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eventi traumatici, sia durante l’infanzia che in età successive (Caviglia, Perrella,
La Marra e Bisogno, 2007).
Alcune ricerche, per esempio, riferiscono che i bambini vittime di esperienze
traumatiche sviluppano una serie di comportamenti problematici e sembrano
mettere in atto dei meccanismi difensivi estremamente primitivi. In particolare,
sembrerebbe che i bambini vittime di abuso sessuale manifestino maggior
evitamento e ritiro sociale, mentre quelli abusati fisicamente tendano ad essere
più aggressivi verso gli altri, al contrario di quelli trascurati, che tendono ad
essere più passivi (Martin, 1976, Yates, 1981, Lynch, Roberts, 1982, cit. in
Crittenden, 1994). Conseguenze evidenti sin dall’età prescolare sembrano essere
sentimenti di paura, ricorrenti incubi notturni, tratti d’ansia e quadri sintomatici
riconducibili al disturbo post traumatico da stress (Piperno et al., 1998; Piccolo,
1998); nell’adolescenza, invece, sono frequenti i tentativi di suicidio e le
tendenze all’abuso di sostanze e di alcool (Spaccarelli, 1994).
Altre ricerche empiriche hanno dimostrato, invece, come fra i soggetti adulti che
avevano subito esperienze traumatiche durante l’infanzia, sia possibile ritrovare
patologie caratterizzate da deficit nella modulazione delle emozioni e
dell’integrazione in generale, come per esempio i disturbi dell’alimentazione
(Vanderlinder, Vandereycken, 1997), il disturbo borderline di personalità (Briere,
Zaidi, 1989; Wagner, Linehan, 1997), il disturbo post traumatico da stress
(Piccolo, 1998), i disturbi dell’umore (Francia-Martinez et al., 2003, Saunders, et
al. 1992), i disturbi dissociativi (Van der Kolk, 2002), i comportamenti
autodistruttivi e autolesionistici (Saunders et al., 1992; Zoroglu et al., 2003),
l’abuso di sostanze (Fellitti et al., 1998) e i disturbi di personalità in generale
(Stalker, Davies, 1995).
In particolare, ci sono molti elementi che portano a supporre che l’abuso infantile
intrafamiliare, specie se prolungato, predisponga all’uso della dissociazione
9
come strategia difensiva nelle successive situazioni stressanti della vita e/o come
strategia di strutturazione della personalità (Caviglia, Perrella, La Marra e
Bisogno, 2007).
Il fatto che nella psicopatologia sia presente una certa continuità (Kenberg,
Weiner e Bardenstein, 2000), porta necessariamente ad assumere una prospettiva
evolutiva per cercare di comprendere i meccanismi patogenetici nel tentativo di
giungere all’identificazione dei loro fattori di rischio e di resilienza (Bleiberg,
2001).
Per molto tempo l’interrogativo riguardante il passaggio dall’infanzia all’età
adulta della psicopatologia non ha trovato risposta, tuttavia la riflessione sui
possibili itinerari trasformativi ha portato a formulare alcune ipotesi sul
significato dei disturbi ad esordio precoce (op.cit.).
Recenti studi hanno, infatti, posto l’accento sul ruolo di alcune patologie
comportamentali e affettivo-relazionali come promotrici del processo che
conduce alla formazione di personalità “atipiche” (ibid.).
Sembrerebbe che le conseguenze provocate dai disturbi primari possano
concorrere al consolidamento di tratti della personalità disadattivi, che
modificano gradualmente la struttura di personalità sottostante portando
all’esordio precoce dei disturbi della personalità (ibid.).
In questi casi sembra che la traiettoria evolutiva raggiunga un punto critico
quando i bambini, colpiti da vulnerabilità genetiche, da sensibilità insolite, da
intromissioni traumatiche e da disaccordo intermittente, sviluppano strategie
protettive per affrontare gli eventi che si affidano all’inibizione attiva della
funzione riflessiva (ibid.).
Nel presente lavoro sarà sviluppata, in maniera specifica, l’ipotesi di come uno
specifico fattore di rischio psicologico, l’evento traumatico, interagendo con la
10
vulnerabilità individuale, creata dai tratti (fattori biologici), sia implicato nella
genesi di gravi disturbi, fra cui soprattutto quello della personalità borderline.
