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paesi in via di sviluppo, e in particolar modo sono 10 volte superiori
per quanto riguarda il consumo di energia.
Così, anche con una popolazione mondiale stazionaria, se i consumi
nei paesi poveri fossero innalzati agli attuali livelli di quelli ricchi,
l'impatto ambientale risulterebbe addirittura decuplicato.
Ma la popolazione mondiale non rimarrà stazionaria, in quanto si
prevede che raggiungerà gli 8 miliardi entro il 2.020.
In seguito dovrebbe stabilizzarsi su cifre non inferiori ai dieci miliardi
secondo la maggior parte delle proiezioni, e quindi circa il doppio
rispetto ad oggi.
Se una popolazione di queste dimensioni, dovesse raggiungere nella
sua totalità gli attuali livelli di consumo dei paesi ricchi, il suo impatto
sull'ambiente sarebbe di circa 20 o 30 volte superiore a quello che si
produce oggi.
Chiunque ritenga che questa sia una possibilità remota commette un
grave errore, e lo stesso vale per chi crede che l'attuale divisione della
popolazione mondiale fra una minoranza opulenta e una maggioranza
molto povera possa essere sostenuta indefinitamente.
Nonostante sia rapidamente cresciuta negli ultimi anni la
consapevolezza nei confronti di queste problematiche, le spinte
dominanti dello sviluppo economico tradizionale non offrono particolari
vie d'uscita.
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Al contrario, i mezzi di comunicazione moderni e soprattutto la
televisione, stanno vincolando sempre più decisamente la popolazione
mondiale ai valori consumistici diffusi dai governi e dalle imprese
dell'occidente industrializzato.
Nel frattempo, mentre i paesi più ricchi hanno accelerato la loro corsa
lungo la via tradizionale dello sviluppo economico, il divario in termini
di benessere fra i paesi ricchi e quelli poveri, e all'interno di ogni
nazione fra chi è ricco e chi è povero, diventa sempre più ampio.
Una priorità assoluta per il XXI secolo appena iniziato, potrebbe
senz'altro essere quella di consolidare nell’opinione pubblica mondiale
la consapevolezza che questo sistema è nel complesso responsabile
della propria miopia, e che uno dei traguardi più importanti sta
diventando quello di sbarazzarsi una volta per tutte dell’idea che la
crescita economica, nel modo in cui viene misurata e concepita
tradizionalmente, sia il sinonimo o il presupposto del progresso
economico e sociale.
Se la crescita economica comporta il continuo aumento della povertà e
della dipendenza, e l'aumento della distruzione dell'ambiente, allora è
senz'altro un fenomeno negativo.
Se si intendono percorrere nuove rotte sulla via dello sviluppo
economico, è necessario riconoscere innanzitutto che il sistema
economico unitamente alla disciplina che ne permette l’applicazione in
ambito sociale, e cioè l'economia politica, sono diventati talmente
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astratti e tecnicistici, talmente monopolizzati dai presunti esperti, e
quindi in poche parole talmente noiosi agli occhi della maggioranza, da
far desistere da ogni tentativo di indagarli in profondità.
Il risultato è che poche persone sostengono fermamente la necessità di
operare trasformazioni economiche radicali.
La gente tende ad indirizzare il proprio impegno verso altre cause più
comprensibili, in quanto senza dubbio più urgenti, come la prevenzione
immediata del disastro ecologico, la povertà e la fame o la
conservazione delle specie viventi.
Il fatto è che negli ultimi anni chi ha sostenuto attivamente molte di
queste cause, si é reso conto che l'attuale ordine economico sbarra la
strada al proprio impegno ed è alla radice di molti dei problemi che
affronta.
Un numero sempre più alto di attivisti nel campo sociale ed ambientale,
dei loro sostenitori e simpatizzanti, si rende sempre più conto che la
scienza economica così come é concepita tradizionalmente non è una
scienza obiettiva, ma soltanto un punto di vista che corre il rischio di
mistificare e distorcere sia la realtà sia l'etica del comportamento degli
uomini verso gli altri esseri umani e verso la natura.
