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Appare, allora, estremamente significativa l’affermazione heideggeriana secondo la quale «tutto sta
nel cammino» ed è, in base ad esso, che il pensiero decide della sua stessa possibilità:
Tutto sta nel cammino. Ciò significa due cose. Da un lato, che tutto dipende dal cammino, e cioè dal fatto di trovarlo
e di restare su di esso, vale a dire dal sapersi mantenere “in cammino”. I cammini del pensiero della localizzazione
hanno di caratteristico il fatto che, mantenendoci in cammino su di essi, siamo più vicini al luogo di quando ci mettiamo
in testa di esservi giunti per insediarci in esso; il luogo, infatti, è essenzialmente diverso da un sito o da un posto nello
spazio. Ciò che noi chiamiamo luogo […] è ciò che raccoglie in sé l’essenziale (das Wesende) di una cosa.
Tutto sta nel cammino – significa dall’altro lato: tutto ciò che bisogna scorgere si mostra sempre e soltanto cammin
facendo
2
.
È evidente come, rispetto a tutto ciò, la questione del movimento risulti del tutto sui generis, poiché,
per essa, sembra verificarsi una situazione davvero speciale: se, infatti, normalmente, agli occhi di
Heidegger, il luogo non è mai un semplice posto nello spazio o un sito da raggiungere ed indica,
piuttosto, ciò che raccoglie l’essenziale di un certo tema posto in questione, rispetto al quale il
pensiero si mantiene in cammino, invece, il caso specifico del movimento, e il suo assurgere come
tema da pensare, appare generare una peculiare circolarità tra pensiero e “oggetto” da pensare, tra
cammino e luogo, dal momento che nel dispiegarsi del cammino di pensiero, come localizzazione
della tesi del movimento, quest’ultimo sembra, in realtà, inequivocabilmente già in atto, prima
ancora di essere posto a tema. Infatti, è come se il movimento governasse dall’interno del cammino
stesso del pensiero il farsi luogo della raccolta essenziale del suo senso, essendo – indirettamente –
già presente nell’opera di raccolta che precede la stessa possibilità, per qualsiasi questione, di aver
luogo e trovar spazio come oggetto di ricerca.
Per quanto riguarda, dunque, il caso particolare, offerto dal pensiero del movimento, ossia dal
cammino del suo stesso farsi luogo, si è cercato di lasciar emergere la questione della Bewegung
dall’interno del movimento del suo stesso questionarsi nelle riflessioni di Heidegger, consegnando
così al domandare l’onere e il privilegio di fornire l’attestazione del movimento d’apparizione del
movimento stesso, affinché si dia sempre un “chi” non ignarus rerum. L’aver cura di questa
attestazione coincide, infatti, in Heidegger, con il tradizionale aver a che fare o trattare un
argomento: solo in questo senso il movimento è in gioco, può essere chiamato in causa e portato
alla presenza, mai come un oggetto qualunque d’analisi e sempre come il caso più eclatante di un
pensare che, prendendo forma dal cammino stesso del suo dipanarsi, offre e presenta un marcato
carattere cinetico, prima ancora che il movimento stesso venga tematizzato come argomento di
analisi.
In questo senso, Heidegger può affermare che «ciò che va scorto sta nel cammino», ossia che esso,
ogni volta, si raccoglie, localizzandosi come questione e che solo, in un secondo tempo, può
arrivare perfino a fissarsi, se non preservato nella dinamica essenziale del suo stesso sorgere, nei
termini di un problema, ovvero di uno scoglio gettato davanti – pro-b£llw –, a sbarrare il libero
corso – lineare – del conoscere.
Giungere sul cammino della «localizzazione» (Erörterung) del tema del movimento significa,
invece, mantenersi nel cammino, evitando di fronteggiare il tema d’analisi prescelto, ponendolo
davanti al pari di un oggetto, e predisporsi, piuttosto, al «passo indietro» in direzione della sua
provenienza essenziale, ossia prepararsi ad aprire lo spazio funzionale al compimento del salto
(Sprung) in direzione del luogo, dal quale l’essenza stessa del movimento parla – lÒgoj –, come
movimento di raccolta del proprio sé.
