4
D’altro canto la questione di cui sopra non avrebbe in sé ragion
d’essere se noi non presupponessimo una posizione critica verso
l’andamento che i discorsi di Deontica hanno avuto sino ad ora. In effetti
la nostra ipotesi di lavoro è che la Logica Deontica, limitatamente alla
formulazione di von Wright, non è da considerarsi un progetto concluso
( e riuscito). In questa direzione va anche il titolo della presente tesi.
Noi riteniamo esservi un rapporto ‘ particolare ‘ tra logica e norme ma
riteniamo anche che un calcolo formale che riesca a ‘ spiegare ‘
( descrivere ed interpretare) la logica normativa sia ancora di là da
venire.
Con questo non intendo certo dire che la Logica Deontica, in toto, sia
da rigettare, piuttosto voglio invitare alla cautela rispetto a certi
entusiasmi per i quali la Logica delle modalità deontiche ‘ riproduce ‘ la
logica delle norme. Rispetto a questa posizione avanzo alcune precise e
articolate obiezioni che ho cercato di inserire e trattare nello sviluppo
del discorso. Queste obiezioni, oltre a svolgere la massima funzione
costruttiva nell’economia del discorso intorno alla logica dei sistemi
normativi, prefigurano, come sarà evidenziato nel corpus delle mie
argomentazioni e nelle Conclusioni, la necessità di un ulteriore sviluppo
degli studi di Deontica, la necessità di garantire la disciplina e dai suoi
punti deboli e dalla sua stessa presunzione di aver detto tutto e
nell’unica maniera possibile circa la logica delle norme.
Specifico, inoltre, che spesso nel mio discorso ho avuto un andamento
‘ irrazionalistico ‘ rispetto alla logicità delle norme ma ciò è dovuto al
fascino che una personalità come Kelsen esercita, e continua tuttora ad
esercitare, su di me. Tuttavia il mio scetticismo, sia chiaro, non si
appunta intorno allo statuto di logicità, che certamente v’è, delle norme
ma intorno alle( presunte) capacità della Logica Deontica di riprodurre
effettivamente questa logicità. Spero che tutto questo abbia trovato
adeguata sistemazione nel discorso che ho cercato di sviluppare.
5
Per concludere vorrei indirizzare i miei ringraziamenti al personale
della Biblioteca Centrale della Facoltà di Lettere e Filosofia per la loro
disponibilità e puntualità, al personale della Biblioteca del Dipartimento
di Storia e Critica dei Saperi per l’aiuto bibliografico offertomi.
Ringrazio ancora la Biblioteca del Dipartimento di studi su Politica,
Diritto e Società dell’Università di Palermo per la cortesia e
disponibilità offertemi, senza il quale valido aiuto bibliografico questa
tesi non sarebbe mai stata scritta. Ringrazio, infine, il Professore Celano
per le utili categorie critiche rispetto a Kelsen senza le quali avrei corso
il rischio di appiattirmi alla Teoria pura del diritto fallendo, io per
primo, ai fini di questa stessa ricerca.
Palermo, 11 Giugno 2002
6
___________________________________________________________
0. Introduzione
attuale una certa prevenzione da parte degli studiosi di
filosofia o di chi, a vario titolo, si interessa alla disciplina, nei
confronti del diritto. Forse non è neanche corretto chiamarla prevenzione
a causa del fatto che il suo orizzonte semantico non corrisponde
puntualmente a quello che invece avrei voluto comunicare. Infatti, anche
già semplicemente prestando attenzione, è possibile notare un rigetto, una
idiosincrasia da parte dei cultori di Sofia verso quanto è diritto, legge,
norma, codici così via. Un rifiuto forse dovuto ad un pregiudizio di
fondo, forse dovuto all’affermazione di una specifica diversità di
orizzonti, forse, più neutralmente, ad un’estraneità rispetto alla
giurisprudenza. Non pretendo certo di discutere qui sull’origine, sui
motivi di tale atteggiamento mi limiterò, invece, a notare, e a far notare,
l’inopportunità di questo comportamento. Infatti ciò implica il negare a
se stessi un ampio spazio concettuale e il perdere, in questa maniera,
un’incredibile occasione. Infatti ciò provoca il mancato incontro tra Sofia
e Lex, provoca una certa chiusura intellettuale del tutto simile a quella
che portava i filosofi più tradizionalisti, a inizio XX secolo, a bollare la
scienza in genere “matematica sunt, non leguntur”. Lo stesso
comportamento va a danno proprio di coloro che così facendo, avrebbero
la pretesa di difendere una, non meglio precisata, specificità del LOGOS
rispetto alle norme. E’ allora evidente, già dalle prime battute, che io
sono per l’incontro o almeno il dialogo tra le due discipline, è
controproducente chiudersi, infatti, nel proprio recinto e far finta che il
resto del mondo non conti. Un comportamento analogo ha prodotto e
produce le più terribili catastrofi umane. Un’obiezione che mi si potrebbe
muovere è la seguente: ma è davvero possibile un incontro tra la filosofia
e il diritto?