In pratica, l'ortodossia economica di qualunque genere, sia
capitalistica che socialista o prodotta da un misto delle due, se
applicata rigidamente può anche ostacolare l'attivismo sociale di molte
organizzazioni.
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Si pensi per esempio al Fondo mondiale per la Natura, cioè il “WWF”,
o “Greenpeace”, che operano per la conservazione della natura e
dell'ambiente, o ad associazioni come la “United Nations Association”,
impegnata a sostenere e a sviluppare forme di governo democratiche
per una società di dimensioni mondiali, o ancora alla “Survival
International”, impegnata nella protezione delle comunità tribali e
indigene in molte regioni del mondo, e a tutte le persone che si
impegnano attraverso l'istituzione di comitati con una operatività
geograficamente limitata, ma che spesso fanno capo a progetti di più
ampio respiro come ad esempio quelli promossi da “Legambiente”, o
che magari hanno innumerevoli interessi altrettanto importanti in
settori come la salute, la nutrizione, la povertà, la disoccupazione, la
casa, l'educazione, i ghetti urbani, la pace, il disarmo e così via.
I sostenitori di queste e di molte altre cause, avvertono in modo
evidente una certa frustrazione derivante dagli imperativi della scienza
economica tradizionale, in quanto nonostante siano impegnati in forme
molto diverse in un'ampia gamma di settori, hanno in comune
l'appartenenza ad un'unica comunità mondiale composta di individui e
organizzazioni, di movimenti e gruppi, che condividono tutti un
interesse comune a cambiare le abitudini, le politiche, i principi e gli
imperativi della scienza economica tradizionale in funzione soprattutto
del modello di sviluppo che ci viene costantemente imposto.
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ANALISI STORICA
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ANALISI STORICA
Pochi concetti economici hanno assunto nel corso del tempo un
ventaglio di significati ampio come quello di sviluppo, che possono
tuttavia essere inseriti in linea di massima, nell’ambito di una
definizione generalizzata di sviluppo economico, inteso come quel
processo che determina la crescita della produzione di beni e servizi a
disposizione di un numero sempre più elevato di persone.
I “padri” dell’economia classica diedero grande rilievo al tema dello
sviluppo, per esempio Adam Smith espose la sua teoria sull’argomento
attraverso la sua opera principale “La ricchezza delle nazioni”,
sostenendo che tale ricchezza dipende essenzialmente da due fattori, e
cioè la quota dei lavoratori produttivi sul totale della popolazione e la
capacità produttiva di ciascun lavoratore.
Secondo Adam Smith la produttività aumenta man mano che
progredisce la divisione del lavoro, che è favorita dall'espansione dei
mercati a sua volta legata allo sviluppo economico.
Per Smith dunque, la chiave dello sviluppo economico è da ricercarsi
nella divisione del lavoro, e infatti alla fine del 700 scriveva : “Se un
solo uomo dovesse svolgere il compito di effettuare tutte le operazioni
necessarie alla produzione di un semplice spillo, e cioè trafilare la
sagoma di ferro, tagliarla, arrotondarla, tornire la capocchia e affinare
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la punta, la quantità di spilli da lui prodotta sarebbe estremamente
esigua.
Se invece ogni uomo si specializzasse in una operazione soltanto, la
quantità prodotta si accrescerebbe di cento volte”.
Nel secolo successivo, cioè nell'800, David Ricardo partirà proprio da
quest'opera fondamentale di Adam Smith per parlare di sviluppo
economico, considerandone però non più solo l'aspetto qualitativo,
cioè la divisione del lavoro, ma soprattutto l'aspetto quantitativo, cioè
la stretta correlazione che lega la produttività di una nazione alla sua
naturale dotazione di risorse.