Come precedentemente riferito, il precoce sviluppo di gravi disturbi della
personalità è associato all’inibizione, da parte dei bambini, della funzione
riflessiva come modalità di difesa, rispetto relazioni di attaccamento traumatiche
(Bleiberg, 2001).
La funzione riflessiva è una capacità fondamentale dell’essere umano per potersi
destreggiare nel mondo sociale e un requisito essenziale per uno sviluppo
armonioso del sé, solitamente acquisita all’interno di un contesto sicuro di
attaccamento (Fonagy, 1997).
Questo è uno degli aspetti per cui la teoria dell’attaccamento attribuisce molta
importanza alla qualità delle relazioni precoci fra il bambino e il suo caregiver
(ibid.).
Sembra, infatti, che queste svolgano un ruolo decisivo per lo sviluppo del
concetto di sé, da parte del bambino, attraverso i processi di mentalizzazione e
che influenzino le sue capacità di modulazione degli affetti e di interpretazione
della realtà, assieme alle rispettive manifestazioni comportamentali,
determinando così il suo adattamento o disadattamento evolutivo (Fonagy, 1997).
Bowbly aveva considerato l’importanza dell’attaccamento sia per lo sviluppo
normale della personalità, sia per la sua organizzazione patologica, dimostrando
l’esistenza di una correlazione fra scadenti condizioni di vita, in particolare la
privazione di adeguate cure materne, e la psicopatologia, o quanto meno la
sofferenza psichica (Bowbly, 1969; 1973; 1980).
Tuttavia egli aveva considerato l’inadeguatezza delle relazioni primarie di
attaccamento come uno dei possibili fattori di rischio tali da condurre al
disadattamento della personalità, riconoscendo l’importanza di altri fattori
protettivi che potevano incidere sulla traiettoria dello sviluppo (infra).
11
“Assolutamente non si può definire che un attaccamento insicuro anticipi
sicuramente disturbi psicopatologici nell’età adulta. Ad ogni individuo si prospetta
una gamma possibile di percorsi di sviluppo e quello su cui procederà verrà
determinato in ogni istante dall’interazione dell’individuo, com’è in quel momento,
con l’ambiente in cui gli capita di essere, a tal punto che in nessuna età della vita si
è invulnerabili di fronte a possibili avversità o impermeabili ad un’influenza
favorevole” (Bowbly, 1988).
I modelli di attaccamento, nel ruolo di fattori protettivi o di rischio, vengono
considerati delle strategie di regolazione affettiva, in cui le emozioni assolvono la
funzione di valutare contemporaneamente l’ambiente circostante, lo stato
dell’organismo, la disponibilità delle figure di attaccamento e l’eventuale
successo del comportamento di attaccamento nel mantenere un senso di sicurezza
interno.
Tuttavia alcune di queste strategie si rivelano efficaci solo nell’ambito della
relazione di attaccamento che le ha suscitate, mentre in altri contesti possono
costituire dei fattori di rischio per il disadattamento (Main e Hesse, 1990; 1992).
L’attaccamento risulta collegato alla psicopatologia, in quanto le interferenze che
il suo sviluppo può talvolta subire, hanno dei risvolti nella costruzione del sé
(Fonagy, 1996).
Si ritiene, in linea generale, che un modello sicuro di attaccamento conduce ad un
armonioso sviluppo del sé e pertanto alla salute mentale (Fonagy, 2001).
La sicurezza dell’attaccamento favorisce, infatti, un regolare sviluppo della
funzione riflessiva, capacità per mezzo della quale il bambino riesce ad elaborare
l’esperienza in forma simbolica e a costruirsi una narrativa autobiografica,
superando in tal modo eventuali esperienze traumatiche e riuscendo nel corso
della vita a resistere alle situazioni avverse, senza incorrere nella patologia
(Bleiberg, 2001).
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I modelli insicuri di attaccamento, invece, che il bambino sviluppa in funzione
difensiva rispetto l’inadeguatezza delle cure ricevute dal caregiver costituiscono
dei fallimenti dello sviluppo normale del sistema dell’attaccamento e creano
delle vulnerabilità predisponenti alla malattia (Dazzi e Speranza, 2005).