E’
7
In realtà, a rigore, questa non è neanche un’obiezione ma l’espressione
di quel rifiuto a cui sopra si accennava, non si pensa neanche per un
istante alle effettive possibilità di dialogo. Infatti tale interlocutore dà per
scontato che filosofia e diritto non abbiano nulla da dirsi e da darsi. Ciò
costituisce un grave errore spiegato, forse, in parte, dal rifiuto che prende
qualsiasi filosofo quando si trova di fronte ad un discorso che differisce
da quella forma assunta nei secoli dal ragionamento filosofico. A meno
che non si voglia pensare ancor più negativamente e dire che in realtà la
causa di questa prevenzione è la paura della realtà, è l’assenza di un
legame più stretto con la prassi e, si sa, la prassi è sempre stata un po’ lo
spauracchio di tutte le persone tese alla riflessione, incapaci di dar
realizzazione alle loro speculazioni. Ma la questione è, per me, più a
monte dato che il tutto, quindi anche la natura dei rapporti tra filosofia e
diritto, risente della sistemazione idealistica, tanto nel senso storiografico
del termine tanto in seno lato, del rapporto tra teoria e prassi. Anche
questo aspetto, che pure sarebbe interessante, non sarà oggetto di
riflessione in quanto cercheremo, invece, di porre le basi per un incontro.
Detto in altri termini, dato che ci muoviamo dal fronte filosofico,
andremo alla ricerca di un percorso che, preservando ugualmente la
specificità teoretica della filosofia, l’apra nondimeno alla considerazione
anche di un universo fino ad ora semi-ignorato:la giurisprudenza.
Il semi è giustificato dal fatto che esiste, in effetti, una specializzazione
della teoretica che prende il nome di Filosofia del Diritto. Ma questa è
una materia che fa parte del curriculum di studi legali e non di quello
filosofico e, siccome noi partiamo dalla filosofia, la sua indicazione non è
esaustiva; tanto che, infatti, abbiamo parlato in precedenza di semi-
ignoranza. Se, infatti, la disciplina Filosofia del Diritto facesse parte del
bagaglio di studi in filosofia non paleremmo più di semi-ignoranza ma
neanche potremmo più parlare di ignoranza visto che l’universo giuridico
sarebbe, per questa strada, già preso in considerazione. In realtà se le
cose stessero così il problema non avrebbe neanche ragion d’esistere
poiché l’incontro tra le due discipline si sarebbe già realizzato.
8
Facile concludere che le cose vanno diversamente da quelle poc’anzi
ipotizzate anche perché io muovo dalla mia personale esperienza di
studente presso l’Ateneo palermitano, nel quale tale incontro non si è
ancora realizzato, sebbene non escludo a priori la possibilità che presso
altre sedi universitarie, in ambito filosofico, non vi sia il rifiuto della
giurisprudenza di cui all’inizio.
Fissato così l’obiettivo, l’incontro tra la filosofia e il diritto, e piantati i
paletti, delimitanti la specificità teoretica della filosofia, possiamo
procedere oltre. Tuttavia è chiaro come la materia sia troppo vasta per
consentirci una ricognizione che colpisca nel segno. In altre parole è
necessario operare una settorializzazione che ci agevoli il già difficile
cammino. Dobbiamo così ritagliare dalla grande mole di elementi che
costituiscono la dimensione dei rapporti, possibili ma reali, tra la filosofia
e la giurisprudenza, una porzione, limitata certo ma non per questo meno
interessante, che faciliti i nostri sforzi. Tuttavia il ricavare questo spazio
concettuale apre a facili e scontate obiezioni, le quali sono però del tutto
inutili ai nostri fini tanto che ritengo di poterle omettere del tutto.
