21
Capitolo 2 La strage di Capaci
Il 23 maggio 1992 avviene l’epilogo della storia di un uomo capace di infliggere cocenti
sconfitte
52
a Cosa Nostra. La mafia odiava Giovanni Falcone, il giudice che da anni
aveva mostrato un’abile competenza nel rintracciare legami e vincoli tra uomini
d’onore, colui che aveva compreso Cosa Nostra, che era diventato un’incommensurabile
memoria storica.
All’interno di un piano destabilizzante più ampio, Cosa Nostra porta a termine un
progetto delittuoso a danno del magistrato più protetto d’Italia e lo fa attraverso la
messa in scena della propria forza militare.
Ci vorranno anni prima di comprendere chi sono i responsabili di una strage che ha
stroncato le vite di cinque uomini, e servirà coraggio per individuare il movente di un
delitto che pare non essere semplicemente mafioso.
Capitolo 2.1 La cronaca
Il 1992 rappresenta il culmine della sfida di Cosa Nostra allo Stato; Giovanni Falcone
appariva allora come il suo nemico storico, il primo magistrato che era riuscito a
comprendere il fenomeno mafioso, a prevederne mosse e strategie
53
.
La mafia aveva già tentato di dissuaderlo dal portare avanti una lotta che lo avrebbe
reso, prima o poi, un uomo morto. Falcone era consapevole del fatto che occuparsi di
mafia significasse procedere su un territorio minato
54
.
Già il 21 giugno 1989 cinquantasette candelotti di dinamite
55
erano stati piazzati tra gli
scogli davanti alla sua villetta estiva all’Addaura (Pa), ma fortunatamente uno
scrupoloso agente della scorta aveva impedito la strage.
Il fallito attentato accertò la presenza di una talpa al Palazzo di Giustizia di Palermo,
poiché nessuno poteva sapere che Falcone si sarebbe trovato lì quel giorno, se non
52
F. La Licata, Storia di Giovanni Falcone, Feltrinelli, 2003, pag. 19.
53
S. Lodato e P. Grasso, La mafia invisibile. La nuova strategia di Cosa Nostra, Milano, Arnoldo
Mondadori, 2001, pag. 104.
54
G. Falcone, Cose di cosa nostra, a cura di M. Padovani, Milano, Rizzoli, 1991, pag. 45.
55
G. Ayala, Mafia: album di cosa nostra, a cura di F. Cavallaio, Milano, Rizzoli, 1992, pag. 242.
22
uomini che lavoravano con lui
56
. Il mancato tentativo di eliminarlo favorì inoltre la
nomina di Falcone a procuratore aggiunto di Palermo
57
; ciò gli rese subito chiaro il
collegamento tra gli uomini d’onore e la politica palermitana e siciliana; all’occasione il
giudice ebbe la sensazione che si trattasse di mafia, ma non solo, parlò di «menti
raffinatissime»
58
richiamando l’attenzione su quelle entità esterne che in quel momento
avevano una coincidenza di interessi con l’organizzazione criminale. Per Falcone erano
ormai scontate le infiltrazioni degli uomini d’onore nella politica nazionale
59
.
Nel 1991 Falcone collaborò con il ministro di Grazia e Giustizia Claudio Martelli, il
quale lo volle al suo fianco, a Roma, nel ruolo di Presidente della sezione Affari Penali
del Ministero
60
; qui, nonostante le critiche ricevute dal Pci, Psi e dal sindaco di Palermo
Leoluca Orlando, fu molto attivo, cercò in ogni modo di rendere più efficiente ed
incisiva l'azione della magistratura contro la realtà mafiosa; da Roma il giudice riuscì a
influenzare la politica giudiziaria nazionale attraverso la sensibilizzazione dei colleghi
riguardo alla gravità del fenomeno mafioso
61
.
La sua presenza a Roma aveva fatto sì che in un primo tempo Totò Riina e gli altri boss
avessero pensato di portare a termine il loro progetto criminale nella capitale, mandando
lì un commando mafioso che seguisse il giudice in tutti i suoi spostamenti
62
;
successivamente gli uomini d’onore avevano compreso che commettere il delitto in
Sicilia avrebbe significato porvi automaticamente il marchio e la firma di Cosa Nostra e
così mutarono le coordinate dell’azione criminale.
