INTRODUZIONE
8
Il sistema globale, però, dopo aver reso interdipendente ogni parte
del pianeta, ha dovuto prendere atto della sua finitezza e di quella
delle sue risorse, e dell’impossibilità, da parte di quest’ultimo, di
poter nutrire una crescita, produttiva e demografica, considerata
strutturalmente esponenziale, tendente ad incrementare la propria
pressione sull’ambiente.
Gli effetti di ciò sono divenuti evidenti e, per alcuni, preoccupanti.
Mentre una ridotta parte della popolazione gode di un benessere
quasi estremo, una grossa fetta di questa, concentrata, soprattutto
(ma non solo) nei paesi che ai tempi della Guerra Fredda furono
definiti del “Terzo Mondo”, è costretta a vivere di stenti, a patire la
fame, a non poter godere di beni che, spesso, essa stessa produce, ma
i cui proventi vanno a vantaggio d’economie lontane migliaia di
chilometri.
Anche l’ambiente ha cominciato a sentire il peso della crescita, sia
per l’impossibilità di fornire risorse, sia per quella di assorbirne i
rifiuti. L’inquinamento è diventato un problema planetario, capace di
minacciare non solo l’esistenza delle specie che lo abitano, ma lo
stesso equilibrio dell’ecosistema globale, la biosfera. Fenomeni
diversi, quali la paventata estinzione delle balene o l’effetto serra, la
denutrizione o la deforestazione d’immense aree boscose, hanno
alimentato in alcuni la preoccupazione che i danni prodotti potessero
essere irreversibili, e che in ogni caso gli effetti negativi della
produzione e dello stile di vita occidentale rappresentassero una
triste e pericolosa eredità da trasmettere ai propri figli.
Da ciò la necessità di trovare soluzioni ai problemi ambientali, ma
soprattutto di ricercare nuovi modelli di sviluppo che tenessero da
conto, oltre che delle problematiche strettamente economiche, di
quelle ecologiche, umanitarie, morali.
INTRODUZIONE
9
L’Organizzazione delle Nazioni Unite, a quindici anni dal celebre
Rapporto Meadows che per primo rilanciò con forza nel dibattito
scientifico, attualizzandolo, il tema malthusiano della finitezza delle
risorse, promosse una commissione di studio, presieduta dal primo
ministro norvegese Gro Harlem Brundtland, che nel l987 pubblicò il
proprio rapporto dal titolo Our Common Future
1
, nel quale la
soluzione veniva individuata in una forma di sviluppo, chiamato
“sostenibile”, capace di soddisfare “i bisogni delle generazioni
presenti senza compromettere le possibilità per le generazioni future
di soddisfare i propri.”
Questa definizione, apparentemente semplice ma dalle implicazioni
notevoli, è divenuta la base di un nuovo modello interpretativo dei
fenomeni economici, tra i quali la crescita, che viene valutata, sotto
questa nuova luce, in termini qualitativi oltre che quantitativi.
Lo sviluppo sostenibile, infatti, chiede maggior equità
(infragenerazionale e intergenerazionale) nella distribuzione della
ricchezza e dello sviluppo, un’attenzione basilare a che la ricchezza
sia indirizzata al soddisfacimento dei bisogni essenziali di tutte le
fasce della popolazione, impone di organizzare la produzione e
l’utilizzo delle risorse nel rispetto della natura e degli equilibri
ecologici, puntando alla conservazione delle risorse e all’utilizzo di
tecnologie “pulite”.
Date le evidenti disparità della crescita produttiva e dei consumi,
anche i rapporti internazionali, secondo questo paradigma,
andrebbero ristrutturati, principalmente trasformando un sistema
mondo selvaggio, guidato dalla mano invisibile (o
1
pubblicato in Italia da Bompiani con il titolo Il futuro di tutti noi.
INTRODUZIONE
10
chandlerianamente visibile) del mercato, in un sistema regolato,
indirizzato verso le mete dello sviluppo sostenibile.