Ma cerchiamo di chiarire. Assumiamo tutta la filosofia? E’ evidente
che non possiamo farlo. Allora prendiamo solo una parte: la logica. Lo
stesso accade per la giurisprudenza: la riduciamo al solo discorso
normativo, in particolar modo quello che verte sulle norme.
Su queste basi si potrebbe facilmente concludere che è possibile
liquidare l’intera questione. Infatti si può anche dire che le norme
esprimono, ad ogni modo, una logica e che, quindi, il problema è risolto
oppure, meglio ancora, si può dire che neppure si pone. In realtà le cose,
anche per quanto si vedrà in seguito, non sono così pacifiche. Inoltre va
notato che certi ragionamenti hanno la conseguenza di distruggere la
filosofia. Dato allora che sono io a dover sostenere l’onere della prova
intorno alla mia tesi iniziale mi sento in obbligo di precisare come stanno
le cose.
9
Ritengo infatti che la logica filosofica è cosa diversa dalla logica che è
espressa dalle norme. L’intera questione va allora formulata nei termini
seguenti: è possibile applicare la logica, quale storicamente si è
sviluppata e configurata, ad un discorso normativo?
Infatti la difficoltà per la logica è enorme dato che da sempre ha preso
in considerazione entità apofantiche; detto in altre parole essa si è
espressa sempre su enunciati assertivi, ovvero enunciati affermanti
qualcosa intorno alla realtà. Non è un caso che la disquisizione, forse più
importante, della logica verta sulla verità o sul criterio di verità. Infatti la
logica studia gli enunciati apofantici partendo dalla distinzione, ai suoi
occhi fondamentale, tra verità e falsità
1
. In altri termini è fondamentale
per la logica appurare che le proposizioni assumano uno o l’altro valore
di verità. Questo fatto è limitativo anche in quanto obbliga la logica a
prendere in considerazione solo quelle “entità” capaci di assumere valori
vero-funzionali
2
. Da questo punto di vista emerge forse la spiegazione
del perché la logica abbia omesso lo studio della modalità o anche di
“entità” non apofantiche proprio perché in difficoltà nell’applicare ad
1
Una interessante presentazione del concetto di proposizione adeguatamente trattata
secondo la logica proporzionale si trova in E. Agazzi, La logica simbolica, La Scuola,
Brescia, 1990, pp. 181-237.
2
In effetti, da questo punto di vista, è possibile individuare una via d’uscita
nell’allargamento delle maglie dello spettro d’applicazione logica intendendo, sotto
questa espressione, il superamento del limite dei valori logici bi-valenti delle
proposizioni. Se potessimo, in maniera rigorosa, individuare altri valori oltre quelli di
verità e falsità eviteremmo il problema teoretico della non-referenzialità delle norme.
Infatti, per come si vedrà anche in seguito, il problema principale della non-applicabilità
della logica, classicamente vero-funzionale, alle norme è spiegato col fatto che queste
ultime, a differenza delle proposizioni, non descrivono la realtà ma prescrivono, cioè
ordinano, comandano, prescrivono che la realtà diventi in un certo modo. Superato il
limite del confronto o paragone tra il contenuto delle norme e la realtà esterna, tramite
l’adozione di valori diversi a quelli canonici di verità e falsità, riusciamo ad applicare la
logica alle norme. Ma, dato che questa direzione di ricerca non è, allo stato attuale,
adeguatamente realizzata, la logica resta vincolata al limite della bivalenza, al limite
della applicazione, agli enunciati, di due soli valori, verità e falsità, indicanti
rispettivamente la corrispondenza o meno della proposizione in oggetto e la realtà. Visto
che le norme non descrivono in alcun modo la realtà la logica bivalente non può trovare
applicazione alle norme. Detto altrimenti la soluzione consiste nell’indirizzo di studio
assunto dalla logica intuizionista e basata sul rigetto, entro certi limiti, del Principio di
bivalenza, affermante che ogni enunciato dichiarativo sia necessariamente o vero o
falso. Per maggior puntualità cfr. Kneale-Kneale, Storia della logica, Einaudi,
Torino, 1972, p. 66 e sgg.