Secondo quanto dichiarato
63
dall’ex sindaco di Palermo Vito Ciancimino, l’idea iniziale
di uccidere Falcone a Roma era da collegarsi alla matrice politica del progetto
56
Intervista a La Licata in La storia siamo noi, a cura di Rai Educational e E. Bellavia e S. Palazzolo,
Falcone Borsellino: Mistero di Stato, Palermo, Edizioni della Battaglia, 2002, pag. 855.
57
S. Lodato e P. Grasso, La mafia invisibile. La nuova strategia di Cosa Nostra, Milano, Arnoldo
Mondadori, 2001, pag. 105.
58
E. Biagi et alii, Mafia. Dentro i misteri di cosa nostra dal dopoguerra a Falcone e Borsellino, Milano,
Panorama – Arnoldo Mondadori, 1992, pag. 45.
59
S. Lodato e P. Grasso, La mafia invisibile. La nuova strategia di Cosa Nostra, Milano, Arnoldo
Mondadori, 2001, pag. 108.
60
S. Lupo, Che cos’è la mafia. Sciascia e Andreotti, l’antimafia e la politica, Roma, Donzelli, 2007, pag.
45.
61
S. Lodato e P. Grasso, La mafia invisibile. La nuova strategia di Cosa Nostra, Milano, Arnoldo
Mondadori, 2001, pag. 110.
62
S. Lodato e P. Grasso, La mafia invisibile. La nuova strategia di Cosa Nostra, Milano, Arnoldo
Mondadori, 2001, pag. 116.
63
M. Torrealta, La trattativa. Mafia e stato: un dialogo a colpi di bombe, Roma, Editori Riuniti, 2002,
pag. 60.
23
criminale; il successivo spostamento dell’azione sul fronte palermitano era quindi da
intendersi come una esplicita volontà di sconvolgere l’Italia.
Il 23 maggio 1992 Giovanni Falcone e la moglie Francesca Morvillo atterrarono
all’aeroporto di Punta Raisi, vicino Palermo, con un aereo privato partito da Roma. Ad
attenderli, nelle vicinanze, c’erano gli uomini più addestrati di Cosa Nostra.
Sull’autostrada Trapani – Palermo, nei pressi dell’uscita per Capaci, all’interno di un
cunicolo costruito per lo scolo delle acque sotto la carreggiata, fu collocata una carica
esplosiva di seicento chilogrammi di tritolo
64
. Pochi minuti prima delle ore diciotto, in
quel punto, passò il corteo di autovetture composto da una Fiat Croma marrone con tre
agenti di scorta, una Fiat Croma bianca con a bordo il giudice Falcone, la moglie e
l’autista, e infine una Fiat Croma azzurra con altri agenti di polizia.
L’esplosione, attivata a distanza con un telecomando, provocò un cratere di circa
quattordici metri di diametro e tre e mezzo di profondità
65
, il manto stradale scomparì
letteralmente. Gli effetti della detonazione furono tali da essere registrati persino
dall’Osservatorio geofisico di Monte Cammarata, in provincia di Agrigento.
Cosa Nostra riuscì a mostrare tutta la propria forza militare organizzando un attentato,
successivamente detto l’attentatuni
66
, destinato a divenire epocale.
La prima auto di scorta venne catapultata alla distanza di sessantadue metri dilaniando i
corpi dei poliziotti a bordo: Antonio Montanaro, Rocco Di Cillo e Vito Schifani. Quella
del magistrato fu tranciata di netto, il suo motore scomparve nel baratro, mentre il resto
rimase in bilico.
Gli uomini che si trovavano nella terza auto rimasero feriti ma riuscirono a portar
soccorso al giudice e alla moglie. Giovanni Falcone e Francesca Morvillo vennero
trasportati all’ospedale ancora vivi, ma morirono poche ore dopo per le copiose
emorragie causate dalle lesioni interne. L’unico superstite della Croma bianca fu
l’autista, poiché quel giorno a guidare era Falcone.
In tutta Italia prevalse lo sconcerto, la commozione fu smisurata, impotenti scorsero le
parole di cordoglio e di condanna.
