Capitolo 1
L‟evoluzione del rapporto tra
industria e distribuzione in Italia.
1.1 Industria di marca e distribuzione: dal conflitto alla
collaborazione.
Con il passare degli anni, le logiche relazionali fra l‟industria di marca e le imprese
commerciali hanno subito un graduale ma costante cambiamento, dovuto in parte
all‟evolversi di strutture distributive via via più articolate e in parte al mutamento di
tutte quelle condizioni economiche, ambientali e sociali che avevano permesso la
proliferazione di una serie di comportamenti oggi del tutto anacronistici e superati.
Unitamente a tale evoluzione, occorre sottolineare quanto, nel tempo, si siano andati
ad alterare sia l‟organizzazione interna – nonché il ruolo – degli attori coinvolti, sia
l‟intera struttura del canale distributivo: senza tali rinnovamenti, la distribuzione così
come la conosciamo oggi non sarebbe mai venuta alla luce.
1
Alcuni autori hanno infatti evidenziato quanto, fino al recente passato, le relazioni fra
impresa industriale e insegna fossero caratterizzate da una logica di tipo funzionale, in
cui vigeva una politica industriale di sell in e una concezione di canale come una mera
successione di mercati separati, dove le diverse individualità presenti erano nettamente
distinte e totalmente indipendenti.
In uno scenario come quello appena descritto, gli obiettivi preponderanti dell‟industria
erano rappresentati principalmente dalla creazione di barriere all‟ingresso sul mercato
1
Pellegrini (2001), Bassi e Sacchi (2009) e Fornari (1990).
10
della distribuzione nei confronti delle dirette rivali e dal raggiungimento degli obiettivi
di contribuzione inizialmente prefissati: per il produttore, ottenere il referenziamento
dall‟insegna non richiedeva né rilevanti investimenti specifici né una collaborazione
finalizzata al reciproco scambio di conoscenze e informazioni. Tale squilibrio tra lo
scambio di servizi posto in essere dagli attori e le condizioni negoziate genera però
una situazione discriminatoria in cui, da una parte, l‟industria deve forzatamente
riallineare le condizioni di vendita di quella parte di clientela commerciale penalizzata
dalle peggiori clausole contrattuali, e dall‟altra i retailer vengono spinti verso una
concorrenza orizzontale superiore a quella desiderata. Il risultato ultimo di questo
processo è, inesorabilmente, la perdita di una parte significativa dei profitti potenziali
di entrambi gli attori, così come già evidenziato dagli studi di Varaldo (1971).
1.1.1 L‟evoluzione della distribuzione
La rivoluzione commerciale realizzata negli anni „80 e concretizzatasi con una
generale deregolamentazione del settore a tutto favore della domanda intermedia, ha
però decisamente stravolto il quadro appena delineato, cambiando in modo decisivo i
contenuti negoziali interni ai rapporti industria-distribuzione. Come sostengono anche
Beltramini e Gaeta (1994), sarebbe però miope limitare l‟analisi delle cause che hanno
condotto alla realtà distributiva attuale unicamente alla minore rigidità delle leggi in
materia di distribuzione commerciale, in quanto un contributo decisivo a tale
rinnovamento è stato infatti garantito da una molteplicità di fattori fra loro eterogenei
così come di seguito dettagliato (vedi Figura 1):
- intensificazione della concorrenza industriale internazionale, e il conseguente
incremento della rosa di fornitori a disposizione delle insegne, le quali
possono ora beneficiare dei differenti livelli di efficienza produttiva a livello
mondiale tramite l‟implementazione del global sourcing. Tutto ciò ha quindi
spinto i produttori ad aumentare progressivamente il ritmo di innovazione
tecnologica contenuto nella propria offerta e a garantire condizioni di vendita
allineate;
- diversa filosofia di approvvigionamento della distribuzione, non più
focalizzata sul concetto tradizionale di „acquistare molto per vendere bene‟,
11
bensì propensa ad un orientamento che guardi più al cliente finale e meno al
fornitore, acquistando bene per vendere meglio;
- progressiva concentrazione distributiva, che garantisce alle imprese
commerciali un più rilevante potere contrattuale al momento della
negoziazione con gli attori presenti in filiera;
- creazione di centrali e supercentrali distributive, ulteriore spinta
all‟allineamento delle condizioni di vendita, di cui però parleremo più avanti
all‟interno del capitolo;
- sofisticazione delle esigenze del consumatore finale, non più disposto ad
accettare passivamente i prodotti presenti in punto vendita, ma sempre più