10
esse i propri presupposti teorici. Nella storia della logica, infatti, non
trovano posto gli enunciati esprimenti comandi, preghiere e così via.
Basta, infatti, volgere lo sguardo agli inizi della logica per rendersene
conto. Aristotele omette dal suo studio gli enunciati non assertivi.
Tuttavia è possibile notare, al tempo stesso, come lo Stagirita faccia ciò a
malincuore dati i limiti del tempo, limiti che si offrivano anche per lo
stadio iniziale e inadeguato della logica, pur rimandando la necessità che
anche le proposizioni non-apofantiche fossero oggetto della logica
3
.
Purtroppo le prudenze e il rinvio di Aristotele si sono trasformati, nel
tempo, nella convinzione che i limiti della logica siano necessariamente
quelli indicati agli inizi della sua storia. E’ passata così la limitazione
fondamentale, quella cioè secondo la quale solo gli enunciati assertivi
sono capaci di assumere valori di verità o falsità. Ritengo allora che il
tempo abbia finito con lo stravolgere la reale intenzione dello stagirita
finendo coll’imporre il non discutere su o intorno a entità non
riconducibili alla forma assertiva.
In questa maniera poniamo le premesse alla discussione sulle basi
dell’incontro tra la logica ordinaria e la logica proposizionale.
3
Cfr. Kneale-Kneale, op. cit. , pp. 100-134.
11
1. Questioni preliminari
Assunto che sia necessario un collegamento tra la logica e il normativo
vediamo ora se è possibile. Per farlo è bene condurre una ricognizione
preliminare sullo stato del problema. Noi riteniamo che la logica debba
occuparsi anche delle norme che abbiamo ottenuto per riduzione delle
varie forme di “entità” non apofantiche. Detto in altra maniera scegliamo
di tutte le forme non-apofantiche una, le nome, quella forma che più
direttamente ci interessa, operando in questa maniera una riduzione come
prima detto. Tuttavia si nota qui un punto che per me è pacifico e cioè
che le proposizioni normative non corrispondano puntualmente agli
asserti proposizionali
4
.
In proposito Hans Kelsen, autore che prenderemo in considerazione
come esponente del filone giuridico, sostiene a più riprese
5
una
differenza irriducibile tra l’essere e il dover-essere, tra Sein e Sollen
6
. Le
norme in particolare, per essere intese come tali devono esprimere
proprio il Sollen, il dover-essere, esprimono cioè una coazione, quella
che in Filosofia del Diritto prende in nome di Normatività, ossia la
ragione per la quale il contenuto di una norma ha un carattere
immediatamente obbligatorio ed obbligante. Se invece si guarda ad
un’opera precedente il giurista austriaco si esprime in questa maniera:
4
È chiaro che l’unico modo per consentire alla logica di avvicinarsi alle norme è di
considerare quest’ultime asserti proposizionali, cioè enunciati aventi un statuto che
però sembra differire da quello dei comuni enunciati. Assodato ciò la logica
proposizionale appare la più adatta a studiare le norme ma bisogna fare attenzione al
fatto che le proposizioni assertive non corrispondono, chiaramente, alle proposizioni
normative.
5
Vedasi il discorso tenuto in Teoria generale del Diritto e dello Stato, in La dottrina
pura del Diritto, il discorso di Lineamenti di dottrina pura del Diritto…I riferimenti
sono così numerosi che mi limiterò ad indicarli nelle note seguenti solo per quelli
immediatamente più evidenti.
6
Cfr. Kelsen, La Dottrina pura del Diritto,Einaudi, Torino, 1975, pp. 14-19.