64
G. Ayala, Mafia: album di cosa nostra, a cura di F. Cavallaio, Milano, Rizzoli, 1992, pag. 186.
65
M. Torrealta, La trattativa. Mafia e stato: un dialogo a colpi di bombe, Roma, Editori Riuniti, 2002,
pag. 121.
66
Ibidem, pag. 131.
24
Il giorno dei funerali la folla esplose contro le autorità, contro gli uomini politici, e
ancora si ricorda la disperazione della moglie dell’agente di scorta Schifani, la
ventiduenne Rosaria Costa, che nella Chiesa di San Domenico, provando ribrezzo per i
mafiosi e sfiducia nello Stato, gridò: «uomini della mafia che siete anche qui, vi
perdono ma inginocchiatevi»
67
.
Capitolo 2.2 Movente e responsabilità
A volere la morte del giudice Giovanni Falcone non erano soltanto i mafiosi, era anche
l’Italia degli affaristi, dei corrotti, degli speculatori. Falcone era un personaggio
scomodo poiché tentava in ogni modo di riportare gli uomini verso la legalità; il suo
obiettivo primo era annullare quel legame che faceva della mafia un soggetto d’interesse
per il potere politico, ecco perché egli era bersaglio non solo di Cosa Nostra, ma anche
di chi prosperava grazie ad essa
68
.
La decisione da parte di Cosa Nostra di uccidere il giudice Falcone era stata già adottata
nel lontano 1984, quando Tommaso Buscetta aveva iniziato la sua collaborazione con il
magistrato, consentendogli di imprimere un importante salto di qualità alle indagini.
La strage di Capaci era stata infatti attuata a circa otto anni di distanza dalla prima
intenzione di uccidere il giudice ed a circa tre anni dall’attentato all’Addaura.
Il ruolo di altissimo profilo istituzionale che il Dottor Falcone ricopriva presso il
Ministero di Grazia e Giustizia si sarebbe presto tradotto in provvedimenti autorevoli
contro la mafia. Da Roma il giudice auspicava infatti di poter combattere il fenomeno
mafioso con normative più articolate, con strumenti raffinati e figure qualificate per
colpire al cuore la struttura e gli interessi dell’organizzazione. Ciò avrebbe determinato
effetti negativi sulla vita di Cosa Nostra, che vista tramontare l’illusione di un
allontanamento del magistrato dai tradizionali interessi investigativi, avvertì in maniera
sempre più pressante l’esigenza di recuperare il mai sopito proposito di eliminarlo.
Gli effetti devastanti della strage di Capaci, l’organizzazione e la realizzazione pratica
dello stesso erano ritenute dagli inquirenti opera di un ben definito gruppo di persone
67
G. Ayala, Mafia: album di cosa nostra, a cura di F. Cavallaio, Milano, Rizzoli, 1992, pag. 189.
68
S. Lodato e P. Grasso, La mafia invisibile. La nuova strategia di Cosa Nostra, Milano, Arnoldo
Mondadori, 2001, pag. 118.
25
che si muoveva sulla base di compiti prestabiliti e ben coordinati fra loro. Era evidente
che il gruppo doveva essere composto da un numero cospicuo di persone, fortemente
radicato sul territorio ed in grado di colpire la vittima con mezzi idonei per superare il
sistema di protezioni che la circondava.
Nei giorni successivi all’attentato gli investigatori scoprirono un posto di osservazione –
chiamato Contrada Coste - nelle adiacenze dell’autostrada in posizione sopraelevata
rispetto a questa, nel quale vennero trovati numerosi mozziconi di sigarette e rami
tagliati di fresco per ampliare la visibilità sul luogo stabilito dell’attentato.
Le indagini della Dia iniziarono nel settembre del 1992 grazie alla collaborazione di un
membro di Cosa Nostra, Giuseppe Marchese, il quale indicò un gruppo di persone che
avrebbe potuto aver a che fare con la realizzazione dell’attentato; tra questi vi erano
Antonino Gioè, Gioacchino La Barbera e Mario Santo Di Matteo. In seguito, dopo le
loro confessioni di aver partecipato all’organizzazione della strage, furono fatti test
comparativi tra il loro dna e quello trovato sui resti di sigaretta. I test diedero esito
positivo
69
.
