2
retribuito di quello del contadino, ma ugualmente subalterno; inoltre deve
affrontare la crisi delle lotte sindacali e la distruzione della coscienza di
classe. Infatti il maggiore benessere raggiunto si accompagna subito a
nuovi modelli piccolo-borghesi, che cancellano le speranze nell’Unione
Sovietica (travolte peraltro dai fatti di Ungheria) generando sfiducia nella
politica e abbandono della militanza, cui si contrappongono fuochi di
rabbia accesi da nostalgie resistenziali e dall’insofferenza per un sistema
produttivo sempre più spersonalizzante. L’intellettuale vive uno
sradicamento continuo: fa parte di un meccanismo che non lo
rappresenta, è lontano dal luogo di origine e non può familiarizzare con
l’operaio, al quale è accomunato dalla situazione reale. Bianciardi è
esattamente in questa condizione come dice lui stesso in una lettera
all’amico Galardino Rabiti: «Sempre esilio è questo mio a Milano. Chissà
se riuscirò a trovare la strada di Itaca, un giorno? Con Grosseto ho un
debito enorme, e prima o poi dovrei pagarlo, non ti pare? […] Le formiche
milanesi continuano a scarpinare, mosse da una furia calvinista per il
lavoro e per la grana, e io non riesco proprio a capirle, mi sento infedele e
terrone, anche se lavoro più di tutti»2. Bianciardi si trova in mezzo a due
figure, l’operaio e l’intellettuale, vivendone i drammi più dolorosi: non
sente l’adesione morale e psicologica al suo lavoro (come fa l’intellettuale
impegnato) e allo stesso tempo non ha la possibilità di esserne
veramente alienato, come l’operaio. Trovandosi di fronte a questa
situazione insanabile una volta giunto nella grande città, decide di
2
M. C. Angelini, Luciano Bianciardi, Firenze, La Nuova Italia, 1980,cit. p.10.
3
spostare lo sguardo sul consumatore, nuova categoria di cittadini, operai
ma non solo, non necessariamente. Un nuovo macroinsieme che
democraticamente distrugge e rimescola le classi sulla base dei bisogni.
Bianciardi scaglia i suoi strali contro la nuova società, quella società che
oggi definiamo liquida, resa dalla comunicazione pubblicitaria dei
consumi, contro la nuova industria culturale e tutte le altre industrie che
lavorano l’acciaio e l’anima. Nel 1952 su Belfagor aveva scritto: «Ho
scelto di star dalla parte dei badilanti e dei minatori della mia terra, quelli
che lavorano nell’acqua gelida con le gambe succhiate dalle
sanguisughe, quelli che cento, duecento metri sotto terra, consumano
giorno a giorno i polmoni respirando polvere di silicio».3 Due anni dopo,
con l’arrivo a Milano, entra in contatto con un altro tipo di lavoro salariato,
quello dell’industria, meno legato alla terra ma non meno duro e
spersonalizzante. Per di più la vita in città non ha più quella socialità che
la provincia ancora mantiene e della quale lo scrittore sente la mancanza;
una mancanza acuita dalla sensazione di tradimento, con tanto di fuga
all’alba senza una spiegazione, da egli stesso commesso. In veste di
intellettuale, Bianciardi è spiazzato dalla nuova realtà che si trova ad
affrontare: credeva di trovare un terreno fertile per nuove idee, invece
deve affrontare la realtà della produzione quale unico ideale. Come
traduttore viene pagato un tanto a cartella, lavoro che deve fare per poter
pagare i conti della modernità. Solo la domenica può essere dedicata alla
stesura dei suoi libri. Di fronte a tutto questo Bianciardi reagisce, non si
3
Nascita di uomini democratici, in «Belfagor», Firenze,VII, 4, 31 luglio 1952;
ora in L’antimeridiano, Opere complete, Volume secondo, Milano, Isbn, 2008, cit. p. 377.
4
ritira, da intellettuale, nei salotti a parlare di cultura ma resta nel suo di
salotto a guardare la televisione, a studiare la pubblicità, a cogliere
insomma tutti quegli aspetti del degrado moderno che stanno
trasformando gli individui in consumatori, in spettatori della vita. Osserva
e mette alla berlina anche gli operatori di quella immensa truffa che si
rivela essere la “Grande impresa” per la quale era giunto a Milano;
mostra per la prima volta ciò che si cela dietro alla produzione (termine
non casuale) di un libro, che non ha niente a che vedere con la cultura.
«Ripensarlo oggi fa impressione, non ci sono più degli arrabbiati così veri,
che si incazzano perché non sopportano il suono falso delle parole. Che
non sopportano certi atteggiamenti di piccolo carrierismo, quello che sta
sempre attaccato al capo, fa l’amicone, ma solo con chi conta, quello che
appena può, parla male degli altri. Bè, lui li mandava a cagare, anziché
ignorarli, li sfotteva e poi proprio li mandava a cagare»4: questo il ricordo
di Carlo Ripa di Meana, al quale Bianciardi ha dedicato La Vita Agra.
Necessario ricordare il gusto, dello scrittore toscano, di deridere i piccoli
personaggi della commedia umana. Allora mi sembra importante
dedicare una tesi di laurea specialistica ad un autore ma ancor prima ad
un osservatore e ad un precursore dei tempi come Luciano Bianciardi, un
uomo che ha dedicato la sua intera opera alla demistificazione e alla
sovversione di quei finti valori che tengono imprigionati gli esseri umani.
