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“raro”, ma ininterrotto, di questo lavoro traduttorio sia
strettamente congiunto alle ragioni della sua invenzione poetica.
La traduzione sembra assumere per Luzi un valore ancor più
emblematico dello stesso lavoro critico.
Appare sintomatico come Luzi si cimenti più volte sulle poesie di
Apollinaire in veste di critico e mai in quella di traduttore. Luzi
traduttore, invece, si occupa ampiamente di Supervielle e
Michaux, poeti per i quali manca un riscontro preciso in sede
critica.
Luzi nega la possibilità di teorizzazione della traduzione, che
invece gli appare come oggetto empirico, come patteggiamento
di pretese e concessioni fra autore e autore, fra il poeta tradotto,
oggetto apparentemente muto e immobile, e l’altro, soggetto del
privilegio del disporre e del fare, altrettanto solo in apparenza.
Tali termini possono essere capovolti laddove il primo si impone
nell’autorità consacrata dell’oggetto compiuto e il secondo
annaspa nel precario tentativo di produrre un oggetto analogo.
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Luzi non riscontra nell’operazione del tradurre l’esistenza di un
criterio metodologico fisso, ma piuttosto la misura appare quella
instabile e assolutamente soggettiva della forza d’imposizione
presente in ciascun testo letterario.
Talvolta, la forma del testo originale cattura il traduttore ad una
totale identificazione, altre volte l’invito provoca una
sperimentazione in parallelo e solo questa appare a Luzi come
vera coincidenza fra autore e traduttore.
Mentre è rilevante e indispensabile sottolineare come non vi sia
coincidenza cronologica tra l’attività critica e quella di traduttore
in Luzi, sebbene gli autori studiati e quelli tradotti siano in linea
generale gli stessi.
Questo accade, come ha teso a sottolineare anche Bo,
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in quanto
Luzi non appartiene alla categoria dei traduttori di professione, i
suoi “incontri” con altri autori sono stati di volta in volta
“occasionali” e proprio nell’ambito dell’occasione l’autore ha
avuto modo di comunicarci il senso di questo suo discorso
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“Le occasioni di Luzi traduttore”, articolo di C. Bo apparso sul Corriere della Sera, 6
febbraio 1983
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“marginale” e, al tempo stesso, fondamentale in quanto
strettamente collegato alle ragioni più intime della sua creazione
poetica.
Per generazione, Luzi appartiene a un tempo ancora suscettibile
di scoperte, il medesimo tempo in cui esponenti intellettuali quali
Poggioli e Traverso tenevano cattedra di traduzione poetica sulle
più autorevoli riviste dell’epoca.
Soltanto negli anni Quaranta la traduzione assunse per così dire i
connotati di un vero e proprio “genere”, giustificando ben presto
il passaggio inevitabile dall’esercizio occasionale e libero al
professionismo.
Luzi, comunque, appartiene e apparterrà sempre alla prima
categoria. Le sue scelte dipendevano dalla “pura” occasione,
dall’incontro di gusti e interessi con un altro poeta. Non si tratta
mai di scelte obbligate o canoniche, basti pensare alle traduzioni
luziane di Cadou o Frénaud. Spesso, infatti, siamo indotti quasi
inconsapevolmente, a non travalicare certi limiti canonici e
ufficiali: ci appare normale, persino forse inevitabile la
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traduzione di Mallarme o Valéry, mentre può destare in noi
stupore quella di figure come Supervielle, forse perché ad esse
Luzi si dedica come traduttore, ma non come critico.
Ed è appunto in questa novità, in questo valicamento delle
canonizzazioni precostituite che va assolutamente ricercata la
novità e il significato più innovativo dell’opera di traduzione di
Luzi. Per sottolineare ancor meglio, se ce ne fosse l’esigenza,
come l’attività del Luzi traduttore sia generata da un’intima,
personalissima necessità e non certo da richieste o precodificati
influssi esterni.