deciso ad affermare i propri bisogni. Questa superiore complessità della
domanda ha spinto l‟industria e la distribuzione a modificare continuamente
la propria offerta secondo le indicazioni della domanda finale e ad innalzare
gli standard di qualità, design e presentazione delle referenze, i cui livelli di
complessità e varietà hanno assunto livelli inimmaginabili sino a qualche
tempo fa;
- introduzione della marca commerciale, la quale ha rafforzato ulteriormente il
potere negoziale dei retailer a sfavore dell‟industria, che da tale mutamento
ha trovato nuove sfide – tra cui, ad esempio, l‟accresciuta concorrenza in
punto vendita – , ma anche opportunità rilevanti come il co-packing;
- passaggio, nei mercati distributivi, da una concorrenza di prezzo e dalla
ricerca smodata di un‟immagine di convenienza ad un confronto basato
principalmente sul servizio commerciale, ossia sulla dimensione prettamente
immateriale dell‟offerta. Questo punto costituisce un controverso oggetto di
studio, poiché da una parte alcuni autori (Beltramini e Gaeta, 1994)
sostengono appunto il sopravvenuto passaggio ad un maggiore interesse nei
confronti del servizio commerciale a discapito della convenienza mentre,
dall‟altra, numerose ricerche svelano il suo ruolo tuttora determinante.
Secondo le ricerche di Han, Wilson e Dant (1993) e di Carr e Pearson (1999),
infatti, esiste una forte interrelazione tra quei retailer che assegnano
un‟importanza strategica alla funzione acquisti e all‟efficienza del processo di
buying – in termini di corretta tempistica e di prezzi adeguati – ed una più
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solida e duratura relazione con l‟industria di marca. Accanto a queste analisi,
Stanko, Bonner e Calantone (2007) dimostrano come ad un elevato
commitment sia spesso legata una assidua ricerca di acquisti soddisfacenti,
efficienti e costanti e, di conseguenza, profitti superiori e ridotti costi relativi
agli ordini di fornitura;
Figura 1: I fattori alla base della trasformazione della distribuzione dagli anni „80 ad oggi.
Fonte: Nostre elaborazioni su varie fonti (Beltramini e Gaeta, 1994; Fornari, 2009).
- esigenze relative agli ordini effettuati e alle consegne degli stessi sempre più
complesse. Come si vedrà anche in seguito, infatti, oggi le necessità di
approvvigionamento del trade si sono fatte via via più mutevoli; nel contesto
attuale non è infatti più sufficiente concordare inizialmente il piano di
consegna annuale dei prodotti al distributore come avveniva in passato sulla
base delle ricerche di mercato effettuate ad inizio esercizio, in quanto i
mutamenti avvenuti all‟interno dello scenario competitivo spingono oggi i
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retailer ad operare in base a nuovi concetti di qualità e tempestività, portando
all‟affermazione dei modelli just in time, il cui obiettivo è far sì che la merce
arrivi in punto vendita esattamente nel momento in cui le scorte presenti a
magazzino stanno per terminare;
- sviluppo costante, da parte delle imprese commerciali, di competenze di
marketing specializzate, prima totalmente assenti nell‟organizzazione
aziendale. La superiore complessità delle esigenze facenti capo ai
consumatori e la presenza di mercati di fornitura sempre più complessi,
distanti e mutevoli hanno portato da una parte alla necessità di saper
comprendere meglio la propria clientela – creando quindi i presupposti per
implementare una adeguata fase di studio che permetta al distributore di
cogliere tutti quegli aspetti territoriali e socioculturali che caratterizzano il
2
mercato obiettivo – , e dall‟altra a sviluppare un „marketing di acquisto‟. A
partire dalla metà degli anni ‟90, la necessità da parte del trade di essere in
grado di cogliere ogni opportunità presente nel mercato di fornitura ha fatto sì
che le imprese commerciali vedessero modificato il ruolo svolto dalla fase di
3
approvvigionamento e che quindi sviluppassero appositi programmi di studio
focalizzati sul mercato (per analizzare le dimensioni delle diverse imprese di
marca, in modo da realizzare previsioni puntuali anche relativamente al
prezzo di acquisto da esse concesso), sui canali (studio delle caratteristiche
generali e delle capacità produttive specifiche), sui prodotti e sulla loro
qualità (al fine di comprendere cosa offre il mercato in relazione agli articoli
selezionati e di valutare le varie opzioni sulla base di precisi criteri), seguendo
però i medesimi principi generali e le logiche di marketing volti a piazzare i
beni sul mercato finale.