I paesi del centro e della periferia, inoltre, dovrebbero regolare le
loro relazioni in merito alle questioni ambientali ed all’utilizzo delle
risorse. La pressione sull’ecosistema Terra è tale da non poter
beneficiare d’espedienti parziali o regionali, ma necessita di essere
affrontata in termini globali. Purtroppo le nazioni sviluppate e quelle
sottosviluppate o in via di sviluppo esprimono divergenze notevoli
nel trovare soluzioni comuni.
La fascia intertropicale è una delle regioni al centro di queste
dispute ma anche quella privilegiata, in potenza, da un possibile
sviluppo alternativo, dati i beni e servizi ambientali che fornisce e la
varietà e la ricchezza dei suoi ecosistemi, intatti in percentuali
maggiori che in altre parti del Pianeta.
All’interno di questa fascia, la foresta Amazzonica è una regione che
svolge un ruolo fondamentale nei processi ecologici mondiali, e che,
nonostante lo sconsiderato sfruttamento, è riuscita, grazie alla sua
estensione, a conservare gran parte delle proprie risorse, della
biodiversità, delle sue culture e del fascino che da sempre ha
esercitato sull’uomo.
L’Amazzonia è una regione che ha visto incrementare il carico
ambientale soprattutto sotto forma di prelievo di materie prime,
poiché i paesi che hanno sovranità su di essa hanno cercato di
sfruttarla, nel comprensibile tentativo di risanare le loro economie
arretrate ed oberate del debito estero.
Tutto ciò rende la foresta un’area dove il tentativo di applicare un
modello di sviluppo sostenibile, più che auspicabile, si manifesta
necessario, sia per garantire all’intero Pianeta di poter continuare a
beneficiare dei servizi ambientali che essa fino ad oggi ha fornito,
INTRODUZIONE
11
sia per garantire un miglioramento della qualità della vita degli
abitanti del bacino amazzonico.
La ricerca di soluzioni deve essere attenta alle peculiarità ed alle
problematiche locali, poiché, nonostante l’auspicio che l’ecosistema
amazzonico possa essere gestito unitariamente, le differenze tra i
nove paesi che v’insistono potrebbero rendere la ricerca di soluzioni
generali utopica o troppo impregnata d’astrattismo.
Per il Perù, oggetto di studio di questa tesi, la realtà amazzonica è
estremamente importante dato che questa regione occupa circa il
70% del territorio nazionale, ed è ricca di ecosistemi e di specie
animali e vegetali considerabili alla stregua di un capitale sociale.
Nonostante ciò, in questo paese, essa non ha mai beneficiato di un
tentativo di sviluppo autonomo, ma piuttosto è sempre stata vista
come un’area in grado di risolvere od assorbire i problemi d’altre
parti del paese, teatro di conflitti sociali. Nelle sue risorse si è vista,
infatti, la possibilità per pagare il debito estero o per fare facili
guadagni, nelle sue distese quella di rilocalizzare la crescente
popolazione andina.
E’ quindi il prelievo delle materie prime che ha caratterizzato e
caratterizza la vita economica della regione: inevitabile, quindi, che
le attività abbiano diversi impatti sull’ambiente.
L’attività agricola, stimolata da programmi governativi che
incentivarono migrazioni di coloni dalle regioni andine, è quella che
ha prodotto i maggiori danni all’ecologia amazzonica. L’assenza
d’informazioni sulla regione fece credere che una vegetazione così
ricca non potesse che crescere su suoli fecondi e fertili. I governi,
così, programmarono migrazioni massive, contando di soddisfare in
tal modo la crescente e drammatica domanda di terra da parte degli
abitanti andini. Costoro, a propria volta, provenendo da regioni
INTRODUZIONE
12
ecologicamente, climaticamente e geomorfologicamente differenti,
adottarono metodi di coltura inefficaci ed improduttivi, ma proprio
per questo altamente impattanti.
Di fronte alle problematiche della nuova realtà molti coloni, per
scampare ad una rinnovata povertà, hanno dovuto scegliere tra
emigrare verso la città o trovare altre terre da coltivare, ma alcuni
hanno preferito una terza alternativa, la coltivazione illegale della
pianta della coca, che ha aggiunto ai problemi ambientali quelli
sociali.