Heidegger insiste, più volte, sul fatto che l’abbandono di un conoscere problematizzante in vista di
un pensiero della localizzazione, non possa assolutamente prender corpo nella forma di un
«passaggio graduale», ma che, piuttosto, si presenti come un salto in grado di attraversare, quasi
«fosse una fiamma», il tema scorto lungo il cammino, risalendo all’indietro verso la scintilla
2
M. HEIDEGGER, Der Satz vom Grund (1955-56), Gesamtausgabe Bd. 10, hrsg. von P. Jaeger, V. Klostermann,
Frankfurt a. M. 1997; ed. it. a cura di F. Volpi, Il principio di ragione, Adelphi, Milano 1991, pag. 107.
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originaria del suo stesso provenire essenziale. Solo questo salto, la sua preparazione ed il suo
compimento appaiono in grado di riattivare la ricchezza inesauribile di una questione, quale è,
appunto, quella della Bewegung, sottesa con latente continuità in tutto il domandare heideggeriano.
Non perdere mai di vista l’estensione del cammino ed il movimento localizzante del suo stesso
dipanarsi, vuol dire dar spazio alla possibilità di compiere il salto da un ambito all’altro del pensare.
Ancora una volta, a chiarire come, riguardo a questo salto, non si tratti di un semplice passaggio
graduale, implicante l’abbandono di un posto determinato, in direzione di un altro possibile da
occupare, è proprio la valenza specifica assegnata, da Heidegger, al concetto di luogo e l’essenziale
irrisolvibilità di questo concetto nei termini di un mero posto in cui stare o da raggiungere, mediante
un’azione di oltrepassamento.
Il salto è ogni volta un balzare via (Absprung). Ciò da cui il salto del pensiero balza via non viene, in tale salto,
abbandonato; al contrario, soltanto a partire dal salto l’ambito da cui spiccare il balzo (Absprungbereich) risulta
individuabile, e in un modo diverso che in precedenza. Il salto del pensiero non lascia dietro di sé ciò da cui esso balza
via, ma, anzi, se ne appropria in modo originario. Da questo punto di vista, il pensiero, nel salto, diviene pensiero
rammemorante (Andenken), non di qualcosa che è genericamente “passato” (Vergangenes), ma del “già stato” nel senso
più proprio (das Gewesene). Intendiamo con questo la raccolta di ciò che, per l’appunto, non passa, ma è per essenza
(west), e cioè perdura (währt), concedendo (gewährt) visioni nuove al pensiero rammemorante. In ogni “già stato” si
cela un concedere i cui tesori spesso rimangono per lungo tempo sottoterra, ricchezze che tuttavia pongono sempre di
nuovo il pensiero rammemorante di fronte a una fonte inesauribile
3
.
La fonte inesauribile del tema del movimento potrà, dunque, offrirsi nuovamente, come tesoro
riscoperto, soltanto se il «già stato», ottenuto dalla sua definizione tradizionale, non verrà più
considerato come un patrimonio proprio del passato e come un possesso, dall’acquisizione
indiscussa, ma verrà inteso, dal pensiero rammemorante, come qualcosa che perdura nella
inesauribilità del raccogliersi essenziale della sua essenza. Dal momento che questo raccogliersi
essenziale appare chiamare in causa, fin dall’inizio, una questione del movimento, prima ancora che
esso assurga a tema della ricerca, è evidente che il caso, offerto da una tematizzazione esplicita e
diretta della Bewegung, risulta particolarmente significativo ed emblematico, rispetto alla
possibilità, sempre valida per qualsiasi altro concetto, tratto dall’arsenale della tradizione
conoscitiva, di venir ri-chiamato in causa dall’interrogare a partire dall’«ambito» (Bereich) della
sua stessa provenienza.