Ulteriormente, il modello disorganizzato costituisce di per sé un importante
fattore di rischio psicopatologico (Liotti, 2001).
Nell’ambito delle prime relazioni di attaccamento il genitore, attraverso il suo
stile di accudimento, trasmette al bambino la rappresentazione (introiettata) della
propria relazione di attaccamento con le figure primarie, ma vi trasmette anche la
capacità di riflettere sul proprio e altrui stato mentale (Main, 1991).
Si ritiene che la qualità dell’attaccamento del bambino ad uno specifico caregiver
sia intrinsecamente collegata a due fattori prenatali: la rappresentazione interna,
da parte del caregiver, prevalente nelle relazioni e la sua capacità di riflettere
sullo stato mentale attuale del bambino (Fonagy e Target, 1997).
Il substrato cognitivo di quest’ultimo aspetto dello sviluppo emotivo può essere
definito in termini operazionali come disponibilità da parte del genitore di una
teoria della mente riguardo al bambino (ibid.).
Un’adeguata teoria della mente permette al genitore di riflettere e di gestire gli
affetti incontrollabili del bambino e, contemporaneamente, di limitare il suo
bisogno di proteggersi dalla presenza psicologica della figura di riferimento
(Fonagy e Target, 1997).
Gli attaccamenti insicuri si sviluppano nelle situazioni in cui il bambino è
costretto ad utilizzare comportamenti difensivi per proteggersi da un genitore con
un’insufficiente comprensione del suo stato mentale. In questi casi il genitore
pone il bambino di fronte le proprie abituali difese, che quest’ultimo
successivamente interiorizza. E’ probabile, invece, che il bambino sviluppi un
attaccamento sicuro se il modello interno del genitore è adeguato, dominato da
13
esperienze favorevoli, oppure se la funzione riflessiva del genitore è sufficiente
per prevenire l’attivazione di modelli operativi interni basati su esperienze
negative (ibid.).
In secondo luogo, le esperienze di attaccamento sicuro creano un contesto
favorevole per l’acquisizione di una teoria della mente, ossia di quella capacità
sociocognitiva che è ritenuta alla base della funzione riflessiva del sé (Fonagy e
Target, 1997).
Nel caso di relazioni traumatiche, invece, la teoria della mente del bambino non
viene affatto sviluppata (ibid.); il trauma blocca l’integrazione dell’elaborazione
implicita con quella esplicita, causando un deterioramento della funzione
riflessiva con conseguenze molto negative per lo sviluppo della personalità
(Bleiberg, 2001).
Contrariamente alla sicurezza dell’attaccamento e a validi processi di
mentalizzazione che costituiscono dei fattori protettivi rispetto la psicopatologia,
i modelli insicuri e quello disorganizzato rappresentano dei potenti fattori di
rischio, incidendo negativamente sullo sviluppo della funzione riflessiva (ibid.).
Quando il bambino è esposto a esperienze traumatiche di abuso, maltrattamento
o trascuratezza, soprattutto se perpetrate da una figura di attaccamento, egli si
trova a dover affrontare una situazione paradossale e irrisolvibile: la figura di
attaccamento è, infatti, essa stessa fonte di pericolo. Ne consegue che il bambino
dovrebbe fuggire dalla figura di attaccamento, perché fonte di pericolo, e
contemporaneamente avvicinarla come rifugio sicuro. Il conflitto che ne deriva
non è dunque risolvibile a livello comportamentale e il bambino, non riuscendo
ad adottare una strategia coerente nei confronti della propria figura di
attaccamento, mostra un comportamento disorganizzato, espressione di
rappresentazioni contraddittorie e non integrate del sé e della figura di
attaccamento (Caviglia, Perrella, La Marra e Bisogno, 2007).
14
Tali rappresentazioni, riguardanti lo stesso aspetto di realtà, costituiscono per M.
Main (1990) i “modelli multipli di qualcosa che dovrebbe avere un modello
unitario”.
La disorganizzazione dell’attaccamento e la rispettiva presenza di modelli
operativi, scissi, incompatibili e non integrati, è caratteristica del disturbo
borderline di personalità e di altre patologie con predominanti sintomi
dissociativi (Liotti, 2001).
