CAPITOLO UNO
TRADUZIONE E AUTOTRADUZIONE
1.1 Teoria della traduzione
Molto spesso, a cominciare dal gioco di parole «traduttore, traditore» fino alle
teorie semiotiche di Umberto Eco, si sono associati i termini tradurre e tradire; il
prefisso derivazionale allomorfo “trans” compare in entrambi, nel primo caso
associato al verbo latino “ducere”, nel secondo a “dire”. Allo stesso modo si
comporta la lingua russa, la quale, sebbene non costruisca un’associazione
assonantica tra i due significanti sopracitati, utilizza nel lemma perevod il prefisso
direzionale pere- ed il verbo vesti. Il concetto del passaggio, dell’accompagnamento,
della ricodifica dell’invariante di un prototesto (o testo di origine) in un metatesto (o
testo di arrivo), una variante rispondente ad altra lingua, stile e cultura, è riassunto
nel significante del termine stesso traduzione (perevod).
Nel processo traduttivo, essendo impossibile realizzare il prototesto alla lettera,
vige il principio di corrispondenza, o modellizzazione logopoietica; pertanto, le
varianti in una stessa lingua possono essere molteplici (si parla di ripetitività della
traduzione), a seconda delle scelte operate dall’autore del metatesto. Questi può
attenersi più fedelmente all’autore o al destinatario (Nida 1964: 165). In particolare
nel caso di due culture profondamente distanti, oppure in conseguenza di un certo
scarto temporale, sarà compito del traduttore riuscire a comunicare temi, realia,
coloriti storici e locali; Popovič definisce «creolizzazione» il mescolamento
inevitabile che risulta dallo scontro tra la cultura d’origine e quella d’arrivo (Popovič
2006: 129).
Ulrych insiste poi sul principio di equivalenza, o in termini jakobsoniani
sull’«equivalenza nella differenza» (Jakobson 2002: 58), sostenendo che «una
traduzione sarà adeguata se semanticamente e pragmaticamente equivalente al suo
originale, vale a dire se costituirà l'approssimazione più vicina possibile al significato
e all'uso del testo di partenza» (Ulrych 1997: 3). Il traduttore per realizzare quindi un
prototesto in una variante ottimale deve riuscire a ricreare l’invariante dell’originale,
mantenendo la condensazione semantica e le funzioni, ed andando a modificare
elementi unicamente nel campo della forma e dei mezzi espressivi.
1.2 L’autotraduzione
Nel caso però in cui il traduttore corrisponda all’autore stesso del prototesto,
spesso questi «si sentirà giustificato ad introdurre modifiche nel testo, dove, al
1
contrario, un traduttore “ordinario” potrebbe esitare a farlo»
1
(Koller 1992: 197),
facendo risultare molto più labili, se non addirittura cancellando, i confini tra
traduzione e rielaborazione autoriale. L’autotraduzione «infrange l'irrepetibilità, la
chiusura, l'unicità, l'individualità della comunicazione linguistica originale» (Popovič
2006: 41), e tale relazione modellizzante la fa escludere da molti studiosi come
variante del prototesto.
Grutman, al contrario, definendo il termine “Autotranslation” nella Routledge
Encyclopedia of Translation Studies (Grutman 1998: 17-20), sostiene la necessità di
studiare più approfonditamente l’opera degli autori bilingui che hanno tradotto le
proprie opere, ed opta per definire l’originale e l’autotraduzione, non prototesto e
metatesto, ma versioni o varianti, dando quindi uguale importanza ai due testi.
Nell’analisi che propone, sottolinea i vari punti su cui ritiene necessario soffermarsi
nel trattare autotraduzioni: considerare se la pratica nel determinato autore è
sistematica o si tratta piuttosto di un evento sporadico, se il target è sempre lo stesso
o variabile, se l’originale viene scritto nella lingua madre o viceversa, se alle due
lingue corrispondono due tipi di testi e stili, quando è iniziata la pratica di
autotraduzione, se è proceduta parallelamente alla stesura di nuovi testi, a cosa è
dovuta la scelta di tradurre le opere precedenti (se ad insoddisfazione, esilio,
necessità economiche o ad altri fattori).
