaltimento regolamentate da specifica
20
normativa (in Italia, si tratta del DPR 254/2003, in applicazione dell’art 24 della L.
179/2002):
- Rifiuti a rischio infettivo
- Taglienti
- Farmaceutici
- Radioattivi
- Rifiuti generali, assimilabili all’urbano (Kwakye, 2011).
Il totale dei rifiuti “speciali a carattere sanitario”, o “rifiuti sanitari
regolamentati” dovrebbe essere pari o inferiore al 15% dei rifiuti complessivi; tuttavia,
è stato dimostrato che in molte strutture questa percentuale sale fino al 70% (Conrardy,
2010). Attualmente, gli ospedali -spesso appaltando il servizio a ditte specializzate-
possono smaltire i rifiuti utilizzando autoclavi, o sistemi di sterilizzazione a microonde
e disinfezione chimica. Inoltre, molti ospedali utilizzano l’incenerimento e lo scarico
di rifiuti nelle discariche (Kwakye, 2011).
Il 20-30% di tutti i rifiuti ospedalieri deriva dalle sale operatorie; circa il 40%
di questi rifiuti è dimostrato essere potenzialmente riciclabile. In questo modo, le sale
operatorie contribuiscono in modo significativo all’aumento dei volumi e dei costi dei
rifiuti ospedalieri (McGain, 2012b). Ogni sala operatoria ha il potenziale di produrre
fino a 2.300 kg di rifiuti all’anno. Vi è un consenso nella letteratura che fino all’80%
di tutti i rifiuti prodotti per ogni intervento viene generato durante la preparazione
dell’intervento stesso, prima che il paziente entri in sala operatoria. La maggior parte
dei rifiuti di sala operatoria proviene da forniture chirurgiche monouso, attrezzature
protettive personali, teli e involucri di dispositivi. Dal momento che tutto deve essere
sterile, quasi tutti i presidi e le attrezzature sono sigillati in involucri di polipropilene
monouso, contenitori di imballaggio in plastica rigida o altro materiale di imballaggio.
Non è insolito che solo tale materiale da imballaggio, per una singola operazione
cardiochirurgica, protesica, o di chirurgia maggiore, arrivi a riempire tre o più
contenitori della spazzatura. La plastica rappresenta una delle porzioni più ampie di
rifiuti riciclabili. Alcuni studi riferiscono che il 20-25% del totale dei rifiuti ospedalieri
in peso è costituito da materie plastiche, percentuale sovrapponibile a quella prodotta
in sala operatoria. Un errore comune consiste nel classificare tutti i rifiuti di plastica
21
come equivalenti; tuttavia, plastiche diverse hanno usi e composizioni diverse,
degradano in modo diverso, e hanno flussi di differenziazioni diversi. Le plastiche più
comuni che fanno parte dei rifiuti della sala operatoria comprendono:
- Polipropilene (ad es., incarti plastici simil-carta);
- Polietilene (ad es., flaconi di liquidi infusionali);
- Copolimeri (ad es., siringhe e cannule di aspirazione);
- Poliuretano ad es., (vassoi, incarti rigidi);
- Polivinilcloruro (ad es., maschere dell’ossigeno, circuiti respiratori,
deflussori).
Il polipropilene, il polietilene e il PVC sono materiali riciclabili; in generale,
fino all’84% delle materie plastiche gettate in sala operatoria è potenzialmente
riciclabile. Dato che le plastiche sono in uso in ambito medico solo da poco più di 50
anni, sono necessarie ulteriori informazioni sul ciclo di vita e sui tassi di
biodegradabilità di ciascuna per comprendere appieno il loro impatto ambientale.
(Wyssusek, 2012).
A seconda della specialità chirurgica, o del tipo di intervento, è possibile che il
volume dei rifiuti generati aumenti ulteriormente. Uno studio di estremo interesse
pubblicato nel 2011 ed ambientato in Canada è andato ad esaminare i vari rifiuti
prodotti durante un intervento di protesi totale di ginocchio (PTG). La media dei rifiuti
per ogni PTG è stata di 13,3 kg, dei quali il 64,5% era costituito da rifiuti solidi
assimilabili all’urbano, il 19,2% da rifiuti sanitari a rischio infettivo, il 12,1% da
involucri blu da sterilizzazione (cfr. par. 2.4.1), il 2,2% da rifiuti riciclabili ed infine il
2,2% da materiali taglienti/pungenti. Involucri di plastica, teleria chirurgica monouso
e dispositivi di protezione individuale hanno dato un contributo determinante al
volume totale. È stato conseguentemente stimato che i rifiuti finiti in discarica di tutte
le 47.429 protesi totali di ginocchio eseguite in Canada nel biennio 2008-2009 erano
pari a 407.889 kg in peso e 15.272 m
3
in volume.
I rifiuti provenienti dalla sala operatoria richiedono una segregazione in flussi
separati dopo la differenziazione tra rifiuti solidi normali (che richiedono una ulteriore
opportuna differenziazione) e rifiuti a rischio infettivo, o rifiuti medici regolamentati
(che richiedono un trattamento ad alta energia, come l’incenerimento). Si stima che il
22
costo di smaltimento dei rifiuti pericolosi a rischio infettivo sia superiore di otto volte
rispetto a quello dei rifiuti solidi normali (Kagoma, 2012), motivazione che dovrebbe
ulteriormente disincentivare le pratiche improprie di uso del rifiuto regolamentato,
all’interno del quale, spesso, finiscono scarti non visibilmente contaminati che
andrebbero smaltiti con altre modalità più opportune, indicate da specifici protocolli
ed istruzioni operative nazionali, regionali, aziendali.
2.4 Going green
Per le aziende sanitarie che cercano di ridurre la propria impronta ecologica, le
sale operatorie rappresentano una sfida particolarmente impegnativa, soprattutto a
causa della necessità di un ambiente che garantisca assoluta sterilità e sicurezza; la
maggior parte dell’impatto ambientale nasce per l’impiego di strutture e tecnologie
ideate per raggiungere questi due obiettivi. Fortunatamente, nel tempo sono emerse
numerose strategie di diminuzione dell’impatto ambientale che possano soddisfare il
“triplo traguardo” indicato dall’Agenda 2030 (persone, pianeta e prosperità),
riducendo contemporaneamente i costi sanitari e gli effetti ambientali senza
compromettere la cura del paziente. I principi fondamentali della riduzione della
carbon footprint operatoria sono gli stessi delle strategie di minimizzazione dei rifiuti:
“ridurre”, “riciclare”, “riusare”, a cui la letteratura aggiunge “ripensare” e “ricercare”.
Questa “5-R rule” dovrebbe essere la guida ideale per costruire una serie di percorsi
che possano, da subito, dare una svolta green, ambientalmente sostenibile, al mondo
delle sale operatorie. Nei prossimi paragrafi si cercherà di analizzare dettagliatamente
i ritrovati più rilevanti nella letteratura disponibile sull’argomento, a partire da un
interessantissimo studio canadese (Kagoma, 2012), già citato più volte nel corso di
questa tesi; a supporto di quanto discusso, vengono riportati alcuni esempi di strutture
sanitarie nordamericane che hanno intrapreso azioni per ridurre l’impatto ambientale
dei propri servizi operatori.