12
“ Una <<norma>> è una regola
che esprime il fatto che taluno
deve agire in una determinata
maniera senza che qualcuno
<<voglia>> realmente che tale
persona agisca in quella maniera
7
“
E più avanti:
“ la norma è un <<comando>>
impersonale ed anonimo
8
“
E ancora:
“ la norma è l’espressione dell’idea
che qualcosa deve accadere, e
specialmente che un individuo
debba comportarsi in una
determinata maniera
9
“
Inoltre Kelsen specifica come la norma non dica nulla sull’effettivo
comportamento dell’individuo in questione
10
e che:
“ la proposizione che un individuo
<<deve>> comportarsi in una
data maniera significa soltanto
che tale comportamento è
prescritto da una norma morale,
una norma giuridica o un’altra norma
11
“
7
Cfr. Kelsen, Teoria generale del Diritto e dello Stato,ed. Comunità, Milano, 1952,
pg.35 e sgg. Nello specifico bisogna notare come l’autore esprima al massimo grado la
corrente del positivismo giuridico nell’aderire completamente al registro dei fatti,
escludendo da essi i valori ed ogni influenza psicologista. Kelsen, infatti, procede dalla
sua dimensione giuridica strettamente relata al clima culturale tedesco di inizio XX
secolo, dominato dal Circolo di Vienna, escludendo dal diritto ogni riferimento a
dimensioni assiologiche e/o psicologiste, piegando la giurisprudenza all’unico
riferimento del carattere obbligante del discorso normativo e della sua produzione
vincolata al criterio di validità, all’interno di un medesimo ordinamento giuridico, in
relazione alla Grundnorm o Norma Fondamentale.
8
Ibidem.
9
Ibidem.
10
Ibidem.
11
Ibidem.
13
Ciò risulta particolarmente interessante in confronto con la distinzione
operata da von Wright, autore che considereremo campione della
logica
12
, in Norma e azione
13
. Infatti il logico distingue tre significati
fondamentali del termine norma:le regole, le “prescrizioni e le direttive o
norme tecniche”
14
.
Tuttavia in precedenza aveva indicato, tra i diversi sensi possibili, quello
di Legge
15
passando poi ad elencare i tre principali sottosignificati. Infatti
noi distinguiamo ordinariamente tra leggi della natura, descriventi le
“regolarità che l’uomo ritiene di aver scoperto nel corso della natura”
16
,
le leggi dello stato, le quali “stabiliscono le regole della condotta umana e
del rapporto tra gli uomini”
17
il cui scopo “è quello di influenzare il
comportamento”
18
, e infine le leggi della logica. Le prime sono
descrittive, le seconde prescrittive e le terze hanno una natura particolare
in quanto sono ad un tempo descrittive e prescrittive anche se in senso
diverso da come lo sono, rispettivamente, le leggi della natura e le leggi
dello stato. In particolare von Wright dice anche che le leggi della natura
possono essere vere o false mentre quelle dello stato no
19
. Si tratta di una
specificazione che certamente rafforza il nostro assunto di base sulla
distanza che v’è tra la Logica Primaria, segmento distinto dalla ancor più
comune Logica Generale, e una, ancora bisogna vedere se possibile,
logica delle norme
20
.
12
Von Wright è considerato unanimemente il fondatore della Logica Deontica ovvero il
fondatore di quella branca della logica ordinaria che verte sui discorsi normativi.
13
In originale Norm and action, 1963.
14
Cfr. G. H. von Wright, Norma e azione,Il Mulino, Bologna, 1989, pp. 37-49.
15
Ibidem.
16
Ibidem.
17
Ibidem.
18
Ibidem.
19
Ibidem.
20
Intendiamo in questa sede la Logica generale un discorso che tratti di tutte le regole
generali della logica. Mentre intendiamo per Logica primaria una specializzazione di
quella generale che verta sugli asserti proposizionali. Per maggiori informazioni cfr.
Kneale-Kneale, op. cit. , pp. 206-207.