Queste attività si sono concentrate soprattutto nella Foresta Alta,
vale a dire quella regione amazzonica che occupa le pendici
occidentali andine, mentre nella Foresta bassa si cercarono risorse
differenti, quali quelle forestali e quelle minerarie, e in particolare
gli idrocarburi.
Le popolazioni native (si potrebbe dire di conseguenza, ma anche in
prospettiva storica) sono quelle che hanno sofferto maggiormente dei
tentativi di colonizzazione e sfruttamento della foresta. Fino alla
metà degli anni settanta la loro presenza è stata interpretata come un
ostacolo, ma anche quando l’attenzione internazionale si è
interessata della loro condizione, il paese non è stato in grado di
fornire loro una legislazione che consentisse di conservarne la
cultura, lo stile di vita e in ultimo (o forse primariamente) i loro
atavici territori, riuscendo ad evitare un penoso conflitto d’interessi
con le altre collettività peruviane.
Inoltre, dipendendo strettamente ed in modo non mediato
dall’ambiente, sono le popolazioni amazzoniche a subirne
direttamente le crescenti traiettorie di squilibrio. L’inquinamento,
peraltro, ha ripercussioni nocive sugli abitanti, non solo nativi, della
foresta rurale, ma anche sulla popolazione urbana, che vive in centri
INTRODUZIONE
13
privi delle infrastrutture igieniche considerate di base della città,
quali le fogne o il semplice servizio di acqua potabile.
Un progetto di sviluppo sostenibile per l’Amazzonia non può,
quindi, che porre al centro, innanzitutto, queste popolazioni,
attribuendo loro un ruolo centrale, sia per restituirgli l’antica dignità
ma anche per attingere dalle loro conoscenze soluzioni per uno
sviluppo compatibile con le esigenze dell’ambiente.
CAPITOLO PRIMO
14
1. I LIMITI DELLO SVILUPPO
1.1 La crescita esponenziale
Sin dall’epoca della rivoluzione industriale, ma in realtà già nel
capitalismo cosiddetto mercantile, che darà luogo alla “economia
mondiale europea”
1
, il concetto di crescita è il comportamento
dominante del sistema socioeconomico. La caratteristica di questa
crescita è quella d’essere esponenziale ovvero di incrementare una
grandezza di una quota proporzionale alla grandezza stessa.
Come fanno notare Paul e Anne Ehrlich
2
, essa spesso appare lenta
all’inizio e rapida alla fine, destinata, quindi, a provocare grandi
sorprese.
Un indovinello per bambini è stato impiegato da vari autori per
esemplificare questa situazione. Una pianta acquatica cresce
raddoppiando ogni giorno la superficie di stagno da essa occupata,
fino a coprirlo interamente dopo di un mese. Per salvare lo specchio
d’acqua si decide di intervenire quando la pianta lo avrà ricoperto
per metà; da indovinare è quando ciò accadrà. La risposta è
semplice: il ventinovesimo giorno; avremo quindi un solo giorno per
impedire che il laghetto venga interamente ricoperto! Per tutto il
mese la pianta è stata di dimensioni non preoccupanti, si pensi che il
venticinquesimo giorno occupa solamente un trentaduesimo di
stagno, fino a raggiungere il suo limite di crescita tutt’ad un tratto,
in un solo giorno, trasformando un fenomeno controllabile in un
evento potenzialmente devastante.
1
Wallerstein, 1989.
2
P.R.Ehrlich, A.H.Ehrlich, 1991.
I LIMITI DELLO SVILUPPO
15
La popolazione ed il capitale, inteso come gli impianti fisici
(hardware, macchine, fabbricati, attrezzature) che producono beni e
servizi economici
3
, sono i motori della crescita del mondo
industrializzato e sono dell’entità che possono crescere
esponenzialmente traendo alimento da se stesse, autoriproducendosi.
Così come i figli generano altri figli che genereranno altri figli,
l’apparato industriale crea macchinari o prodotti che vengono
impiegati in altre fabbriche per produrre altre macchine o prodotti.