In pratica Ricardo compie un passo avanti nell'analisi intrapresa da
Smith, considerando che se lo sviluppo economico è legato alla
produttività e per produrre di più è necessario suddividere il lavoro, è
anche vero che sarà possibile produrre di più solo se si è in possesso
oltre che di un maggior numero di lavoratori tra i quali ripartire tale
produttività, anche di risorse da poter sfruttare, in base alla tipologia
delle quali si potrà identificare la produzione più conveniente.
Perciò nell'economia classica, la ricerca delle cause che determinano
lo sviluppo economico di una nazione è in un primo momento
individuata da Smith nella suddivisione del lavoro, e successivamente
da Ricardo nella sua specializzazione, esprimendo questo concetto
attraverso la “teoria dei vantaggi comparati”.
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Così per esempio agli inizi del secolo scorso il grano costava meno
negli Stati Uniti che in Gran Bretagna, perché negli Stati Uniti la
terra era molto più abbondante rispetto alla forza lavoro, e il grano
richiede come fattore produttivo principale abbondanza di terreni
coltivabili.
Ma nello stesso periodo il cotone costava meno in Gran Bretagna che
negli Stati Uniti, perché in gran Bretagna pur essendo i terreni
coltivabili poco abbondanti vi era una discreta disponibilità di forza
lavoro, e il cotone richiede come fattore produttivo principale la forza
lavoro necessaria per la sua manifattura, e quindi sia la forza lavoro
necessaria per la fabbrica, sia la forza lavoro impiegata indirettamente
nella costruzione delle attrezzature usate nel processo produttivo.
Nell'esempio proposto quindi, gli Stati Uniti guadagnavano
dall'esportazione di grano alla Gran Bretagna, che a sua volta
guadagnava dall'esportazione di cotone agli Stati Uniti.
Secondo la teoria dei vantaggi comparati di David Ricardo, gli Stati
Uniti si erano specializzati nella produzione di grano, mentre la Gran
Bretagna nella produzione di cotone.
Dalla seconda metà dell'800, le attenzioni degli economisti si
spostarono dai meccanismi che determinano lo sviluppo economico,
alla distribuzione della ricchezza che ne deriva e quindi alla
distribuzione del reddito.
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Karl Marx diversamente dai suoi predecessori, non era interessato
principalmente ai meccanismi che determinano l'aumento della
produttività, bensì ai reali rapporti sociali sottostanti, arrivando a
sostenere lo sfruttamento dei lavoratori da parte dei capitalisti e
inneggiando alla lotta di classe.
Secondo Marx, la produttività cresce sotto la spinta della naturale
propensione del capitalista all'accumulazione, prima ancora che
attraverso l'attuazione dei meccanismi individuati dagli economisti
classici, e cioè la suddivisione del lavoro per Adam Smith e la sua
specializzazione per David Ricardo.
Marx affronta soprattutto la teoria del valore, sostenendo che come
tutte le merci, la forza-lavoro ha un valore determinato dalla quantità di
lavoro necessario affinché il lavoratore sia in grado di procurarsi i
mezzi di sussistenza indispensabili per se stesso e per la sua
famiglia.
Se supponiamo che nell'arco di quattro ore il lavoratore è in grado di
creare un valore uguale a quello dei mezzi di sussistenza di cui
necessita in un giorno, risulta evidente che il capitalista non compra in
realtà quattro ore di lavoro al giorno, ma compra il lavoratore per un
giorno intero che solitamente corrisponde al doppio, cioè a otto ore
lavorative.
Di conseguenza, nelle prime quattro ore di una normale giornata
lavorativa il lavoratore crea il valore della sua forza lavoro, che gli
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viene pagata sotto forma di salario, mentre nelle altre quattro ore crea
un uguale ammontare di plusvalore, che tuttavia appartiene al
capitalista in virtù della sua proprietà sui mezzi di produzione.
Tale plusvalore è direttamente proporzionale al profitto conseguibile
dal capitalista, e il suo incremento strettamente dipendente
dall'incremento della produttività del lavoratore, che determina
l’incremento del profitto stesso.