È evidente che con l’idea di «ambito» (Bereich) e di «ambito da cui spiccare il balzo»
(Absprungbereich), il concetto moderno di “luogo” subisca una radicale trasformazione, perdendo
la possibilità di venir identificato semplicemente con un posto, indifferentemente occupabile,
abbandonabile o raggiungibile.
Più volte Heidegger insiste sullo scarto esistente tra la nozione di luogo, imperante a partire dal
pensiero moderno, e sulla trasformazione che tale concetto ha subito rispetto all’ontologia greca. Il
passo indietro in direzione della provenienza essenziale del luogo, quale tema privilegiato di
ricerca, implica, innanzitutto, l’abbandono dell’idea moderna e contemporanea di un luogo inteso
come stazione di sosta del movimento o come punto da raggiungere alla fine di un processo e,
soprattutto, comporta la necessità di far ritorno a quella concezione del luogo, inscindibile dalla
cosa in esso contenuta, quale è, appunto, quella delineata, nella Fisica, da Aristotele. Questo ritorno
non è, per Heidegger, una mera ripetizione delle problematiche aristoteliche, ma rappresenta la
possibilità di dare nuova vita alla potenzialità, in esse, nascosta, attraverso un processo di
radicalizzazione di quella domanda che ne ha aperto originariamente la manifestatività.
Nello scarto tra l’idea moderna del luogo e la concezione aristotelica di esso, la questione del
movimento trova la propria peculiare possibilità di farsi spazio, all’interno del domandare
heideggeriano, per riaffiorare con tutto il peso della profondità della sua incidenza.
3
M. HEIDEGGER, Der Satz vom Grund (1955-56), Gesamtausgabe Bd. 10, hrsg. von P. Jaeger, V. Klostermann,
Frankfurt a. M. 1997; ed. it. a cura di F. Volpi, Il principio di ragione, Adelphi, Milano 1991, pag. 108.
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A questo proposito si rivelano essere estremamente efficaci le parole con le quali Heidegger, in
Introduzione alla Metafisica, corso universitario del 1935, sottolinea l’incompatibilità radicale
esistente tra la visione moderna dell’idea di luogo, intesa come prodotto derivato dall’esasperazione
dell’idea del conoscere rappresentativo, e la concezione di un luogo, mai veramente abbandonabile,
poiché in fondo mai inteso come mero posto da occupare: concezione, questa ultima, sulla quale
sembra necessario che il pensiero torni ad insistere con la forza della sua domanda.
Ciò in cui qualcosa diviene è quello che noi chiamiamo “spazio”. I Greci non hanno alcuna parola per “spazio”. Né si
tratta di un caso. Essi, infatti, non esperiscono ciò che occupa spazio in base all’estensione (extensio), ma in base al
luogo (tÒpoj) inteso come cèra, che non significa né luogo né spazio, ma ciò che risulta occupato da quello che vi si
trova. Il luogo appartiene alla cosa stessa. Le diverse cose hanno ciascuna il proprio luogo
4
.
I Greci, non concependo ancora ciò che occupa spazio in base al carattere della sua estensione, non
possono, evidentemente, neanche esperire il “luogo” come un semplice posto da occupare: esso
appare, piuttosto, individuabile come un tratto costitutivo della cosa stessa, come una sua proprietà
essenziale. Su questa impossibilità di attuare una separazione netta tra luogo e cosa si instaura la
possibilità di lasciar spazio ad una nuova problematizzazione dell’idea stessa del movimento, non
più pensabile, in senso eminente e quasi esclusivo, nei termini di un passaggio da qualcosa a
qualcos’altro.
Se i Greci, infatti, rispetto a noi, esperivano il luogo in tutt’altro senso e, di conseguenza, avevano la
possibilità di aver a che fare con un movimento ancora vicino alla pienezza del suo significato,
compiere il passo indietro rispetto alla radicalità originaria presente nella tradizione ontologica
significa, allora, cercare di pensare ciò che i Greci ancora potevano esperire. Il pensiero della loro
esperienza, così estranea alla impostazione, attualmente data al conoscere, comporta la possibilità di
dare spazio ad una diversa concezione del movimento, attraverso la salvaguardia della polisemia dei
significati, in esso, raccolta.