Ed è proprio in virtù di questo che ben si comprende come le
successive e diversificate traduzioni luziane attraversino
successive tappe evolutive, parallele a quelle dell’attività creativa
dell’autore.
La prima prova traduttiva di Luzi è una poesia di Ronsard (“Per
la morte di Maria”), pubblicata nel 1942 all’interno della seconda
edizione de “La barca”, raccolta che attestava già intrinsecamente
la lezione del Simbolismo, nel tentare di rendere l’essenza del
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mondo attraverso folgorazioni di simboli, immagini e
suggestioni: una sorta di lezione di Mallarmé, tradotta in chiave
di povertà e fragilità, accompagnata da un uso sapiente
dell’endecasillabo.
Ancora nel primo periodo traduttivo, quello che intercorre tra la
pubblicazione dell’”Avvento notturno” (1940) e di “Un brindisi”
(1946), Luzi realizzò traduzioni in prosa di Charles Du Bos.
Successivamente, tradusse nel 1948, per un’antologia di scrittori
stranieri curata da Bo, Landolfi e Traverso , un sonetto di
Baudelaire e uno di Rimbaud, cimentandosi in quegli stessi anni
con la traduzione di Coleridge, che colloca di diritto fra i
precursori del Simbolismo.
Agli esordi degli anni Cinquanta traduce in prosa Montesquieu e
sempre nel 1951 pubblica lo “Studio su Mallarmé”.
L’anno successivo uscirà “Primizie del deserto”, in cui la sua
esperienza poetica rivela un più drammatico confronto con la
realtà.
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Il mondo (quello smarrito e in cerca di nuova identità del
dopoguerra) appare come un deserto immobile in sé, nell’atto
stesso di trasformarsi e di mutare.
Nel 1954 attende alla traduzione di Cadou e nel 1955 della
poetessa del XVII sec. Louise Labé.
Per un contributo a “Poesia straniera del ‘900”, tradurrà nel 1958
Supervielle e Michaux, mentre l’anno precedente aveva
pubblicato “Onore del vero”, in disgelava la scoperta della verità
celata nelle cose più umili e banali, nelle occasioni della vita
quotidiana. E’ appunto in questa raccolta, infatti, che il Luzi
poeta getta le ipotesi di una più integrale solidarietà umana, di
una partecipazione a una vita cristiana di popolo, lasciando
spazio spesse volte ad orizzonti al limite del fiabesco.
Risale ancora al 1958 la traduzione dell’”Andromaca” di Racine.
Ma negli anni dal 1956 al 1961, il poeta si dedica anche alla
raccolta “Dal fondo delle campagne”, in cui rivela come il valore
della vita si riesca a cogliere pienamente solo nel medesimo
istante in cui se ne avverte l’irrimediabile perdita.
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Del resto, la questione tra vita e morte è connaturata all’atto
stesso del poetare e la più autentica opera del mondo si ritrova
proprio nelle azioni più umili e modeste.
Fondamentale tappa del Luzi traduttore è rappresentata dalla
pubblicazione nel 1959 de “L’idea simbolista”. In questo volume
egli include Coleridge e Baudelaire fra coloro che, a suo avviso,
prepararono in modo determinante la strada al Simbolismo.
Come già ricordato in precedenza, Luzi include poi Mallarmé e
Rimbaud tra i maestri del Simbolismo e Valéry tra gli esponenti
veri e propri del movimento simbolista.
Appunto del Valéry è la traduzione de “Il cantico delle colonne”
realizzata nel 1960, lo stesso anno in cui esce “Il giusto della
vita”, in cui sono raccolte tutte le poesie scritte fino ad allora.
Dopo la pubblicazione di “Nel magma”, datata 1963, l’anno
seguente rende omaggio con le sue traduzioni a Frénaud. Nella
significativa scelta del titolo della sua raccolta, Luzi attesta
l’influenza dell’aspro, vivace dibattito intellettuale e politico in
corso proprio negli anni Sessanta, che sembra a lui tradursi in un
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vortice, in quel “magma” di parole, recriminazioni e contrasti.