Base per l’autotraduzione è sicuramente il bilinguismo, fenomeno da sempre
presente anche nella letteratura, dagli scrittori classici ad oggi, che è andato in
diminuire con la creazione degli stati-nazione (Hokenson, Munson 2007: I). Il
bilingue ha accesso ad una maggiore varietà di mezzi espressivi rispetto al
monolingue e, come osserva Beaujour, gli scrittori che maneggiano più lingue
lamentano spesso «the sensation that there is a space between the languages that they
master, […] that there is a physical distance between thought and expression, that
there is meaning somewhere beyond the words that formulate it in either language»
(Beaujour 1984: 61). Per tale motivo spesso i bilingui sono instancabili «technicians»
(Kellman 2000: 10) della lingua, in costante ricerca del mezzo espressivo più adatto:
«Not only must [they], like all writers, produce the "best words in the best order",
[they are] often tempted by possibilities from a competing system, [their] to use if
[they] but would» (Beaujour 1984: 62).
Nell’autotraduzione, la ricerca linguistica dello scrittore bilingue si indirizza
verso connotazioni il più possibile identiche nella lingua di provenienza ed in quella
di arrivo ed essendo ciò difficilmente realizzabile, il testo tradotto si rivelerà spesso
profondamente dissimile.
Se l’uso della lingua nativa rende in alcuni casi la scrittura quasi automatica e
1 In tutti i casi ove non sia diversamente indicato, la traduzione è mia.
2
la ripetizione di parole familiari ne neutralizza la portata semantica, «a foreign
language does not permit the writer, or the reader, to take any phrase for granted. [...]
Obliged to concentrate word-by-word on what they put on paper, they also force the
reader to be attentive to the vapidness of so much of our verbiage» (Kellman 2000:
29-30). Gli scrittori bilingui portano all’estremo il concetto formalista di ostranenie,
così definito da Viktor Šklovskij in L'arte come artificio (Iskusstvo kak priëm):
«прием затрудненной формы, увеличивающий трудность и долготу восприятия,
так как воспринимательный процесс в искусстве самоцелен и должен быть
продлен; искусство есть способ пережить деланье вещи, а сделанное в
искусстве не важно»
2
(Šklovskij 1917). Questa ostranenie di cui parla il linguista
russo non può che essere espressa in ambito letterario attraverso la forma,
l’involucro, ovvero lo stile. Il bilingue ha la possibilità di esprimersi non solo in più
lingue e con diversi mezzi espressivi, ma può anche padroneggiare più stili,
ricodificando se stesso in molteplici maniere, tanto che Kellman parla di «invention
of a new Self» (Kellman 2000: 20) e Green di «multiple selves» (Green 1987: 182).
Nabokov ammetteva in un’intervista a Vogue nel 1969: «The best part of a writer's
biography is not the record of his adventures but the story of his style» (Talmey
1969).
Infine, il bilingue, essendo a contatto con due (o più) diverse culture e
rimanendo a entrambe legato attivamente,
cannot be reduced to a single cultural identity, but thrives in the middle region of overlaps.
Writing from the midzone, the bilingual self-translator does not just bridge the gaps within
cultures but combines them as a single subject living bilingually, and writes both languages
with one hand (Hokenson, Munson 2007: 165).
Anthony Pym definisce per tale motivo la cultura dell’autotraduttore come
«sociolinguistic interculture» (Pym 1998: 181).