Occorre quindi abbandonare il pensiero tradizionale secondo cui i distributori
hanno un mero ruolo logistico; questi ultimi si presentano invece oggi come
valide alternative al rapporto tra industria e cliente finale, sviluppando
politiche di marketing svincolate dai piani industriali.
2
Non solo per approfondire le caratteristiche del territorio e per comprendere le potenzialità di una certa
area geografica, ma anche per capire in modo puntuale e preciso quali tipologie di prodotti inserire e
scaffale, quale prezzo il consumatore è disposto a pagare e in che modo promuovere i prodotti instore e
l‟immagine dell‟insegna.
3
Grazie anche alle tecniche e agli strumenti resi disponibili dall‟evoluzione tecnologica degli ultimi
anni, come ad esempio l‟e-procurement, su cui ci si soffermerà più avanti.
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I benefici che il retailer può trarre da questo tipo di gestione degli acquisti
sono molteplici: riduzione delle scorte e delle rotture di stock (e quindi
migliore servizio offerto al cliente), minor costo di acquisto dei prodotti e
minore spreco di risorse aziendali;
- minor forbice dell‟inflazione (e, quindi, del costo del denaro), fattore che ha
ridotto la convenienza legata all‟indebitamento dei distributori per l‟acquisto
di quantità superiori ai loro reali fabbisogni.
1.1.2 I cambiamenti intervenuti nei rapporti commerciali fra Idm e retailer
Fornari (2009) sostiene che questa combinazione di fattori, che ha portato ad un
bilanciamento dei poteri negoziali degli attori presenti nella filiera, ha innescato una
4
serie di cambiamenti strutturali e relazionali all‟interno del rapporto industria-trade.
I produttori hanno visto infatti peggiorare la propria forza contrattuale a causa del
minore controllo esercitabile all‟interno dei canali distributivi e all‟inesorabile declino
della brand loyalty, dovuta alla „spirale del declino della marca industriale‟ degli anni
5
„90. Al contrario, i distributori hanno tratto beneficio dall‟incremento della propria
quota di mercato – grazie alla superiore superficie di vendita e al tasso di vendita al
metro quadrato in continua ascesa – e dal grado di differenziazione generato dalla
suddetta introduzione delle private label e dal nuovo ruolo assegnato al servizio
commerciale. La logica conseguenza di questi mutamenti è il passaggio da
un‟inefficace logica di business di breve periodo, la quale concentra le proprie
attenzioni sull‟immediata convenienza economica (shortism) e brucia valore senza
realizzare un significativo aumento delle vendite, ad un approccio di più lungo periodo
caratterizzato da una elevata profondità di visione e da un più ampio contesto di
crescita, e altresì focalizzato sulla convergenza dei diversi obiettivi aziendali;
prospettiva che, secondo Anderson e Narus (1990) e Alfieri (2010), richiede
inevitabilmente fiducia e comunicazione tra i partner, aspetti in passato indubbiamente
meno rilevanti.
4
Come ad esempio il passaggio, in seno alle imprese di distribuzione, da una struttura funzionale ad
una per categorie e la maggiore integrazione delle funzioni acquisti-vendite-marketing.
5
Vedi, su tale argomento, Castaldo (2005) e Fornari (2009).
15
Nella nuova logica relazionale „sistemica‟, sviluppatasi negli anni „90 e basata
sull‟idea di canale come una filiera produttiva ormai orfana di un channel leader,
dove, quindi, tutti gli attori collaborano per raggiungere l‟obiettivo finale di
soddisfazione del consumatore e non esiste un soggetto economico abbastanza forte da
imporre le proprie scelte o le strategie decise internamente, possiamo analizzare la
6
natura articolata e multidimensionale del moderno rapporto industria-distribuzione.