Infatti, sembra che lo stesso processo di sviluppo patologico sia responsabile di
un’ampia gamma di disturbi (Fonagy,1997) che risultano particolarmente
associati all’abuso infantile di tipo fisico e/o sessuale (Manna, 2004).
Per questo motivo si ritiene che la disorganizzazione dell’attaccamento possa
costituire il più importante fattore di rischio per un gran numero di
manifestazioni psicopatologiche e in particolar modo per il disturbo borderline di
personalità (Liotti, 1999 a).
In relazione a questo disturbo, da sempre oggetto di controversie per motivi
diagnostici ed eziopatogenetici, è stata avanzata l’ipotesi che la
disorganizzazione dell’attaccamento possa costituirne il vero e proprio nucleo
(Liotti, 1999 b).
Se questa ipotesi trovasse conferma, la presenza di rappresentazioni scisse e
contraddittorie e il deficit nella regolazione affettiva avrebbero una spiegazione
comune. Pertanto, da un punto di vista eziologico e terapeutico, ciò
consentirebbe di unificare le teorie psicoanalitiche e quelle cognitive in un unico
approccio integrato (ibid.)
Per il trattamento di questo disturbo e in generale per le patologie di personalità
gravi che sono accomunate da un blocco o un arresto nello sviluppo della
funzione riflessiva è stato messo a punto un modello particolarmente efficace,
basato sulla mentalizzazione (Fonagy e Target, 1997; Liotti, 1999; 2000).
15
In ambito terapeutico appare molto promettente anche l’approccio promosso da
Bleiberg (2001), utilizzato in particolar modo con i bambini che presentano sin
da questa precoce età un disturbo della personalità, evidente dalla perdita
intermittente o dal ritiro della mentalizzazione nel contesto di specifici elementi
del loro sistema di attaccamento.
L’approccio relazionale appare, in generale, perfettamente idoneo ai problemi
psicologici e comportamentali collegati ad una scarsa capacità di mentalizzazione
(Allen e Fonagy, 2006). Sembra, pertanto, che l’incremento di questa capacità
all’interno delle relazioni di attaccamento sia un obiettivo fondamentale in
particolar modo in tutti gli approcci terapeutici basati sulla mentalizzazione, ma
una cosa di estrema importanza anche in trattamenti di altro tipo centrati sulle
relazioni (ibid.). Infatti, la mentalizzazione, cioè la capacità di interpretare il
comportamento degli altri e di se stessi in termini di stati mentali sottostanti,
determina il modo in cui le persone si comportano nei confronti degli altri, e le
modalità prescelte, a loro volta, danno forma alle rappresentazioni che le persone
sviluppano di se stesse in relazione con gli altri (ibid.).
Infine sarà presentato un modello di trattamento alquanto recente ed innovativo
per il trattamento dei bambini e degli adolescenti con scarse capacità di
mentalizzazione, che coinvolge tutti i membri delle loro famiglie: la shorttem
mentalization and relational therapy.
16
Attaccamento e Sviluppo del Sé
Attaccamento, processi di mentalizzazione e organizzazione psicologica
La teoria dell’attaccamento cerca di fornire un contributo alla comprensione della
psicopatologia evolutiva, chiarendo in che modo le prime relazioni di
attaccamento del bambino con le figure significative ne influenzino lo sviluppo,
sia sano che patologico (Fonagy e Target, 2003).
A proposito della relazione fra esperienze traumatiche precoci e manifestazioni
psicopatologiche vediamo l’importanza delle relazioni di attaccamento come
fattore di rischio o di protezione nella costruzione del sé, laddove il
maltrattamento, nelle sue diverse espressioni (carenza di cure, maltrattamento
psicologico/fisico, abuso sessuale), rappresenta un trauma evolutivo (Caviglia,
Perrella, La Marra e Bisogno, 2007).
Il maltrattamento nell’ambito delle relazioni di attaccamento costituisce, infatti,
un evento particolarmente incidente sull’equilibrio personale e relazionale, in
quanto subito da parte delle stesse persone che dovrebbero assicurare la
protezione del bambino (Emiliani e Simonelli, 1997).