Un cammino senza mai un passo indietro, fino alla fine, giunto alle
estreme conseguenze morali con la richiesta di occupare le banche,
4
Pino Corrias, Vita agra di un anarchico, cit. p. 150.
5
chiudere tv e scuole, e fisiche con l’autodistruzione attraverso l’alcool. Ed
è proprio su questo punto che la critica, peraltro sempre disattenta,
sempre sbrigativa nei suoi confronti, ha fatto leva per commettere l’errore
più grande e imperdonabile: derubricare la produzione degli ultimi anni, in
particolare quella giornalistica, a vaneggiamento di un uomo malato;
Bianciardi era sì un uomo piagato nel fisico dalla propria sensazione di
inadeguatezza, di sconfitta di fronte ad una società che puntava al
naufragio, ma restava una mente lucida e arguta, innovativa. Gli ultimi
scritti denotano certamente una ripetitività negli argomenti, frutto anche
del fatto che Bianciardi scrisse ovunque sempre ossessionato dalla paura
della povertà, in quanto quegli argomenti erano importanti per lui. Proprio
per questo motivo mi sembra doveroso dare spazio oltre che alla
produzione di articoli ed elzeviri, all’ultimo romanzo uscito in vita: Le
cinque giornate, conosciuto anche col titolo Aprire il fuoco. In fondo, come
ricorda Lando Buzzanca, interprete de Il merlo maschio, film tratto dal
racconto Il complesso di Loth, «Non riusciva a dormire, parlava, beveva,
aveva bisogno che qualcuno lo ascoltasse»5, ecco ancora oggi Bianciardi
ha bisogno che qualcuno lo ascolti, noi abbiamo bisogno di ascoltarlo, io
credo che qualcuno avrebbe dovuto ascoltarlo tempo fa.
5
Pino Corrias, Vita agra di un anarchico, cit. p. 30.
6
NOTIZIE SULL’AUTORE
Luciano Bianciardi nasce a Grosseto il 14 dicembre 1922, da Adele Guidi,
insegnante elementare, e Atide, cassiere nella locale Banca Toscana. Fin
dai primissimi anni la madre pretende da lui eccellenza negli studi («io
sono stato suo alunno, prima che figlio, per la bellezza di trentadue anni.
È come avere una “maestra a vita”, e le maestre a vita non sono
comode»1) mentre il padre stabilisce con lui un rapporto di parità e
amicizia. Nel tempo libero, Luciano studia il violoncello e le lingue
straniere. Lettore accanito, all’età di otto anni riceve in regalo da Atide il
libro che amerà di più in assoluto, I Mille di Giuseppe Bandi, la storia della
spedizione di Garibaldi raccontata da un garibaldino. Tale libro suscita
l’interesse e l’amore, che Bianciardi coltiverà per tutta la vita, per il
Risorgimento. Compie gli studi a Grosseto, frequenta il Ginnasio e poi il
Liceo Classico Carducci-Ricasoli senza grosse soddisfazioni personali; i
ricordi di quegli anni sono sempre poco sereni. Dopo la promozione alla
terza liceo, decide di dare l’esame di maturità in quello stesso anno e lo
supera nella sessione autunnale. In novembre, non ancora diciottenne, si
iscrive all’Università di Pisa, Facoltà di Lettere e Filosofia; frequenta le
1
Luciano Bianciardi, L’antimeridiano, Opere Complete Volume Primo, Milano, Isbn, 2005, cit. p.
XXXIX.
7
lezioni di Aldo Capitini, Guido Calogero e Luigi Russo. Conosce in quegli
anni la dottrina liberalsocialista, che abbraccia senza grosse
manifestazioni esteriori. Alla fine di gennaio del 1943 viene chiamato alle
armi: dopo un breve periodo di addestramento come allievo ufficiale,
parte per la Puglia, dove il 22 luglio assiste al bombardamento di Foggia.
Bianciardi rimane segnato da questa esperienza e forte appare la
delusione nei confronti degli ideali propugnati dalle gerarchie militari:
parole come coraggio, Patria e Sovrano nascondono secondo il giovane
Luciano la realtà dei fatti, di una nazione allo sbando totale. Dopo l’otto
settembre, si aggrega ad un reparto di soldati inglesi, la 508.va
compagnia nebbiogeni, in qualità di interprete, e si trasferisce a Forlì;
infine torna a casa, a Grosseto. Nel novembre dello stesso anno riprende
gli studi universitari alla Scuola Normale di Pisa, alla quale viene
ammesso in seguito ad un concorso bandito per i reduci. Nel frattempo si
iscrive al partito d’azione: «Io mi ero iscritto – c’è bisogno di dirlo? – al
Partito d’Azione, il quale partito non è facile ora dire cosa sia stato, anche
perché fu molte, troppe cose. Mi pare però di poter dire che fu un altro
tentativo di governo (l’ultimo?) della piccola borghesia intellettuale. Cadde
per le contraddizioni interne e per l’incapacità ormai accertata del nostro
ceto, privo di contatti con gli strati operai e quindi largamente disposto a
tutti gli sterili intellettualismi ed alla costruzione gratuita di problemi
astratti»2. Nel 1947, quando il partito si scioglie, Bianciardi, prova una
2
Luciano Bianciardi, L’antimeridiano, cit. p. XLI.