Lugli (1995) individua innanzitutto una dimensione contrattuale, puramente
negoziale, in cui il rapporto tra gli attori è di tipo cliente-fornitore e riguarda le
condizioni dello scambio; in tale contesto, assistiamo alla ricerca del massimo
sfruttamento possibile della propria forza negoziale e al tentativo, da parte di entrambi,
di ottenere le migliori condizioni di vendita. In riferimento al primo punto, dobbiamo
osservare come vi siano più fattori incidenti: la ponderata dell‟insegna, la penetrazione
della marca industriale nell‟insegna – e la sua quota raggiunta nel territorio del
distributore – e il numero di alternative di cui il cliente dispone, sono tutti aspetti da
tenere in massima considerazione nel momento in cui vogliamo capire quale attore ha
maggiori probabilità di avvantaggiarsi al momento della compravendita.
Soffermandoci, invece, sui modi in cui l‟industria tenta di aggiudicarsi i vantaggi
economici derivanti da transazioni così prive di trasparenza, non possiamo certo
ignorare gli sconti canvass, gli sconti differiti (oppure quelli legati al raggiungimento
di un certo target), i servizi gratuiti e il credito di fornitura: tutti aspetti che portano
inevitabilmente ad un sell in molto spinto.
Tale dimensione relazionale è però da sempre protagonista di numerosi studi dagli
esiti discordanti; alcune ricerche inseriscono infatti il commitment formale (legato agli
accordi contrattuali) in un circolo virtuoso cui fanno seguito un commitment di tipo più
informale e migliori performance del gruppo (Mudambi e Mudambi, 1995), e
dimostrano come all‟utilizzo del contratto vengano spesso associati una minore
probabilità di comportamento opportunistico del partner (Liu et al., 2009) e inferiori
costi relativi alla gestione del rapporto (Laaksonen et al., 2008) mentre, al contrario,
altre analisi rivelano come esso comporti, a differenza delle norme relazionali, più
ingenti costi di adattamento e monitoraggio e una inferiore creazione condivisa di
valore (Dyer e Singh, 1998), ma anche una minore fiducia e una ridotta costanza dei
comportamenti all‟interno del rapporto (Liu et al., 2010).
6
Vedi Montalto (2001) e Nielsen Marketing Research (1992).
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Nel tempo è venuta ad aggiungersi un‟ulteriore dimensione della relazione, di
tipo competitivo e conflittuale, in cui invece le due controparti concorrono per ottenere
le preferenze della clientela finale, e dove assistiamo ad un ampio divario delle logiche
di pricing, di esposizione e di comunicazione connessi alle referenze. Questi aspetti,
esasperatisi soprattutto in seguito all‟introduzione a scaffale della marca commerciale,
hanno però lasciato spazio in breve tempo alla convinzione che la vera rivalità non
risiede tanto nell‟ottenimento delle preferenze della domanda finale (in quanto non vi
è una vera sostituibilità tra prodotto industriale e private label), bensì si concretizza in
una concorrenza verticale relativa alle funzioni di marketing – in cui il potere
contrattuale delle parti gioca un ruolo primario – e all‟attività logistica, dove le
imprese tentano in tutti i modi di togliere valore aggiunto agli altri attori presenti nel
canale. La presenza di continui scontri fra i partner, soprattutto parlando di relazioni di
lungo periodo, è quindi secondo Mentzer et al. (2000) inevitabile, e in quanto tale va
gestita adeguatamente, evitando che essi degenerino in ostilità molto più complesse da
sanare e decisamente poco consone ad una partnership collaborativa. Gaski (1984) e,
successivamente, Leonidou et al. (2008), riscontrano un basso livello di conflitto
all‟interno di relazioni in cui l‟esercizio di incentivi atti a supportare la cooperazione
sono costanti e reciproci mentre, secondo i loro studi, esisterebbe un legame a doppio
filo tra la presenza di dispute e l‟esercizio del potere in ottica non collaborativa. Anche
Anderson e Narus (1990) dimostrano come, in assenza di contrapposizioni ripetute, la
cooperazione e la fiducia traggano notevoli benefici, mentre nel 1996 Mohr, Fisher e
Nevin confermano come un basso livello di dissenso fra i partner conduca ad un
coordinamento interaziendale, una soddisfazione dei soggetti coinvolti e ad un
commitment presente nel rapporto nettamente superiori rispetto a network più instabili.