Svolgono un ruolo di mediazione sugli effetti delle esperienze traumatiche
infantili nella costruzione del sé i processi di mentalizzazione (Fonagy e Target,
1997), grazie ai quali i bambini, normalmente, acquistano la capacità si percepire
se stessi come individui che agiscono con intelletto e autoregolazione e che
possono rapportarsi alle altre persone, a loro volta in possesso di intelletti propri
(Bleiberg, 2001).
Prima di esporre argomentazioni riguardanti la relazione tra trauma e
psicopatologia, utilizzando come chiave interpretativa la teoria dell’attaccamento
17
(Caviglia, Perrella, La Marra e Bisogno, 2007), è opportuno considerare il ruolo
cruciale che la relazione caregiver-bambino svolge sull’evoluzione del mondo
mentale del bambino stesso (Fonagy e Target, 2003).
L’attaccamento, come ben noto, è quel particolare legame di lunga durata ed
emotivamente significativo che il bambino è biologicamente predisposto a
sviluppare nei confronti dell’adulto che si prende cura di lui e che possiede sia la
funzione biologica di garantire al piccolo la protezione, sia quella psicologica di
fornigli sicurezza (Bowbly, 1969, 1973, 1980).
Va a John Bowlby il merito di aver fornito una prima formulazione della natura e
della genesi dell'attaccamento, anche se nella sua forma attuale la teoria si basa
soprattutto sui risultati del lavoro congiunto di Bowlby e della Ainsworth
(Simonelli e Calvo, 2002).
A rigore bisogna effettuare una distinzione tra i diversi concetti connessi
all'attaccamento: l'attaccamento come legame, i comportamenti di attaccamento
che rappresentano il mezzo tramite il quale viene espresso e mantenuto il legame
stesso ed infine il sistema comportamentale di attaccamento, che regola i
comportamenti del bambino coordinandoli in vista di uno scopo (ibid.).
Il legame di attaccamento, perlomeno nei bambini piccoli, sembra possedere
come principali caratteristiche la ricerca di vicinanza fisica alla figura di
attaccamento, l’effetto base sicura, cioè l'atmosfera di benessere e sicurezza che
il bambino avverte una volta stabilita la vicinanza fisica e la protesta alla
separazione, quando la prossimità con il caregiver diventa impossibile (ibid).
La ricerca di vicinanza fisica al caregiver, da parte del bambino, costituisce il
fulcro della teoria dell’attaccamento (Giannantonio, 2005). Anche se con il
progredire dello sviluppo la relazione di attaccamento diventa estremamente
sofisticata ed astratta, spostandosi progressivamente da un piano spaziale e fisico
a uno relazionale, la sua finalità immediata, almeno nell'infanzia, sembra
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risiedere proprio nel produrre come risultato la prossimità fisica al genitore
(Bowbly, 1969, 1973, 1980).
Per Bowbly la cosa più importante per un sano sviluppo della personalità non
consiste, tuttavia, soltanto nella sicurezza fisica, bensì anche in quella
psicologica. Il caregiver avrebbe il compito biologico e psicosociale di costituire
per il bambino una base sicura, da cui il piccolo si possa affacciare verso il
mondo esterno “e a cui possa ritornare sapendo per certo che sarà il benvenuto,
nutrito sul piano fisico ed emotivo, confortato se triste, rassicurato se spaventato”
(Bowbly, 1998).
Verso la fine del primo anno di vita il bambino va sempre più alimentando la
conoscenza del proprio mondo e sviluppa, a seconda della qualità della relazione
intrattenuta con il caregiver, specifici pattern di attaccamento che
successivamente si trasformeranno in modelli operativi interni (Vizziello Fava e
Simonelli, 2005).
L’importanza delle relazioni primarie di attaccamento consiste nel fatto che
queste sembrano determinanti non solo per la sopravvivenza fisica e psichica del
bambino, ma anche perché vengono interiorizzate e vanno a costituire la
regolazione affettiva, le strategie difensive, le strutture fondanti la personalità
definite “modelli operativi interni” (Caviglia, Perrella, La Marra e Bisogno,
2007).