Proprio in questo senso, in quanto custodito nel suo permanere, il movimento evita di persistere
soltanto come qualcosa di oltrepassato, nel gesto di un conoscere marchiato dalla vuotezza del mero
e progressivo andare oltre, alla ricerca di innumerevoli successi sempre nuovi. Nella rarità possibile
della custodia del suo “già stato”, il raccogliersi essenziale del movimento può, infatti, ancora
offrirsi in concessione al pensiero che sappia rammemorarne, senza estirparla, l’inesauribile valenza
cinetica.
È come se quello che è accaduto rispetto all’esperienza greca dovesse, ora, riguardare anche
l’interpretazione possibile della filosofia heideggeriana. È Heidegger stesso a suggerire,
prospettando il suo cammino all’interno del conoscere, offerto dalla tradizione metafisica, come
operare nei confronti del suo stesso pensiero, inevitabilmente riconducibile, ai nostri occhi, ad un
“passato” filosofico sempre vivo, in quanto “già stato” dalla valenza inesauribile:
Quanto più grande è l’opera di pensiero di un pensatore […] tanto più ricco è ciò che in esso è impensato, vale a dire
ciò che solo ed esclusivamente grazie a tale opera emerge come il non-ancora-pensato. Questo impensato non riguarda
ovviamente qualcosa che un pensatore si è lasciato sfuggire, o che non ha saputo affrontare
5
,
ma è quel residuo fondamentale, quel non tematizzato in modo del tutto esplicito, a causa proprio
della forza della sua presenza dirompente, costante ma sottesa, che assurge a compito, per il
pensiero che si trova a doverne riattivare l’inesauribilità, attraverso la riapertura e la salvaguardia
del suo provenire essenziale. Il movimento, in questo senso, appare offrirsi, all’interno del Denkweg
4
M. HEIDEGGER, Einführung in die Metaphysik (1935), Gesamtausgabe Bd. 40, hrsg. von P. Jaeger, V. Klostermann,
Frankfurt a. M. 1983; tr. it. di G. Masi, Introduzione alla metafisica, prefazione di G. Vattimo, Mursia, Milano 2000,
pag. 76.
5
M. HEIDEGGER, Der Satz vom Grund (1955-56), Gesamtausgabe Bd. 10, hrsg. von P. Jaeger, V. Klostermann,
Frankfurt a. M. 1997; ed. it. a cura di F. Volpi, Il principio di ragione, Adelphi, Milano 1991, pag. 125.
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heideggeriano, proprio come fonte inesauribile, come tesoro rimasto per lungo tempo sottoterra e
come ricchezza sempre nuova.
Sulla base di queste considerazioni, il compito di questo lavoro di ricerca vuole essere, dunque,
quello di offrire un piccolo percorso dei momenti nei quali, in modo più saliente, la questione della
Bewegung sembra occupare il pensiero di Heidegger e permanere sottesa nella sua profonda
incisività, procedendo in questo cammino, nella consapevolezza che, comunque, il tema del
movimento, risulta essere, all’interno del Denkweg heideggeriano, un problema dalla radicalità
inesauribile, destinato a non poter essere del tutto compreso nella sua interezza, proprio per la sua
presenza decisiva in ogni singolo momento del domandare e per il suo essere, in fondo, un tratto
costitutivo del domandare stesso.
Alla luce della radicalità di tale questione, si è deciso di articolare il presente lavoro di ricerca in
quattro capitoli principali, con l’intento di favorire la messa a fuoco del dipanarsi di questo tema
lungo l’arco dell’intera stagione del pensiero heideggeriano e di mettere in evidenza alcuni dei
momenti di massima visibilità di questa questione, al fine di riattivarne la raccolta essenziale di
senso, proprio dall’interno stesso del domandare, nel quale, prima ancora di essere posta a tema,
sembra già apparire in modo originario.