Ma se, da una parte, le ricerche di Donada e Dostaler (2010) chiariscono come una
relazione stabile di lungo periodo riduca notevolmente le probabilità di andare
incontro a conflitti generati dal fornitore, dall‟altra gli esiti precedenti di Davies
(1994b) non supportano l‟ipotesi secondo cui il fallimento di una partnership
commerciale sia da attribuire a frequenti divergenze fra gli attori del network.
L‟analisi non sarebbe però completa senza un‟adeguata descrizione della
dimensione collaborativa del rapporto, nella quale l‟attenzione si concentra sulle aree
di coincidenza e sui benefici comuni ottenibili dalla co-creazione di valore. Una volta
consolidatasi l‟idea secondo cui il conflitto conduce unicamente ad un reciproco
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assorbimento delle risorse aziendali, gli attori cercano di individuare tutti quegli spazi
possibili di collaborazione bilaterale, ponendo in tal modo le basi per una partnership
di lungo periodo, dove agli interessi particolari viene anteposta la ricerca di una
cooperazione strategica. Sarebbe ingenuo pensare che non esistano aree delicate in cui
lo scontro è talvolta feroce (basti pensare al prezzo di vendita al consumo o
all‟aumento costante dei listini); è però indubbio che, rispetto al passato, l‟approccio e
la filosofia con cui questi attori interagiscono e negoziano le condizioni di
compravendita sono decisamente più distesi ed orientati ad una reciproca
collaborazione. Collaborazione e cooperazione costituiscono quindi le fondamenta di
un rapporto che mira a durare nel tempo e ad essere reciprocamente profittevole; in
questo senso, un notevole contributo è stato fornito da Anderson e Narus (1990),
Morgan e Hunt (1994) e da Han, Wilson e Dant (1993), i quali hanno confermato il
legame fra la cooperazione dimostrata dai partner e la presenza di fiducia all‟interno
della relazione commerciale. Accanto a questi studi, anche altre ricerche confermano
l‟importanza della dimensione collaborativa negli odierni rapporti fra fornitore e
cliente: alcuni risultati mostrano infatti come maggiori sforzi in questa direzione
generino partnership più produttive (Narus e Anderson, 1987), minore opportunismo
(Tangpong, Hung e Ro, 2010), superiori probabilità di rendita generata dalla
condivisione di conoscenze (Dyer e Singh, 1998), vantaggi condivisi meno imitabili e
una reciproca soddisfazione economica nonché psicologica e sociale (Vazquez et al.,
2005). Da non trascurare anche le pubblicazioni di Laaksonen, Pajunen e Kulmala
(2008), secondo i quali alla base di ogni relazione commerciale orientata ad una
costante e mutua collaborazione esiste una fiducia che trascende i contenuti dei
contratti, e di Ganesan (1994), che lega la predisposizione dei partner a continue
concessioni e a costanti sacrifici – finalizzati al mantenimento della relazione – ad un
orientamento di lungo periodo e ad una percezione di benevolenza agli occhi della
controparte. Una relazione fra industria di marca e distribuzione dagli esiti fallimentari
è stata invece associata da Davies (1994b) ad una assenza di partnership e ad una
scarsa cooperazione da parte degli operatori.
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1.2 La risposta dell‟industria di marca all‟evoluzione della
distribuzione: il trade marketing.
Le fondamenta dell‟evoluzione commerciale descritta nelle pagine precedenti
risiedono nella nascita di un nuovo atteggiamento da parte dell‟industria
nell‟interfacciarsi e nel relazionarsi con l‟insegna: questa nuova filosofia gestionale
– il trade marketing, irrinunciabile per qualsiasi produttore che ricerchi un vero
orientamento al cliente nel momento in cui approccia il distributore – si concretizza in
una serie di investimenti rivolti alla domanda intermedia e finalizzati all‟ottenimento
7
di un vantaggio competitivo nel mercato distributivo.