Tali elementi sono branditi come spie inesorabili della convulsa
vita cittadina. E il suo atteggiamento a riguardo gli verrà
rimproverato come assenza di partecipazione politica,
dedicandosi ad una ricerca religiosa per alcuni fuori tempo. Egli
difende la propria posizione e soprattutto la propria faticosa e
dolorosa ricerca, ma si scopre suo malgrado inevitabilmente
immerso nel tumultuoso fluttuare della realtà generale.
E’ del 1966 la traduzione del “Riccardo II” di Shakespeare,
immediatamente successiva alla sua nuova raccolta poetica “Dal
fondo delle campagne” (1965) di cui si è detto precedentemente.
Nel 1971 pubblica “Sui fondamenti invisibili”, in cui si mostra
ormai lontano dai modelli dell’Ermetismo, portando avanti
comunque la sua inquieta riflessione intellettuale, morale e
religiosa, insistendo sulla contraddizione fra gli opposti, in una
costante ricerca della verità e della chiarezza che rispecchia una
condizione mentale e spirituale visibile anche nello stile da lui
adottato. La parola cerca di capire e “carpire” il senso vero e
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profondo delle cose, ma ha inevitabilmente, dolorosamente si
potrebbe quasi affermare, un qualcosa di allucinato,
destabilizzante. Si evince come il poeta parla come sconnesso dal
proprio essere, sciolto dalla propria identità.
E’ del 1978, invece, “Al fuoco della controversia”, raccolta in cui
Luzi sembra bruciare fino in fondo il linguaggio poetico, che gli
appare fuorviante, inadeguato, sterile per rendere in modo
credibile anni difficili e durissimi come quelli segnati dalla
contestazione e dal terrorismo. La controversia (teologica,
politica, morale e sociale) sembra travalicare inesorabilmente
qualunque codificazione e limite temporale e spaziale. Appare
quindi difficile e quasi frustrante per il poeta tentare di coniare e
trovare una lingua, una modalità complessiva di espressione che
riesca a rendere, a descrivere, ad esprimere più profondamente il
presente, per un tempo che pare inenarrabile.
Negli ultimissimi anni Settanta e nei primi anni Ottanta, Luzi si
dedica con passione alla traduzione di Mallarmé, mentre
contemporaneamente attende alla stesura di “Per il battesimo dei
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nostri frammenti” (1985), un’inquieta e inquietante riflessione
morale che coinvolge inevitabilmente anche lo stile, la parola,
corrodendola più profondamente, , attraverso una frattura
continua del verso poetico e dello svolgimento logico e sintattico
delle composizioni. La parola frammentaria sembra ormai
prepararsi più coscientemente a ritornare alla propria origine,
mediante una effettiva catarsi, una purificazione. Dal punto di
vista tematico, Luzi poeta si interroga sul confronto eterno e
inestricabile tra mutazione eimmobilità, per un evento che non
riesce a capire. Viene dunque negata dolorosamente la
consistenza, e con essa il contenuto stesso, della memoria, che
vale solo ed esclusivamente come mero, quasi meccanico atto del
ricordare, ma che non può in alcun modo pretendere di ritrovare
e ripossedere le tracce di ciò che è stato e che non può tornare ad
essere, ad esistere, ad assumere consistenza.
E’ del 1980 la pubblicazione di “Francamente”, un’antologia di
poeti francesi, in cui sono inserite le sue traduzioni.
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Nel 1983 esce “La Cordigliera delle Ande”, in cui vengono
riprese le traduzioni proposte in “Francamente” e a cui si
aggiungono alcuni brani dell’”Andromaca” e la traduzione de
“La Fuente” di Jorge Guillen (rielaborata nel 1960 da un tema di
Romano Bilenchi).