Il 26 settembre 1997 la Corte di Assise di Caltanissetta pronunciò la sentenza del
processo di primo grado: ventiquattro condanne all’ergastolo e diverse condanne a
svariati anni di carcere (Brusca ventisei anni, Cancemi ventuno, Ferrante diciassette).
Tra i condannati vi furono indiscutibilmente Salvatore Riina e Bernardo Provenzano,
capi indiscussi di Cosa Nostra, che avrebbero deciso la morte di Falcone e che sono stati
indicati come i mandanti della strage; vi furono poi Leoluca Bagarella, cognato di Riina
e braccio armato di Cosa Nostra, incaricato di curare organizzazione ed esecuzione
dell’attentato, e Domenico Ganci, il quale avvertì che «la carne era arrivata»
70
, ovvero
che Falcone era atterrato a Punta Raisi.
Si individuarono così i soggetti che all’epoca dei fatti rivestivano un ruolo direttivo e
decisionale negli organi al vertice di Cosa Nostra, più in particolare i componenti della
Commissione provinciale di Palermo, nel cui territorio avvenne il delitto, nonché i
membri della Commissione regionale. Tra questi vi erano Salvatore Cancemi e
Giovanni Brusca, i quali, con altri, avevano stabilito sin dal febbraio 1992 la strategia
stragista che concretizzava la reazione dei vertici di Cosa Nostra volta a recuperare una
69
G. Ayala, Mafia: album di cosa nostra, a cura di F. Cavallaio, Milano, Rizzoli, 1992, pag. 122.
70
G. Ayala, Mafia: album di cosa nostra, a cura di F. Cavallaio, Milano, Rizzoli, 1992, pag. 307.
26
migliore e più proficua intesa con nuovi referenti istituzionali, in luogo di quelli che,
come l’onorevole Lima, non avevano voluto o saputo tenere al riparo il sodalizio dagli
effetti nefasti legati all’azione giudiziaria del giudice Falcone, condensata nel primo
maxiprocesso
71
.
A riguardo, rilevanti appaiono le rivelazioni di Giovanni Brusca, il quale più volte nel
corso degli interrogatori ribadì che l’uccisione di Falcone «era particolarmente
auspicata dal Riina, che voleva così assestare anche un colpo decisivo alle speranze
che allora il senatore Andreotti coltivava di essere eletto Presidente della
Repubblica»
72
.
Nel corso di una riunione mafiosa del febbraio 1992, era stata rinnovata la proposta di
uccidere Giovanni Falcone, poiché i vertici di Cosa Nostra ritenevano di poter ottenere
un risultato positivo attraverso l’eliminazione del magistrato che aveva condizionato,
assieme al ministro Martelli, l’esito del maxiprocesso.
A tale proposito, Cancemi e poi Brusca hanno riferito
73
che vi erano stati molti tentativi
di condizionare l’esito del processo: tramite i cugini Salvo e l’onorevole Lima si era
sperato nell’intervento dall’onorevole Andreotti; tuttavia Riina non era riuscito
nell’intento, per cui da quel momento si era deciso per l’eliminazione di Falcone, di
Lima e di tutti coloro che avevano recato danno all’organizzazione.
Emerse inoltre un’ ulteriore spinta motivazionale che contribuì all’assassinio di
Falcone: il progetto criminoso era volto ad impedirgli di promuovere le investigazioni
inerenti la gestione illecita degli appalti, poiché ciò avrebbe compromesso i rapporti
non ancora stabilizzati tra Cosa Nostra ed i nuovi referenti nei settori dell’economia e
della politica. Tale ipotesi è stata ulteriormente confermata dalla deposizione
74
di
Antonio Di Pietro, il quale ha riferito di aver parlato con Borsellino e di aver accennato
a Falcone dell’intreccio tra politica, mafia e imprenditoria nel campo degli appalti
pubblici, la cui gestione illecita era stata scoperta al Nord attraverso l’indagine su
Tangentopoli.
71
E. Bellavia e S. Palazzolo, Falcone Borsellino: Mistero di Stato, Palermo, Edizioni della Battaglia,
2002, pag. 29.