Fino a tutti gli anni ‟80 e all‟inizio degli anni „90 i rapporti fra industria e distribuzione
erano ancora inseriti in un‟ottica di pura competizione verticale: l‟industria di marca
vedeva infatti nel retailer non un soggetto con cui cooperare bensì un elemento che
permetteva unicamente l‟ottenimento di margini superiori, e concentrava la propria
azione sullo sfruttamento delle leve negoziali e del potere contrattuale. All‟interno di
questo trade marketing di tipo tradizionale, i produttori si concentravano
esclusivamente o sugli investimenti volti al consumer marketing, orientato ai prodotti
da offrire al consumatore finale oppure su quelli di trade marketing, seguendo una
logica di tipo push che tende al contrario a focalizzare la propria attenzione sulla
vendita dei prodotti all‟impresa commerciale. Questo tipo di approccio da parte
8
dell‟Idm era dettato da una logica di trade spending e da una politica industriale di
sell in; tale comportamento da un lato minava sul nascere ogni tentativo di proficua
cooperazione tra i diversi attori di filiera, e dall‟altro riduceva i profitti e il valore
aggiunto potenzialmente ottenibili da sinergie più collaborative. In una simile realtà,
più conflittuale che collaborativa, i motivi di scontro e di tensione erano di molteplice
natura: da quella economica, per il desiderio di entrambi di aggiudicarsi la maggiore
percentuale possibile di valore aggiunto, a quella tecnico-concorrenziale, dovuta alla
reciproca invasione delle aree di competenza, arrivando a motivazioni puramente
concorrenziali, dettate dalla competizione orizzontale.
7
Cristini e Lugli (2001), Colla (1995), Garry (1992), Rubinelli (2009) e Foglio (1996).
8
Come spiegato anche da Castaldo (2005) e da Fornari (2009), questa linea di condotta dei produttori,
che guardava alla clientela commerciale come un mero intermediario fisico dei propri prodotti e alla
stregua di una pura fonte di costo, ha condotto inevitabilmente – tra gli anni ‟70 e ‟80 – ad un rapporto
di tipo muscolare con la distribuzione.
19
La già citata „spirale del declino del potere industriale‟ degli anni „90, che portò ad un
riallineamento dei poteri dell‟industria e della distribuzione, determina la nascita di
una logica collaborativa di trade investment, dove l‟impresa commerciale è ormai
divenuta partner dell‟Idm e una politica – imperniata sul concetto di sell out e di
remunerazione legata alla qualità dei servizi scambiati – che, garantendo una
rimarchevole efficienza operativa attraverso un migliorato scambio informativo fra le
diverse organizzazioni, riesce a generare un surplus e un vantaggio competitivo di cui
può beneficiare l‟intera filiera.
Dalla seconda metà degli anni „90 assistiamo infatti ad un trade off tra i due sopracitati
tipi di investimento dell‟industria, in cui il raggiungimento di un adeguato equilibrio è
vitale ai fini del conseguimento dei nuovi obiettivi aziendali. Obiettivo del trade
marketing evoluto, oltre all‟ottimizzazione del binomio produttore-distributore
attraverso l‟allineamento delle condizioni di vendita, è infatti la contemporanea
comprensione dei bisogni della domanda intermedia e finale e la conseguente
valorizzazione – seguendo approcci differenti a seconda del distributore con cui ci si
rapporta – delle leve di trade mix quali, ad esempio, gli istituti negoziali, il lancio dei
nuovi prodotti, il co-packing, la comunicazione integrata in punto vendita, il category
management, i nuovi sistemi informativi e il co-merchandising.
1.2.1 La riorganizzazione aziendale conseguente al nuovo approccio dell‟Idm
Il suo sviluppo ha ovviamente imposto un radicale mutamento dei ruoli e dei modelli
organizzativi interni all‟industria di marca; parallelamente all‟avvicendamento tra una
9
politica di territorio e una politica per cliente-canale si è potuto infatti assistere alla
10
nascita di figure manageriali nuove come il key account manager, il cui compito
principale è quello di gestire i rapporti commerciali con i maggiori clienti dell‟azienda.
Un‟altra mansione la cui importanza e professionalità è cresciuta costantemente nel
tempo è quella che fa riferimento al trade marketer (studiata fin dal 1993 da Davies),
9
La quale, come spiega Fresca Fantoni nel 2007, ha permesso una decisa differenziazione delle
condizioni di vendita e del rapporto negoziale con l‟insegna.
10
Si fa riferimento ad una figura che richiede inevitabilmente inedite e più articolate competenze, nuove
capacità analitico-deduttive e di adattamento a situazioni sempre differenti, mai standardizzate come in
passato. Dalle capacità di quest‟ultimo dipende una buona parte del raggiungimento degli obiettivi
fissati a livello di top management.