I modelli operativi interni di sé e delle figure di attaccamento sono
rappresentazioni mentali che emergono come risultato dell’interiorizzazione della
qualità delle interazioni ripetute tra il bambino e la figura di attaccamento; come
prodotti di tali scambi e delle loro caratteristiche, i modelli operativi si
sviluppano in modo complementare rappresentando, se considerati
congiuntamente, l’intera relazione tra il soggetto e la sua figura di riferimento
(Vizziello Fava e Simonelli, 2005).
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Tali rappresentazioni hanno la funzione di veicolare la percezione e
l’interpretazione degli eventi da parte dell’individuo, consentendogli di fare
previsioni e crearsi aspettative sugli avvenimenti della propria vita relazionale
(Bowbly, 1973, 1980); in altre parole, i modelli operativi interni sarebbero
responsabili dell’elaborazione di qualsiasi informazione riguardante
l’attaccamento (Crittenden, Partridge e Claussen, 1991).
Il primo dispositivo elaborato per evidenziare le differenti configurazioni o
pattern attraverso cui si esplica il comportamento di attaccamento è la Strange
Situation Procedure (Ainsworth,Blehar, Waters e Wall, 1978), una procedura
sperimentale (interamente videoregistrata) composta da otto fasi in cui si
alternano la separazione, la solitudine e il ricongiungimento fra il bambino, la sua
figura di riferimento e un estraneo. Per la codifica, questa procedura prevede
l’analisi delle modalità con cui viene gestito lo stress da parte del bambino e da
cui è possibile inferire la rappresentazione interna della relazione di attaccamento
e soprattutto “le differenze individuali nei modelli procedurali del sé e della
figura di attaccamento” (Crittenden, 1994 b).
La metodica della Strange Situation Procedure può essere utilizzata solo con i
bambini piccoli, mentre per altre fasce di età sono stati creati altri strumenti, di
cui il più autorevole è la Adult Attachment Interview (Crittenden, 1999). Questo
dispositivo consente di classificare lo stato mentale in relazione alla storia di
attaccamento dell’individuo, valutando in particolare la coerenza fra pensieri ed
emozioni (Simonelli e Calvo, 2002).
La Strange Situation e la Adult Attachment Interview tendono a mettere in
rilievo pattern di attaccamento omologhi, laddove quelli presenti nell’infanzia si
trasformerebbero in quelli strutturalmente identici nell’età adulta (Giannantonio,
2005). Questo dimostra, per prima cosa, che i pattern di attaccamento, pur
mutando evolutivamente le modalità espressive, sono presenti lungo tutto l’arco
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dell’esistenza e, secondariamente, che il genitore trasmette al bambino, attraverso
le interazioni ripetute, il proprio modello di attaccamento (ibid.).
Molto sinteticamente, la Strange Situation ha evidenziato quattro principali
pattern di attaccamento, uno sicuro (B), due insicuri: insicuro-evitante (A) e
insicuro-ambivalente (C), ed uno disorganizzato o disorientato (Simonelli e
Calvo, 2002).
Nell’attaccamento sicuro, rilevato per mezzo della Strange, il bambino protesta
per la separazione dalla madre e viene prontamente confortato dal
ricongiungimento con lei. La configurazione corrispondente all’Adult
Attachment Interview è quella autonoma, caratterizzata dal libero accesso alla
propria storia di attaccamento e dalla coerenza in tutti i sistemi di memoria
(Giannantonio, 2005).
Nell’attaccamento insicuro-evitante il bambino non piange al momento della
separazione e tende ad evitare la figura di riferimento al momento del
ricongiungimento (ibid.). I bambini che rientrano in questa classificazione hanno
adottato la strategia di rendere meno operativo possibile il sistema
dell’attaccamento, persino esprimendo appena i propri bisogni per evitare
risposte negative o inefficaci da parte della figura di riferimento (Bowbly, 1988).
Questo pattern è spesso presente all’interno di relazioni di attaccamento
caratterizzate da intrusività, rifiuto o svalutazione delle richieste di accudimento
(Ainsworth, 1978). I bambini imparano, così, ad essere falsamente autosufficienti
e a gestire la rabbia in modo inappropriato (Giannantonio, 2005). La
configurazione omologa alla Adult è quella distanziante, caratterizzata dalla
svalutazione delle proprie esperienze di attaccamento e dal ricorso
all’idealizzazione o alla svalutazione per raccontare gli eventi significativi,
seppure in modo freddo e distaccato.