Nel 1990 Luzi pubblica “Frasi e incisi di un canto salutare”, in
cui a livello tematico e testuale riconosce il significato del tutto
nello sforzo di interrogare il piano, la dimensione divina
dell’essere, con la consapevolezza dolorosa di non poter mai
ricevere in cambio alcuna risposta certa, in qualche modo
rassicurante, stabilizzante. Il vecchio poeta dà il saluto alla sua
esperienza del mondo e nello stesso tempo cerca religiosamente
una salute spirituale, avendo ormai conseguito la piena
consapevolezza dell’insufficienza del proprio scrivere e della
propria ricerca. Si è reso conto del carattere non conclusivo della
storia e della conoscenza, del conclusivo convergere di sapere e
non sapere, del legame destabilizzante ma inevitabile di verità e
insignificanza.
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Nel 1991, infine, ultima tappa della sua attività traduttiva è “Il
Dannato per disperazione” di Tirso de Molina.
E’ importante ribadire come Luzi resistette a lungo, per sua
stessa ammissione
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, alla “tentazione” di percorrere la strada della
traduzione, mentre si interessava maggiormente alla vicenda
estetica, ad esempio nel caso di Mallarmé. Gli sembrava, infatti,
almeno inizialmente, che non avesse veramente senso tradurre
Mallarmé che aveva scritto in una lingua lontana dallo stesso
francese, in una lingua divenuta “franca” a forza di scendere
nelle regioni degli etimi e dei primordi più inesplorati.
Del resto, come rilevò a suo tempo Luzi, lo stesso Mallarmé
come traduttore di Edgar Allan Poe aveva rinunciato volutamente
a tutte le possibili equivalenze formali scegliendo di concentrarsi
e soffermarsi nella ricerca di profondità lessicali che
rimandassero alla magia del linguaggio del poeta americano.
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“Mallarmé che sfida” Articolo di Mario Luzi pubblicato su “Il Messaggero” del 24 giugno
1994
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Solo dagli anni Ottanta in poi, in tempi quindi più recenti, la
tentazione della traduzione si è fatta, per sua stessa ammissione,
più forte, più urgente: quando cioè il sistema espressivo di Luzi
ha sentito il bisogno di un nuovo assetto fondato sulla
costruzione dall’interno dello spazio lirico, nel quale le singole
parole, i plessi fraseologici, i ritmi si facessero valere in contrasto
(e dunque proprio per questo in collaborazione) con il silenzio.
Costruendo insomma nella ricerca di forma o, se si vuole,
costruendo la propria forma nell’atto di ricercarla. Una
decostruzione costruttiva del linguaggio che rinvigoriva il
desiderio di parola.
Questo era il suo stato d’animo, il suo intento in corrispondenza
della composizione di “Per il battesimo dei nostri frammenti”. In
quel periodo, infatti, a Luzi venne voglia di cimentarsi con la
traduzione di diversi sonetti di Mallarmé, un’impresa appunto
paradossale in apparenza “e contraria” si potrebbe dire.
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Ma il dinamismo del procedere lo avevano messo a contatto nella
lettura con i gangli del testo, che in seguito si erano acquietati
nell’unità lapidaria e funerea del testo perfetto.
Decostruire, dunque, dalle viscere, dall’interno il testo
mallarmeano è stato il ludus che si è concesso Luzi,
mallarmeanamente a sua volta, se si vuole dare credito all’ultimo
approdo del Coup de Dés che tende a cristallizzare il movimento
interno del pensiero.
Nella traduzione di Mallarmé, e soprattutto nel suo approccio ad
essa, per ammissione dello stesso Luzi
4
, non si tratta di prendere
a paragone il blocco inattaccabile dell’unità dei Sonnets, raccolta
che per altro Luzi affermava di aver letto fin dalla prima gioventù
con molto interesse, in particolare per i problemi del linguaggio,
non solo espressivi ma anche ontologici.
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“Mallarmé che sfida” Articolo di Mario Luzi pubblicato su “Il Messaggero” del 24
giugno 1991