1.3 Scrittori bilingui
Fin dall’antichità la letteratura ha visto protagonisti autori operanti in diverse
tradizioni linguistiche, in particolare in epoca medievale e rinascimentale, complice
il prestigio e l’autorità del latino sui vernacoli che venivano formandosi. Con il
diffondersi del Romanticismo, l’idea di nazione ha frenato il fenomeno, che si è
comunque protratto fino ad oggi tra le élite culturali e le classi dirigenti di alcuni
paesi. Il Novecento dal punto di vista storico e letterario ha visto una nuova ondata di
bilinguismo, per lo più “forzato”. Infatti, nei regimi totalitari, l'imposizione di una
2 «L'artificio di una forma complessa, che aumenta la difficoltà e la lunghezza della percezione,
poiché il processo percettivo nell'arte è fine a se stesso e deve essere prolungato; l'arte è un modo per
vivere il divenire delle cose, mentre ciò che è già divenuto non è importante». La citazione è attinta
dalla versione elettronica di Šklovskyj 1917, pubblicata in:
http://www.opojaz.ru/manifests/kakpriem.html (ultima consultazione: 08.05.2014)
3
certa lingua e cultura dominante sulle minoranze assoggettate e l'esilio a cui fu
costretta l' intelligencija, assieme alle guerre, alle migrazioni, al colonialismo, hanno
incentivato il fenomeno, che in ambito letterario si è tradotto nell'estetica modernista:
la sua letteratura di alienazione, di dislocazione geografica e psichica sono diretti
riflessi della frammentata e instabile situazione sociale, storica e politica in cui si
ritrovava l'individuo nella prima metà – e soprattutto all'inizio – del Ventesimo
secolo.
Kellman distingue gli scrittori bilingui in «ambilinguals» e «monolingual
translinguals»: i primi hanno composto opere importanti in più di una lingua (come
Nabokov, di cui si tratterà specificatamente in seguito), i secondi solo in una,
differente da quella madre (come il prodigioso caso di Isaac Asimov, ebreo nato in
Russia che ha composto tutti i suoi 477 libri in inglese) (Kellman 2000: 14). Come
osserva Beaujour però
to choose as an adult to write in a tongue other than the Muttersprache is a fairly frequent
occurrence and does not seem to cause insurmountable difficulties, always supposing
reasonable fluency. But to have once written in a language and then to choose, under
whatever pressures, to contract oneself as a writer to another tongue is an altogether
different matter. If the modern writer gives up writing in the first language (abandons his
first wife), he may feel not only the pangs of infidelity but also a loss of sense of self for
which he must hold only himself morally responsible (Beaujour 1984: 64).
Se la Muttersprache, ovvero la "madre" lingua, viene considerata una "first
wife", derivandone quindi una situazione (a livello teorico) incestuosa, non è un caso
che, come nota Steiner, nell’opera di Nabokov, così legata alla lingua ed al suo uso
mistificatorio che incanta il lettore, ricompaia in maniera incessante l’immagine o il
concetto proprio dell’incesto (Steiner 1999: 139).
Spesso la lingua in cui scrive il bilingue non corrisponde totalmente a quella
standard, ma sembra essere un idioletto, in cui una commistione di elementi tratti da
lingue diverse si configura in una nuova sintesi poliglotta. Inoltre, si registra una
certa tendenza idiosincratica anche nella struttura narrativa delle opere, le quali
spesso difficilmente sono riconducibili ad un unico genere o ad una letteratura
nazionale (Beaujour 1984: 70). Per coloro che si sono costruiti una casa di parole,
vivere in una diversa sfera linguistica, costretti ad una perenne vita in translation, è
particolarmente doloroso: lo scrittore che abbandona la «prima moglie» trova una
certa pace interiore e soddisfazione solo mantenendo vive e attive nella sua opera
entrambe le lingue, almeno sul piano mentale, mediante la creazione di una lingua e
di uno stile proprio idiosincratico.
Il bilingue si trova, oltre che in una posizione interiormente interculturale,
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anche in una socialmente mediatrice, e non deve risultare curioso il fatto che molti
scrittori abbiano operato molto spesso come traduttori. Se però nel tradurre testi
altrui essi si sono rivelati incredibili e fedeli autori di metatesti, «in [the] instances in
which the translator is also the translated, the resulting text often becomes a bold
reconception rather than a humble approximation of the original, [..] an act of
personal reinvention» (Kellman 2000: 33).
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