72
M. Torrealta, La trattativa. Mafia e stato: un dialogo a colpi di bombe, Roma, Editori Riuniti, 2002,
pag. 58.
73
E. Bellavia e S. Palazzolo, Falcone Borsellino: Mistero di Stato, Palermo, Edizioni della Battaglia,
2002, pag. 861.
74
E. Bellavia e S. Palazzolo, Falcone Borsellino: Mistero di Stato, Palermo, Edizioni della Battaglia,
2002, pag. 862.
27
I nuovi interessi di Cosa Nostra potevano essere condensati nel cosiddetto “papello” che
Totò Riina aveva fatto pervenire ai referenti politici che cercavano di porre rimedio alla
strategia del terrore con cui la mafia siciliana cercava di raggiungere i propri scopi
politici, anche a costo di mutare alleanze, orientandosi verso nuovi referenti.
Tale complessa strategia è da imputare ai vertici dell’organizzazione, la quale si articola
in maniera piramidale: alla base vi è la famiglia che controlla un dato territorio, più
famiglie raggruppate formano il mandamento e tutti i capimandamento
75
fanno parte
della Commissione provinciale. In posizione sovra ordinata ad essa si pone la
Commissione regionale, le cui competenze si connettono a questioni di carattere
generale e a problematiche inerenti l’organizzazione.
Tutti gli uomini di mafia che furono interrogati riguardo alla strage di Capaci
concordarono nel riferire che dopo la seconda guerra di mafia, avvenuta negli anni 1981
– ’83 e che al suo termine aveva visto l’affermazione dei corleonesi
76
, non vi fosse stato
alcun mutamento nelle regole costituzionali che disciplinavano l’assetto di Cosa Nostra;
erano però mutate le identità fisiche di alcuni membri della Commissione provinciale
77
,
tra le cui mansioni vi era anche quella di pianificare ed attuare i cosiddetti omicidi
eccellenti.
Si giunge così alla sicura partecipazione alla fase esecutiva della strage dei reggenti di
almeno quattro mandamenti, quelli di San Giuseppe Iato, San Lorenzo, Noce e Porta
Nuova. Ciò costituisce una dimostrazione del consenso collegiale che aveva
accompagnato la decisione dell’assassinio di Giovanni Falcone.
Secondo le dichiarazioni dei collaboratori di giustizia la strage andava inserita quindi
nel contesto più ampio della strategia tesa a fare la guerra allo Stato, attraverso
l'eliminazione di coloro che nell’ambito dei rispettivi compiti istituzionali avevano
cagionato, con la loro azione investigativa e di contrasto, un danno all’organizzazione
mafiosa, e degli esponenti politici che poi l’avevano abbandonata, non avendo più
potuto o voluto garantire le coperture e le connivenze promesse in precedenza.
Nonostante da parte di diversi difensori furono ipotizzati moventi diversi, alternativi a
quello della vendetta, essi rimasero allo stato di mere illazioni, poiché essi non potevano
75
E. Bellavia e S. Palazzolo, Falcone Borsellino: Mistero di Stato, Palermo, Edizioni della Battaglia,
2002, pag. 30.
76
P. Pezzini, Le mafie, Firenze, Giunti, 2003, pag. 68.
77
P. Pezzini, Le mafie, Firenze, Giunti, 2003, pag. 70.
28
contrapporsi validamente alla concretezza degli elementi probatori emersi nel corso
delle prime indagini. Solo più avanti nel tempo emergeranno ulteriori eventuali moventi
esterni che potevano avere esercitato un’influenza nella determinazione della strage
78
.
Capitolo 2.3 “Una strage come in Libano”
Il giorno seguente alla strage tutti i quotidiani nazionali mostrarono in prima pagina la
notizia dell’assassinio del giudice Falcone. Per giorni e giorni fu l’argomento a cui i
giornali diedero la massima priorità, giornalisti e collaboratori vennero mandati in
Sicilia per seguire da vicino l’evolversi delle vicende e per carpire le confidenze dei
familiari e dei colleghi del giudice, le opinioni dei politici, le accuse della gente
comune.