20
specchio fedele delle modificazioni del rapporto industria-distribuzione; compiti di
questa figura saranno infatti quello di coordinare i diversi aspetti dell‟attività
commerciale e di comprendere a fondo la posizione di mercato del cliente
commerciale, mansione tipica del business manager. Accanto ad una gestione „nuova‟
del trade, orientata alla ricerca di adeguate soluzioni comuni e delle migliori leve di
marketing piuttosto che al mero ottenimento dell‟ordine d‟acquisto, assistiamo ad un
inedito rapporto fra gli attori di filiera, con il trade marketer divenuto ormai
consulente del distributore e alla costante ricerca di una collaborazione che possa
trascendere la semplice chiusura del contratto, adattandosi alle continue evoluzioni dei
due attori e del contesto economico. Questa figura dovrà quindi analizzare tutte le
richieste provenienti dall‟insegna, determinare le condizioni di vendita (non più per
formato bensì per cliente-canale), valutare le performance dei clienti principali,
realizzare le promozioni previamente concordate con il trade e controllare le politiche
di vendita previste da contratto, verificando perciò che la forza di vendita svolga in
modo adeguato le attività richieste dall‟insegna in termini di raccolta degli ordini,
fatturazione e merchandising. Ovviamente, al fine di una siffatta negoziazione, egli
dovrà arricchirsi di ulteriori competenze, studiate da Crapelli e Aversa nel 1994: dalla
conoscenza del contesto in cui l‟insegna opera (ambiente, legislazione e principali
concorrenti) allo studio di dati aziendali quali redditività, fatturato e struttura
organizzativa, passando dall‟analisi comune delle problematiche, dei rischi e di tutte
quelle opportunità ancora inesplorate, e dalla co-pianificazione dello sviluppo futuro.
1.2.2 L‟impatto dei nuovi rapporti commerciali sulle differenti aree aziendali
I cambiamenti intervenuti e le conseguenti modifiche resesi necessarie in capo a tutti
gli operatori facenti parte della filiera creano i presupposti per implementare una rete
di rapporti più collaborativi e tesi alla realizzazione di un gioco a somma positiva.
La summa delle dimensioni della relazione di cui abbiamo parlato pocanzi ha infatti
dato vita ad un concetto sicuramente non nuovo in campo economico – fu infatti
studiato da Brandenburger e Nalebuff nel 1996 – ma finora raramente praticato, quello
di co-opetition: si collabora in quelle aree che presentano vantaggi competitivi
potenziali comuni, ma al contempo si compete laddove le aziende si trovano in
21
concorrenza diretta. L‟industria non sarà più in grado, infatti, di imporre
unilateralmente il proprio ingresso (e quello delle referenze da essa prodotte) nelle
imprese di distribuzione, ma dovrà guadagnarsi di volta in volta il referenziamento da
parte dell‟insegna, ormai padrona del proprio destino e nelle condizioni di rifiutare o
modificare qualsiasi richiesta ritenuta inadeguata o economicamente poco
vantaggiosa.
Le aree che presentano i maggiori vantaggi derivanti da tali sinergie – e che verranno
adeguatamente approfonditi in seguito – sono le seguenti:
- logistica integrata, ossia quella leva strategica incentrata sulla pianificazione,
l‟organizzazione e il controllo dei flussi di prodotto e di informazioni tra i
diversi stadi della filiera;
- category management, quella filosofia di management che riconosce la
categoria merceologica come terreno comune e di confronto per soddisfare le
esigenze del consumatore e che porta ad una co-gestione della stessa da parte
delle imprese industriali e commerciali;
- gestione delle trattative meno conflittuale e orientata al raggiungimento di
vantaggi reciproci;
- condivisione del patrimonio di informazioni e di tutte quelle conoscenze
complementari riguardanti la domanda finale, in virtù di una superiore
integrazione informativa, la quale presenta sia vantaggi in termini di qualità
dello scambio informativo e di minor costi di personale, sia svantaggi, in
quanto occorre un reciproco adattamento organizzativo e la standardizzazione
dei codici e dei protocolli;
- marketing integrato, che permette di aumentare significativamente le quote di
mercato degli attori presenti in filiera in virtù dell‟interscambio tra dati di
vendita del distributore e quelli relativi alle ricerche di mercato effettuate
dall‟industria relativamente ai propri prodotti.
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1.3 Dalla discriminazione alla differenziazione delle
condizioni di vendita.