La capacità del tasso demografico, così come quella del capitale, di
crescere esponenzialmente è strutturale, in altre parole è una
potenzialità, ma, poiché influenzabile da fattori esterni, non è
necessariamente riscontrabile nella realtà.
Un sistema produttivo è limitato da moltissimi fattori, quali, ad
esempio, la domanda dei consumatori o la disponibilità di mano
d’opera, ed è per questo che, benché ci si aspetti che l’economia
cresca in continuazione, è soggetto a momenti di stallo o di
retrocessione.
Controllo delle nascite od alti tassi di mortalità possono invece
ridurre l’incremento demografico, che però cresce, come d’altronde
il capitale, ogni qualvolta gliene si offra la possibilità. Ciò è quanto
è avvenuto fino ad oggi con una popolazione cresciuta nel ventennio
1970-1990 da 3,6 a 5,4 miliardi
4
e con un tasso medio annuale
d’incremento della produzione totale pari a 3,3%
5
. Ad oggi le stime
della Population Division dell’Onu accreditano per il 1999 il
raggiungimento di quota sei miliardi.
3
D.H.Meadows, D.L. Meadows, J.Randers, 1993.
4
Nazioni Unite, Population Reference Bureau, World population data sheet,
Washington, 1991.
5
Fonte: Nazioni Unite, Population Reference Bureau.
I LIMITI DELLO SVILUPPO
16
Altre grandezze, quali la produzione alimentare, l’impiego di risorse,
l’inquinamento, traggono stimolo ad aumentare dalla crescita di
popolazione e del capitale industriale. Se la produzione d’alimenti o
l’impiego di fonti d’energia sono cresciuti, quindi, non è stato grazie
alla loro capacità strutturale ma perché la popolazione in crescita ne
ha richiesti di più.
Sono state queste considerazioni a far scrivere a D.H.Meadows che
“la crescita esponenziale è la forza motrice a causa della quale
l’economia umana sta avvicinandosi ai limiti fisici della Terra”
6
,
ammonendoci del fatto, spesso dimenticato, che il pianeta sul quale
viviamo è un sistema finito le cui risorse solo in parte sono
rigenerabili.
1.2 La crescita demografica
La crescita della popolazione ha segnato, nell’arco della presenza
dell’uomo sulla terra, alcuni momenti significativi, il primo dei quali
ha coperto un lasso di tempo che va da dopo l’invenzione
dell’agricoltura, intorno al 8000 a.C.
7
, fino a duemila anni fa,
quando la popolazione salì da 5 a 200-300 milioni, con un tasso di
crescita impercettibile, secondo gli standard attuali, ma che
rappresentò un’esplosione senza precedenti per una singola specie
animale
8
. Da questo momento essa ha continuato ad aumentare fino a
raggiungere i 500 milioni nel 1650 ed il miliardo nel 1800
9
,
raddoppiando in 150 anni, a causa della scoperta e della
6
D.H.Meadows, D.L. Meadows, J.Randers, 1993.
7
C.Clark, 1977.
8
P.R.Ehrlich, A.H.Ehrlich, 1991.
9
Questi dati sono basati sulle stime del Population Reference Bureau.
I LIMITI DELLO SVILUPPO
17
colonizzazione del nuovo mondo da parte degli europei, che
sostituirono le popolazioni indigene meno numerose e meno
progredite sul piano agricolo. Venne quindi la rivoluzione
industriale che migliorò le condizioni di vita degli occidentali a tal
punto da far calare i tassi di mortalità dal 38 per mille o più dei
periodi precedenti al 30, lasciando però invariati i tassi di natalità,
portando un ulteriore raddoppio in 130 anni. Nel 1970, mentre i
benefici dell’industrializzazione e, soprattutto, della medicina,
raggiungevano società sempre più distanti dall’Occidente, la
popolazione toccava i 3,6 miliardi, con un tasso di crescita, definito
“iperesponenziale”
10
, del 2,1% annuo, benché i tassi di natalità delle
regioni del “Centro”, dopo il baby boom del dopoguerra,
incominciassero a diminuire. Questa tendenza a ribasso dei tassi di
natalità si è protratta anche nel ventennio 70-90, riducendo il tasso
di crescita al 1,7% annuo, ma il numero d’abitanti della Terra ha in
ogni caso subito un’impennata raggiungendo i 5,4 miliardi; un
incremento di quasi due miliardi di persone in vent’anni! Gli ultimi
dieci anni, con un tasso di natalità del 1,4% ed una popolazione di 6
miliardi, hanno confermato questa tendenza, che probabilmente
caratterizzerà anche i decenni futuri poiché, secondo i calcoli del
Population Reference Bureau, nel 2010 saremo 6,8 miliardi e 8 nel
2025
11
.
