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ξ Obiettivo 3 favorire l’adeguamento e l’ammodernamento delle politiche e
dei sistemi di istruzione, formazione e occupazione.
In termini geografici, le regioni che rientrano nell’obiettivo 1 per il periodo di pro-
grammazione 2000-2006 sono quelle in cui il PIL procapite è inferiore al 75% della
media comunitaria. Per quanto riguarda l’Italia, le regioni che rientrano nell’obiettivo
1 sono Basilicata, Calabria, Campania, Puglia, Sardegna e Sicilia. La programmazio-
ne è l’insieme dei processi di organizzazione, decisione e finanziamento volti ad at-
tuare, in un arco pluriennale, l’azione congiunta dell’Unione europea e degli Stati
membri, così come prescritto dal regolamento generale sui fondi strutturali. Uno
strumento di sviluppo e programmazione è il piano strategico, un insieme di
interventi e procedure finalizzati alla progettazione e al governo di processi di forte
trasformazione. La pianificazione strategica contribuisce a costruire un’identità del
territorio, è un atto volontario di costruzione e condivisione di una visione futura di
un territorio, del suo posizionamento, di esplicitazione di obiettivi e strategie per
conseguirli mediante politiche ed interventi pubblici e privati. Nel primo capitolo di
questo lavoro si individuano gli aspetti generali dello sviluppo locale, facendo
riferimento soprattutto al capitale sociale, alle economie esterne e allo sviluppo del
Mezzogiorno. Inoltre è stata effettuata un’analisi sulle caratteristiche dei Progetti
Integrati Territoriali e del Piano Strategico. Nel secondo capitolo viene affrontato
uno studio di caso nel territorio di Agrigento, facendo riferimento al PIT 34 “Valle
dei Templi” e del Piano Strategico della città. Nel terzo capitolo vengono analizzati i
risultati raggiunti dalla realizzazione dei due strumenti e cosa ci si attende ancora,
concludendo con una breve intervista all’attuale Sindaco di Agrigento, Marco
Zambuto dove esprime le proprie opinioni al riguardo.
1
Capitolo I
Sviluppo locale, Piani strategici e Progetti Integrati Territoriali
1.1 Le origini dello sviluppo locale.
Negli anni Settanta, con la crisi del fordismo, provocata dagli shock energetici,
dalle rigidità della grande impresa e dall’emergere di una domanda non standardizza-
ta e con il delinearsi di un nuovo paesaggio economico, caratterizzato da modelli
produttivi fondati su imprese di piccole dimensioni e sul dinamismo di alcuni sistemi
spaziali, si comprende l’importanza del radicamento territoriale dello sviluppo eco-
nomico. Lo spazio non viene più visto come fattore negativo, semplice sorgente di
costi ma diventa un fattore che può generare vantaggi competitivi. L’efficienza eco-
nomica può essere ottenuta non solo con la grande impresa o in complessi produttivi
verticalmente integrati, ma anche in sistemi di piccole imprese, radicati territorial-
mente.
Lo sviluppo locale è un processo che richiede una lenta sedimentazione e, quindi,
può essere compreso soltanto in un’ottica di lungo periodo. L’analisi dei cambiamen-
ti intervenuti nei modelli di sviluppo locale va calata all’interno di un fenomeno di
più ampio respiro: l’emergere di una società postfordista che si sostanzia, a livello
economico, in un capitalismo riflessivo a rete. Quest’ultimo configura un superamen-
to dell’immagine meccanicistica dell’economia a favore di una relazionale, in cui
l’economia stessa diventa conversazione e coordinamento. Il territorio svolge una
funzione centrale nei processi di sviluppo economico.
Nell’ultimo trentennio del Novecento, la crisi del fordismo, il successo dei sistemi
di piccole imprese e l’emergere di nuovi approcci, come la teoria dei vantaggi com-
petitivi, hanno costretto gli economisti a guardare alle specificità dei capitalismi na-
zionali e alla varietà delle situazioni locali in cui si realizza la produzione. Da qual-
che decennio, quindi, la riflessione economica ha preso atto dell’importanza dei con-
testi locali e delle loro specificità.
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Mentre nell’ambito del paradigma fordista i più importanti fattori non economici
capaci di incidere sullo sviluppo erano le politiche promosse dallo Stato e le capacità
organizzative della grande azienda, con l’emergere di sistemi produttivi locali basati
su reti di piccole imprese e fortemente radicati a livello territoriale si è rilevato im-
portante il ruolo delle società locali e delle risorse di cui la comunità locali sono
dotate. Sono state queste risorse a permettere l’affermazione economica di territori
caratterizzati da addensamenti di piccole imprese specializzate, spesso organizzate in
sistemi produttivi locali o, più specificamente, in distretti industriali.