Il Capitolo Primo, intitolato Il primo sorgere: le Interpretazioni fenomenologiche di Aristotele,
analizza, in particolare, la centralità del movimento all’interno del seminario friburghese tenuto da
Heidegger nell’inverno del 1921-1922 ed intitolato Phänomenologische Interpretationen zu
Aristoteles. Einführung in die phänomenologische Forschung.
Non solo in questo lavoro il movimento è posto a tema, ma diviene l’unica possibilità di interpretare
fenomenologicamente il vivere effettivo, nella costante coimplicazione reciproca che coinvolge, da
un lato, la «vita effettiva» (faktische Leben), bisognosa di essere esibita e, dall’altro, l’esibire stesso,
quale articolazione determinata di tale effettività.
Per la prima volta, Heidegger, in questo lavoro del 1921-1922, tematizza, in tutta la sua centralità, il
problema della Bewegung, relandolo strettamente alla κίνησις aristotelica, con l’intento di offrire
un’autentica descrizione del vivere effettivo, compreso mediante un’ermeneutica che sceglie di
impiegare un linguaggio “indicativo-formale”, al fine di custodire l’apertura di senso dell’
“oggetto” vita, posto a tema e non obiettivabile per costituzione.
L’intero seminario vede l’intrecciarsi di due piani fondamentali: uno linguistico, legato alla
possibilità di un’interpretazione autentica della vita effettiva ed uno ontologico, riguardante la
natura sui generis del vivere, mai riducibile ad un semplice oggetto d’analisi. Rispetto alla duplicità
di questi due piani interpretativi, peraltro sempre indissolubilmente legati, la Bewegung svolge il
ruolo di concetto-chiave per comprendere sia l’originalità dell’interpretare heideggeriano, messo in
atto attraverso il definire indicativo-formale dell’ermeneutica fenomenologica, sia il carattere del
tutto speciale dell’oggetto-vita. La vita, intesa nella sua effettività, non può mai essere considerata
come un ente staticamente già presente.
Tenendo conto dell’obiettivo heideggeriano di individuare un movimento che costituisca
un’autentica mobilità della vita, in cui e attraverso cui la vita è, e in base a cui perciò essa può
essere determinata nel suo senso d’essere in una forma o in un’altra, si è cercato, il più possibile,
proprio attraverso la messa a fuoco della nozione di Bewegung, di preservare il legame radicale
esistente tra l’interpretazione ed il proprio oggetto, nella misura in cui ad essere tematizzato è il
vivere effettivo ma, d’altra parte, l’ermeneutica che pone la domanda, non è altro che una
articolazione determinata della stessa effettività.
Sulla base di tali considerazioni, il Capitolo Primo affronta le due questioni centrali del seminario
heideggeriano del 1921-1922, ovvero l’interpretare ed il vivere, rispettivamente alla luce del
movimento, mettendo in evidenza come sia proprio la natura cinetica di entrambi ad offrire la
possibilità di un’irriducibile “con-fusione” tra il soggetto e l’oggetto d’analisi, impedendo una loro
netta distinzione. Seguendo, dunque, queste due direttive principali, ossia, da un lato, il nesso
esistente tra la κίνησις ed il vivere e, dall’altro, quello tra la κίνησις e il linguaggio, si è cercato di
9
offrire un “attraversamento” del testo heideggeriano, lasciando emergere, il più possibile, la
centralità che, in esso, occupa la questione della Bewegung.
In alcuni casi è sembrato vantaggioso avvalersi anche di riferimenti relativi al concetto di
movimento ed alla sua trasformazione nella µάθησις della scienza moderna, contenuti nel seminario
del 1935-1936, intitolato Die Frage nach dem Ding, anche alla luce della possibilità di inserire
alcune considerazioni heideggeriane sulla Bewegung all’interno del dibattito epistemologico a lui
contemporaneo, con particolari riferimenti alla fisica quantistica, soprattutto grazie agli articoli di
Paul-Antoine Miquel e David Webb.