14
Possiamo così mettere a fuoco che quanto descrive è suscettibile di
assunzione di valori di verità e falsità mentre quanto prescrive non lo è. Il
che, forse, è in relazione di analogia con la distinzione operata da Kelsen
tra Sein e Sollen
21
. Mentre infatti un enunciato assertivo descrive l’essere,
una norma prescrive un dover-essere o obbligo. Nei termini seguenti si
esprime Kelsen:
“ Quando assumiamo la verità di una
proposizione relativa ad una
realtà, ciò avviene perché tale
proposizione corrisponde alla
realtà, perché la nostra
esperienza la conferma
22
“
Mentre poco più avanti lo stesso dice che:
“ Una norma non è una proposizione
relativa alla realtà e non può
essere pertanto <<vera>> o
<<falsa>> nel senso sopra
determinato. Una norma
è valida o non è valida
23
“
Ma quanto detto sinora depone a sfavore della nostra tesi iniziale in
quanto la distinzione compiuta da Kelsen ha come risultato il divaricare
ulteriormente lo scarto che già c’è tra una disciplina e l’altra. Infatti una
proposizione descrivente la realtà può essere vera o falsa ma una norma
non lo è in quanto, e proprio perché, non è una proposizione relativa ad
una realtà. La norma differisce dagli enunciati assertivi perché non
descrive ma prescrive. Una norma, allora, non sarà né vera né falsa, sarà
soltanto valida o non valida. Ma bisogna fare attenzione a compiere passi
facili ed errati come quello di istituire un parallelismo tra verità-falsità da
un lato e validità-non validità dall’altro.
21
Cfr. nota 4 della presente ricerca.
22
Cfr. Kelsen, op. cit. p. 111 e sgg.
23
Ibidem.
15
Abbiamo, infatti, a che fare con concetti che differiscono tra di loro, non
solo nel loro spettro di applicazione ma anche nel loro significato
24
.
Adesso preso atto dell’irriducibilità di norma e proposizione, e dato
conto delle oggettive difficoltà del nostro compito, tenteremo ugualmente
di vedere fino a dove sia possibile applicare la logica alle norme
25
.
Esempio di questo tentativo è lo studio compiuto da Rose Rand sulla
possibilità di applicazione della logica proposizionale ad entità non-
apofantiche
26
. Analizzando il suo studio possiamo constatare come la
risposta al quesito di cui sopra passa attraverso l’applicabilità di ciascuna
singola caratteristica della logica ordinaria agli enunciati normativi
27
.
Lungo questa strada la Rand studia l’applicabilità del principio di non-
contraddizione, del principio del terzo escluso, del principio della doppia
negazione, nonché l’applicabilità anche della regola di inferenza e degli
assiomi tipici della logica generale.
24
In proposito si tenga conto di quanto lo stesso Kelsen dice, in op. cit. alle pp. 112-
113, nell’enunciazione di una Norma Fondamentale, a garanzia dell’unità e della
coerenza di un ordinamento giuridico, e all’introduzione del concetto di validità di una
norma se statuita secondo l’impianto di produzione del diritto da Kelsen chiamato
“Dinamica del diritto”. Per quanto riguarda poi una definizione più puntuale di Norma
Fondamentale cfr. H. Kelsen, Lineamenti di Dottrina pura del diritto,PBE, Torino,
1952, pp. 95-99. Ma per una trattazione più ampia del concetto di validità cfr. A.
Incampo, Sul fondamento della validità deontica, Laterza, Roma-Bari, 1996, pp. 40-
50.
25
Sarebbe, forse, meglio distinguere qui tra logica delle proposizioni e logica delle
norme e riformulare il nostro compito cercando di mettere a fuoco i rapporti che
intercorrono tra le due logiche. Tuttavia cercheremo di non contemplare qui, per quanto
possibile, questa riformulazione e di tentare ugualmente quanto più sopra si è stabilito
come ipotesi di partenza.
26
In questa sede il riferimento alla Rand è mediato dal Lorini, attraverso il cui saggio
G. Lorini, Deontica in Rose Rand, Rivista internazionale di filosofia del diritto,
74(1997), pp. 197-251, ho avuto modo di apprendere che prima ancora dell’atto
fondativo della Logica Deontica, come logica delle norme, operata da von Wright ci sia
stato il tentativo, di altri studiosi, di estendere il campo di applicazione della logica
ordinaria alle norme. Infatti quella della Rand va vista come una logica deontica ante-
litteram rispetta a quella di von Wright. Infatti mentre la Rand cerca la possibilità di
applicazione della logica assertiva alle entità normative von Wright parte dall’idea che
ci siano verità logiche specifiche al deontico(Lorini,ibidem), verità, dunque, che non
appartengono alla logica proposizionale.
27
Questi enunciati sono normativi per noi, deetici per la Rand e deontici per von
Wright. Si tratta di una specificazione che indica la diversità di orizzonti tra noi, la Rand
e von Wright stesso. Infatti noi partiamo dalla presupposizione di una diversità specifica
tra le norme e gli enunciati che vertono su di esse, enunciati che la Rand chiama deetici
e von Wright deontici.