Questi dati, basati su medie mondiali, ci aiutano a disegnare un
quadro generale della crescita demografica mondiale, però
nascondono fondamentali differenze regionali, che, se analizzate,
permettono di meglio comprendere i trend di crescita demografica.
10
D.H.Meadows, D.L. Meadows, J.Randers,1993.
11
Population Reference Bureau, 1999 world population data sheet, Washington,
1999.
I LIMITI DELLO SVILUPPO
18
Guardando i dati regionali si nota che mentre i paesi sviluppati
hanno un incremento limitato, in media dello 0,6% nell’ultimo anno,
i paesi meno sviluppati sono cresciuti in media del 2%, rilevando un
divario tra Sud e Nord del mondo riconducibile a disparità di
sviluppo economico. La situazione non è molto distante da quella
descritta dall’antico detto “il ricco fa denaro e il povero fa figli” con
i paesi più poveri del mondo, come il Burkina Faso o il Ciad, che
crescono annualmente del 3% o più, mentre quelli ricchi, come
Germania o Regno Unito, tendono a raggiungere la crescita zero.
L’Italia, dopo la Spagna, detiene questo primato negativo, con
appena 1,2 figli per coppia, al di sotto quindi del tasso di
riproduzione, fissato ovviamente a due.
Per descrivere questo fenomeno i demografi hanno elaborato la
teoria della transizione demografica
12
(figura 1) che spiega le
relazioni tra variazioni demografiche e tipologie di sviluppo
economico. La transizione demografica si può dividere in tre fasi,
nella prima delle quali, a causa d’alti tassi sia di mortalità sia di
natalità, la crescita della popolazione è all’incirca del 1%. Nella
seconda, i miglioramenti delle condizioni medico-sanitarie ed i
miglioramenti nella dieta alimentare fanno abbassare i tassi di
mortalità mentre quelli di natalità rimangono costanti, causando
un’impennata della popolazione, che poi tornerà a decrescere, nella
terza fase, secondo i ritmi della prima, a causa di una riduzione dei
tassi di natalità.
Per meglio descrivere la transizione dalla prima alla terza fase, la
seconda è stata a sua volta divisa in tre stadi. Il primo è
caratterizzato dalla diminuzione costante dei tassi di mortalità, che,
12
M.P.Todaro,1987.
I LIMITI DELLO SVILUPPO
19
nel secondo, si stabilizzano senza una conseguente diminuzione di
quelli di natalità, che avverrà nel terzo. E’, quindi, nel secondo
stadio della seconda fase che la popolazione subisce i maggiori
incrementi, ed è in questa situazione che si trovano la maggior parte
dei paesi dell’Asia, del Medio Oriente e dell’Africa, mentre i paesi
dell’America Latina e quelli in via di sviluppo si trovano nel terzo
stadio, quelli sviluppati nella terza fase.
La relazione tra diminuzione dei tassi di natalità e ricchezza di un
paese non è diretta, ma l’aumento del PNL stimola fattori, come
l’istruzione, l’occupazione femminile, il controllo delle nascite, la
diffusione di metodi anticoncezionali, che influiscono sui valori
demografici.
Figura 1. La transizione demografica. Fonte: P.Knox ,J. Agnew, 1996.
Il ritardo d’adeguamento dei tassi di natalità a quelli di mortalità è
dovuto al fatto che, nel momento in cui questi ultimi diminuiscono,
si avrà un incremento della popolazione in età giovanile, e bisognerà
attendere il tempo necessario all’invecchiamento della popolazione,
50-60 anni, affinché i tassi di natalità si riducano.