Per quanto riguarda, inoltre, le Interpretazioni fenomenologiche di Aristotele, si è tentato, il più
possibile, di mettere in evidenza l’indubbia incidenza aristotelica, in questo seminario, sulla
trattazione heideggeriana della «mobilità» (Bewegtheit), quale tratto essenziale del vivere effettivo,
per la misura della cui eredità importanti suggerimenti sono stati offerti, in particolare, dai lavori
interpretativi di Berti, Volpi, Wieland e Kisiel.
Nel Capitolo Primo, dedicato al sorgere, in modo nitido, all’interno del Denkweg heideggeriano,
della questione della Bewegung, l’analisi compiuta sull’effettività ha individuato, nel vivere, il
“luogo” del primo apparire del problema del movimento e ha messo in evidenza l’impossibilità di
risolvere, come, invece, tenderebbe a fare la scienza moderna, il tema della κίνησις nell’unica forma
della traslazione o spostamento locale: tale paradigma cinetico è apparso, infatti, del tutto
inappropriato in relazione alla possibilità di individuare la mobilità specifica del vivere effettivo e
l’andamento peculiare dell’ermeneutica che, di questo vivere, assume su di sé l’onere di indicare, di
volta in volta, il senso.
La κίνησις è apparsa essere il concetto-chiave, utilizzato da Heidegger, sia per comprendere il
valore «indicativo-formale» del definire fenomenologico, sia per interpretare il carattere sui generis
dell’oggetto vita, posto a tema. Tra l’interpretare ed il vivere non esiste soluzione di continuità: se,
da un lato, è la «vita effettiva» a dover essere esibita, dall’altro, l’esibire stesso è sempre
un’articolazione determinata di tale effettività. Il vivere stesso «diviene» nell’effettività sempre più
radicale dell’interrogare. Con il vivere effettivo è chiamato in causa un movimento, implicante una
forma d’attuazione da intendersi come un modo d’essere reale del possibile, nel quale la dÚnamij è
portata ad esibizione, senza, però, essere risolta. L’esigenza di custodire, nel caso del vivere, una
possibilità, nel movimento stesso della sua realizzazione effettiva, spinge Heidegger a sostituire
quel modello cinetico lineare che intende la κίνησις esclusivamente come traslazione. La fonte di
questo diverso paradigma cinetico, estraneo al conoscere della scienza moderna, è, plausibilmente,
la Fisica aristotelica.
La mobilità autentica del vivere e dell’interpretare è apparsa ricavabile, al negativo, dalle analisi,
compiute da Heidegger, sull’inautenticità, intesa come modalità d’attuazione deformante, scaturita
dalla perdita del proprio sé. Invertendo il senso dei tratti caratterizzanti l’andamento inautentico del
vivere, è stato possibile ricavare, per la vita effettiva autenticamente rivolta verso sé, una mobilità
intransitiva, autotelica ed unitaria, in grado di costituirsi in quanto custodia di un modo di essere
reale del possibile. Tra i quattro paradigmi cinetici, distinti da Aristotele, nella Fisica, l’alterazione,
ed in particolare, la alteratio perfectiva, è sembrata presentare una straordinaria vicinanza con la
mobilità autentica del vivere effettivo, in quanto non identificabile come passaggio dal possibile al
reale, ma come modo peculiare di esser reale del possibile stesso. Non disorientata dal meccanismo
ingabbiante della deiezione, la potenzialità vitale è apparsa riconducibile alla modifica qualitativa di
ciò che la vita sempre già è.
Il Capitolo Secondo, intitolato Vita e Dasein, si propone di questionare, sotto l’egida della
Bewegung, il tema del “passaggio”, all’interno del Denkweg heideggeriano, dalla centralità del
vivere effettivo all’esistere, inteso come Dasein. A proposito di tale questione, la messa in evidenza
della κίνησις, quale tratto determinante il vivere, rispetto a cui il Dasein sembra costituire una più
profonda radicalizzazione, ha permesso di sottolineare l’impossibilità di intendere la vita e il Dasein
come due termini perfettamente sovrapponibili, coincidenti ed interscambiabili.