Il motivo per cui si assiste ad un costante aumento della produttività e
quindi della capacità produttiva della massa operaia, è da ricercarsi
secondo Marx nella spinta all'accumulazione del capitalista, e quindi
nella sua ricerca costante di un maggiore profitto e di conseguenza di
un sempre crescente plusvalore.
Il punto fondamentale di questa teoria consiste nel fatto che ad
aumentare è il plusvalore e non il valore del lavoro, in pratica aumenta
la produttività e quindi il profitto ma non il salario dei lavoratori, che
non sono di conseguenza in grado di elevare i consumi e rispondere
adeguatamente all'aumento della produttività e quindi della produzione.
Dal canto suo il capitalista, deve migliorare ed espandere il suo
capitale e quindi aumentare la sua capacità produttiva, non tanto per
fare fronte ad un aumento dei consumi che risulta improbabile dal
momento che i salari rimangono costanti, ma soprattutto al fine di
evitare di essere estromesso dall'attività produttiva da concorrenti più
efficienti e con meno scrupoli.
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In questo senso, l'aumento della produttività da parte di un capitalista
si realizza a scapito di altri, e il conseguente aumento del profitto è
inevitabilmente destinato nella maggior parte dei casi alla semplice
accumulazione piuttosto che al reinvestimento, dal momento che man
mano che nel mercato diminuisce il numero dei concorrenti, il profitto
si concentra nelle mani di un numero sempre minore di capitalisti
prefigurando una struttura oligarchica, e secondo Marx un sistema
capitalistico di questo tipo alla fine, non può che entrare in fatale
conflitto con se stesso.
L'analisi marxista del concetto di produttività, risulta essere innovativa
rispetto all'analisi economica classica tutta incentrata sulle
metodologie applicabili per incrementarla, in quanto viene slegata dal
concetto di sviluppo economico.
Infatti, sulla base di questa teoria sarebbe il caso di chiedere ai cinesi
che si dichiarano ancora marxisti, il perché incorporano nelle loro
crescenti esportazioni un salario estremamente basso, creando seri
problemi ai paesi che invece incorporano nei prezzi dei prodotti salari
più elevati, e che nella maggior parte dei casi non si dichiarano
marxisti.
In pratica, l'aumento della capacità produttiva di un paese non significa
necessariamente aumento dello sviluppo economico sociale, dal
momento che i salari possono restare bassi e quindi non si attuerebbe
alcuna redistribuzione del reddito.
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L’analisi marxista aveva quindi individuato una evidente discontinuità
tra i processi relativi alla produttività e il processo di sviluppo
economico, in quanto l’uno non determinava l’altro in un mercato di
tipo capitalistico autoregolamentato, e la conferma si ebbe negli anni
successivi, dal primo dopoguerra fino agli anni ’50.
Si dovette attendere il clima politico instauratosi nel secondo
dopoguerra, per vedere reintegrato il concetto di produttività all’interno
di un percorso di sviluppo economico e sociale, con l’applicazione di
politiche economiche ispirate alle teorie keynesiane.
Il primo conflitto mondiale aveva portato al crollo dell'attività
economica non solo in Europa ma anche oltre i confini, dato che le
ostilità avevano luogo anche per mare.
Dopo il 1918, durante la fase di ricostruzione, le tendenze
inflazionistiche e i problemi legati alla gestione dei debiti di guerra,
misero a repentaglio il sistema monetario internazionale e quindi i
processi legati allo sviluppo economico internazionale.
Ad aggravare la situazione subentrò la violenta crisi del 1929, originata
da un’ondata speculativa che investì la borsa di New York.
La crisi si estese all'Europa, provocando il crollo della produzione, dei
salari e dei prezzi in tutti i grandi paesi industrializzati.
A tratti la disoccupazione arrivò a interessare il 50% della popolazione
attiva.