Il 24 maggio 1992 «La Repubblica» prestò l’intera prima pagina all’accaduto; «Falcone
assassinato» così primeggiava il titolo, scritto a grandi caratteri, occupando la metà
superiore della pagina e sovrastando la fotografia di un Falcone pensieroso che, posta
centralmente, occupava un terzo della pagina.
A sinistra il direttore del quotidiano, Eugenio Scalfari, pose il proprio editoriale titolato
«Non c’è più tempo»: in esso esprimeva il suo sgomento per la drammaticità
dell’episodio, sottolineando la terribile connessione tra questo e la crisi politica e
istituzionale che la repubblica italiana stava fronteggiando. Invitava quindi la
rappresentanza politica a prendersi le proprie responsabilità di fronte ad un fatto tanto
grave ed estremo e a «far prevalere gli interessi dello Stato su quelli delle parti e delle
fazioni»
79
.
Le pagine seguenti alla prima furono fitte di articoli riguardanti la cronaca
dell’attentato, la storia della vita del giudice e quella delle altre vittime, la moglie
Francesca Morvillo e gli agenti di scorta. Le pagine interne costituivano infatti dei
paginoni con articoli che occupavano anche otto o nove colonne; in taglio alto vignette
78
M. Torrealta, La trattativa. Mafia e stato: un dialogo a colpi di bombe, Roma, Editori Riuniti, 2002,
pag. 58.
79
E. Scalfari, Non c’è più tempo, in «La Repubblica», Anno 17, n. 121, domenica 24 maggio 1992, pag. 1
29
che illustravano la cronaca dei fatti, violente immagini delle auto dilaniate dal tritolo,
fotografie di Falcone nella sua Palermo.
In taglio basso erano posti invece box contenenti episodi di mafia, di omicidi, di vittime
precedenti a Falcone, resoconti di vite trascorse a proteggere gli uomini dello Stato.
Un articolo di Umberto Rosso
80
chiariva la cosiddetta tecnica libanese con cui fu ucciso
Falcone e che venne usata anche in altri delitti eccellenti, come quello di Rocco
Chinnici, assassinato il 29 luglio 1983. Un altro testo riassumeva gli ultimi timori del
giudice, confidati proprio a «La Repubblica» il martedì precedente alla strage. «Cosa
Nostra non dimentica – diceva – La mafia è una pantera. Agile, feroce, dalla memoria
di elefante. […]bisogna fare in fretta e mettersi d’accordo sulla Superprocura, uno
strumento essenziale per arginare l’espansione dei boss. Il nemico è sempre lì, pronto a
colpire. Ma noi non riusciamo neppure a metterci d’accordo sull’elezione del
Presidente della Repubblica»
81
. Nell’intervista Falcone poneva dunque l’attenzione
sulle dure e continue polemiche riguardanti la Direzione nazionale antimafia, poi
ribattezzata Superprocura, alla quale guida lui stesso era candidato. Insisteva infatti
sull’argomento: «Stiamo perdendo un’occasione storica per mettere in piedi una
struttura moderna, l’unica arma con la quale si può cercare di bloccare l’avanzata
mafiosa»
82
. Era proprio convinto Falcone sull’urgenza di costituire un apparato statale
come la Dna, soprattutto perché, secondo il giudice, la presenza stessa di Cosa Nostra in
Sicilia era una conseguenza dell’assenza dello Stato, un vuoto che veniva colmato con
norme alternative.
La giornalista Silvana Mazzocchi riportò invece un’intervista all’ex sindaco di Catania,
Enzo Bianco, nella quale si narrava l’ultima cena trascorsa con Falcone e il ricordo di
un episodio, che all’epoca rappresentava una sorta di anticipazione dei fatti, avvenuto in
un carcere di massima sicurezza durante un interrogatorio fatto dal giudice ad Antonino
Calderone, collaboratore di giustizia. Bianco raccontò che durante il colloquio Falcone
80
U. Rosso, Una scia di sangue lunga vent’anni, in «La Repubblica», Anno 17, n. 121, domenica 24
maggio 1992, pag. 4.
81
G. Marino, “Cosa Nostra è pronta a colpire”, in «La Repubblica», Anno 17, n. 121, domenica 24
maggio 1992, pag. 5.
82
Ibidem, pag. 5