La negoziazione rappresenta una parte considerevole della comunicazione esistente tra
industria e distribuzione e, così come molti altri aspetti relazionali di cui abbiamo già
parlato e altri su cui ci soffermeremo più avanti, ha conosciuto una lenta, ma decisiva
alterazione, studiata in modo organico per la prima volta in Italia da Lugli, Cristini e
Fornari nel 1989. Superando la tradizionale ottica di „win-lose negotiation‟,
caratterizzata dall‟esercizio della propria forza contrattuale e dalla ricerca unilaterale
del miglior „pacchetto‟ per il proprio business, il rapporto negoziale tra questi
operatori è giunto con il passare del tempo – secondo Elliot e Rider (2000) – ad una
prospettiva di „win-win negotiation‟, inserita in un‟ottica di lungo periodo e incentrata
sulla continua ricerca di compromessi che possano combinare in modo soddisfacente i
divergenti interessi dei vari attori di filiera.
Ed è proprio entro questo contesto che si inserisce l‟evoluzione delle condizioni di
vendita, ossia di tutti quegli elementi che qualificano il rapporto con il trade e che
permettono di differenziare il rapporto industria-distribuzione anche entro i singoli
settori.
1.3.1 La discriminazione delle condizioni di vendita
Fino a tutti gli anni ‟80, ossia in concomitanza con il già citato trade marketing
tradizionale, le imprese industriali adottavano criteri soggettivi di remunerazione
dell‟insegna, offrendo diverse clausole a distributori che garantivano simili scambi di
servizi oppure assicurando analoghe contropartite anche a quelle imprese commerciali
che, invece, offrivano un differente rapporto tra servizi dati e ricevuti. A questa
discriminazione delle condizioni di vendita (approfondita prima da Davies, 1994b e
poi da Baccarani, 2001) vanno poi aggiunti la cronica incompatibilità degli obiettivi di
marketing mix, il tentativo continuo di appropriarsi del controllo informativo e le
differenze percettive relative alla cultura, alla comunicazione e alla struttura di potere
e dei diversi ruoli, che conducevano spesso a incomprensioni circa le specifiche
esigenze del proprio interlocutore e le diverse scelte messe in atto dalla controparte.
23
Le cause di tali discriminazioni negoziali erano molteplici e disomogenee:
- l‟aumento della store loyalty, congiuntamente al progressivo calo della brand
loyalty, aveva spinto sempre più l‟industria di marca a tentare la conquista
delle preferenze dei clienti commerciali discriminando le condizioni
contrattuali a favore di quelle insegne la cui domanda risultava essere più
elastica e profittevole;
- anche le diverse funzioni di marketing svolte dal retailer a favore
dell‟industria favorivano la discriminazione, nel momento in cui il produttore
non remunerava le eventuali attività realizzate in punto vendita dai
distributori a sostegno del prodotto;
- nel momento in cui l‟industria presentava una infelice combinazione di
sottoutilizzazione della capacità produttiva, incremento incontrollato dei costi
di marketing e calo dei profitti, la presenza di grossi compratori – che era
possibile attirare attraverso l‟utilizzo di sconti fissati dalle parti in modo
riservato – , era uno stimolo cui resistere era quasi impossibile. In questi casi,
il minore prezzo di acquisto consentiva vendite ingenti (e quindi il recupero
di capacità produttiva altrimenti inutilizzata), e un deciso contenimento del
budget promozionale, soprattutto laddove la domanda finale era poco
interessata alla pubblicità;
- tale strategia risultava essere frequentemente praticata da tutti quei produttori
che, nel tentativo di innalzare barriere all‟ingresso nei confronti dei rivali,
applicavano condizioni di vendita migliori rispetto a quelle che i nuovi
entranti erano in grado di offrire. In simili frangenti, il brand discriminava le
clausole negoziali, ad esempio acquistando spazio espositivo in eccesso,
oppure concedendo premi per il superiore differenziamento dei propri
prodotti rispetto a quelli dei diretti concorrenti;
- anche le differenti dimensioni dei distributori potevano notevolmente
incentivare la realizzazione di discriminazioni. A tale riguardo, basti pensare
alla facilità con cui le insegne presenti su numerosi territori o con un potere
contrattuale significativo potevano sostituire fra loro prodotti industriali a
scaffale senza per questo subire effetti negativi. Spesso, infatti, i retailer
richiedevano contributi una tantum all‟industria nel momento in cui venivano
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