16
Assume particolare rilevanza, ai nostri occhi, l’analisi dello studio
compiuto sui principi e sulle regole d’inferenza poiché l’intera questione
s’appunta proprio sulla possibilità d’utilizzo di questi per le norme.
Tuttavia le attese restano parzialmente deluse a causa del fatto che tanto
la formulazione seguita dalla Rand tanto la risposta da Lei data non sono
soddisfacenti. Manca, infatti, un’adeguata trattazione teoretica, anche dal
punto di vista della lucidità dell’esposizione, che consenta di decidere
veramente la questione a favore dell’una o dell’altra possibilità indicate.
Per quanto riguarda poi il risultato raggiunto ci appare un po’ misero
rispetto a quello che ci saremmo aspettato. Infatti la Rand sostiene che i
principi canonici della logica trovano applicazione per analogiam alle
norme. Ma l’accento posto sull’analogia non ci rende giustizia in quanto
è un concetto fin troppo confuso e ambiguo per venire incontro alle
esigenze di questo ed altri studi in proposito.
Peraltro la stessa Rand non chiarisce meglio come, sia pur
analogamente, il principio di non-contraddizione, ad esempio, vada
utilizzato in un contesto normativo. Sembra, quindi, addirittura lecito
sospettare che la Rand non vada oltre la conferma della differenza
specifica, anche se non sostenuto esplicitamente da lei tra logica
generale e logica delle norme. La prospettiva della Rand è dunque
inadeguata alla questione. Tuttavia è bene, anche ai fini di quanto segue,
porre l’accento sulla trattazione del principio del terzo escluso da parte
della Rand. Infatti l’autrice sostiene che questo principio trasposto in un
discorso normativo ha l’effetto di obbligare ad una, per così dire, scelta
di validità o invalidità: o è valido l’enunciato deetico positivo o è valido
l’enunciato deetico negativo. Ma puntando tutto sull’esclusività, nel
negare la possibilità di un medio di contraddizione, non dice nulla sulla
dimensione semantica, rispettivamente, di entrambi gli enunciati
contraddittori. Riteniamo la posizione sostenuta dalla Rand scricchiolante
e delle possibili critiche ne presenterò una, quella di Kelsen. Infatti il
giurista nega che sia possibile un utilizzo analogico del principio del
terzo escluso alle norme.
17
Così si esprime Kelsen:
“ Risulta qui che l’analogia che Rand
ha in mente è l’analogia fra la
validità di una norma e la verità di
un’asserzione. Ma questa analogia
non esiste. Infatti due norme
possono essere valide
pur essendo in conflitto fra di loro.
Esiste allora un conflitto di norme
di cui non si può negare la possibilità. E,
se questa analogia non sussiste, non
è possibile un’applicazione analogica
del principio logico di
non-contraddizione alle norme
28
. “
Il nucleo del ragionamento di Kelsen, e quindi del suo rifiuto
dell’analogia tra proposizioni e norme proposta dalla Rand, risiede nella
negazione di analogia tra verità di un’asserzione e validità di una norma.
Trattandosi, agli occhi di Kelsen, di due cose del tutto differenti, è facile
smontare la struttura del discorso della Rand.
Più interessante appare, invece, la ricognizione che la Rand compie
intorno alla teoria della verità, anche se l’interesse deriva più dalla
vivacità di reazioni che il suo studio ha provocato piuttosto che
dall’importanza in sé del medesimo.
Comunque la posizione della Rand, in proposito, non è molto originale
rispetto a quanto aveva sostenuto finora. Infatti, partendo dal nostro
stesso presupposto, cioè che le norme sono enunciati non-apofantici,
l’autrice sostiene che le funzioni di verità non si applicano né
direttamente né indirettamente ma solamente per analogiam
29
.
Anche a questo proposito la sua posizione appare carente e confusa,
priva forse di quel rigore che le avrebbe certamente consentito al
contrario di raggiungere vette ben più elevate.
28
Cfr. Hans Kelsen, Allgemein Teorie der normen, 1978( Trad. It. Einaudi, Torino,
1985, p. 358).
29
Cfr. Lorini, op. cit.