Negli anni novanta molti dei paesi meno sviluppati sono entrati in
questa fase, che corrisponde allo stadio due dello schema (figura 1),
I LIMITI DELLO SVILUPPO
20
detta di “inerzia demografica”
13
, ed è prevedibile, quindi, che la
popolazione continuerà a crescere per altri 50 anni, benché la
crescita sia prossima a raggiungere il livello di “sostituzione delle
generazioni”
14
(ogni coppia mette al mondo solo due figli).
Si può quindi prevedere, in conformità a questi dati, che gli
incrementi demografici nei prossimi anni avverranno nei paesi meno
sviluppati, che ne assorbiranno probabilmente lo 80%, mentre i paesi
sviluppati subiranno un graduale invecchiamento della popolazione.
1.3 La crescita industriale
Come si è detto, a fianco della popolazione, come motore di crescita
dell’economia umana, sta il capitale industriale. Pur sviluppandosi
secondo andamenti ciclici, ossia alternando a momenti di crescita
rapida momenti di crescita lenta o di stagnazione, l’economia è in
grado di stimolare se stessa prelevando e reinvestendo parte del
prodotto annuo per incrementare le capacità produttive future.
Secondo la teoria dei cicli non è necessario che nei momenti di
recessione vi sia una diminuzione assoluta della crescita ma solo un
calo rispetto al suo trend, che, quindi, nel lungo periodo, è positivo.
La produzione industriale mondiale dal 1930, nonostante brusche
variazioni, causate soprattutto dall’oscillazione del prezzo del
petrolio, ha seguito un andamento esponenziale che, nel ventennio
1970-1990, è stato del 100% circa, incrementando mediamente del
3,3% annuo (figura 2)
15
.
13
P.R.Ehrlich, A.H.Ehrlich, 1991.
14
P.R.Ehrlich, A.H.Ehrlich, 1991.
15
Fonti: Nazioni Unite; Population Reference Bureau.
I LIMITI DELLO SVILUPPO
21
Come sottolineato dai rapporti del United Nation Development
Programme (UNDP), i dati generali nascondono enormi disparità
sulla reale distribuzione della ricchezza. L’UNDP, infatti, nota che il
quinto più ricco della popolazione mondiale, classificato in base al
prodotto lordo pro-capite, gestisce circa lo 81% del commercio
mondiale, il 94% dei risparmi e lo 82% della produzione, mentre per
il quinto più povero queste cifre si aggirano intorno al 1%, e che si è
venuta a formare un’élite di super ricchi; 225 persone che
guadagnano come i 2,5 miliardi della popolazione più povera
16
.
Benché questo dato non illustri differenze regionali e la diffusione
della povertà sia un fenomeno rilevante ed in crescita anche nei
paesi sviluppati, bisogna aggiungere che, dei 1300 milioni
d’individui che nel 1993 vivevano entro la soglia di povertà di un
dollaro al giorno, nessuno si trovava nei paesi del centro
17
.
Un ulteriore osservazione dell’UNDP afferma che, distinguendo tra
l’intero dei paesi sviluppati e l’intero dei paesi meno sviluppati, non
risaltano l’enormi differenze esistenti tra i paesi più sviluppati e
quelli meno sviluppati, come invece si evince dal fatto che all’inizio
degli anni sessanta il divario di reddito pro capite dei venti paesi più
ricchi e i venti più poveri era di 30:1 mentre alla fine degli anni
ottanta era 59:1 e di 74:1 alla fine degli anni novanta
18
. Sono quindi
i paesi più ricchi a trarre i maggiori benefici da questa crescita.
Anche la crescita all’interno dei vari settori economici si sviluppa in
termini ineguali. Le economie preindustriali erano supportate
soprattutto dall’agricoltura e commercio. Dopo la rivoluzione,
l’industria ha incominciato ad essere il ramo trainante per poi
16
UNDP, 1999.
17
UNDP, 1997.
18
UNDP, 1999.