Le analisi degli ultimi decenni hanno chiarito che l’industrializzazione della Terza
Italia poggia su forme di sviluppo locale che hanno non solo una precisa base territo-
riale, ma anche caratteri socioculturali comuni, in grado di incidere positivamente sui
meccanismi della crescita; si è di fronte a sistemi locali dotati di una propria identità
autonoma, caratterizzati da comportamenti collettivi consapevoli di sé e nei quali sia
il territorio sia gli attori sociali svolgono un ruolo fortemente attivo (Moroni, 2008).
La storia dell’idea di sviluppo locale, sebbene abbia solo trent’anni, è già com-
plessa e stratificata, perché nasce nei convulsi anni ’70 della crisi del fordismo, e ac-
compagna le trasformazioni dei decenni successivi, ancora confusi e incerti nel loro
esito. La storia del concetto inizia con l’esplosione del fenomeno dei distretti indu-
striali, ossia nasce da un processo spontaneo e non programmato, né guidato politi-
camente da alcuno e riguarda principalmente il modo di funzionamento del capitali-
smo, fino a proporsi come un possibile diverso modello del capitalismo.
Una caratteristica essenziale del fordismo è che esso tendeva a differenziare mag-
giormente l’economia dalla società: riduceva l’importanza di fattori come
l’imprenditorialità personale e il contesto istituzionale locale, e quindi del capitale
sociale nello sviluppo economico. Le grandi imprese verticalmente integrate, che
sfruttano le nuove tecnologie per realizzare economie di scala, sostituiscono infatti la
gerarchia al mercato, rimpiazzano gli imprenditori con i manager, concentrano al lo-
ro interno le diverse fasi produttive e controllano il mercato del lavoro e quello dei
beni. L’impresa, insomma si autonomizza maggiormente rispetto ai condizionamenti
ambientali.
Stabilità era la parola chiave del vecchio assetto che ha guidato il grande sviluppo
post-bellico, nell’ultimo ventennio essa è stata sempre più sostituita da un’altra: fles-
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sibilità. Inizialmente sono state soprattutto le imprese piccole, specie se integrate tra
loro in sistemi locali a elevata specializzazione, a cogliere le nuove opportunità, fa-
vorite anche dalle nuove tecnologie che riducono i costi di produzione di beni in se-
rie limitate. Ma ben presto anche le grandi imprese hanno seguito la strada della ri-
cerca di maggiore flessibilità e qualità, e si sono ristrutturate. Hanno dato più auto-
nomia alle unità produttive decentrate, specializzate in singole linee di prodotto;
hanno modificato l’organizzazione del lavoro taylorista cercando maggiore flessibili-
tà. La ricerca di flessibilità e di qualità comporta non solo una ristrutturazione che
aumenta i processi di autonomia delle strutture interne delle imprese ma soprattutto
una maggiore aperture alle collaborazioni esterne. Si formano sia reti di imprese che
agglomerazioni di piccole e medie aziende a minor integrazione, ma anche grandi e
medie imprese-rete che si localizzano in determinati territori.
Insomma, rispetto alla fase fordista, in cui prelevano imprese più autonome
dall’ambiente le economie esterne diventano ora più importanti. La diffusione e la
qualità di economie esterne
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alle singole imprese, ma interne a una determinata area,
acquistano un peso cruciale per le aziende e danno nuovo rilievo al rapporto tra eco-
nomia e territorio. Tali processi modificano il quadro precedente e tendono a ridare
particolare rilievo al capitale sociale
2
. Anzi, si può dire che aumentino l’influenza di
questo fattore rispetto al capitale fisico e a quello finanziario nei processi di sviluppo
locale.
Lo sviluppo locale non si identifica con un determinato modello di organizzazione
produttiva per esempio quello dei distretti industriali e non riguarda solo le attività
manifatturiere. L’elemento essenziale che lo contraddistingue è costituito dalla capa-
cità dei soggetti locali di collaborare per produrre beni collettivi che arricchiscono le
economie esterne, ma anche per valorizzare beni comuni, come il patrimonio am-
bientale e storico-artistico. La qualificazione del territorio è il presupposto per soste-
nere o far emergere iniziative locali, ma anche per attirare attività esterne che non si
localizzino in una determinata area solo per vantaggi di costo, oggi sempre meno di-
fendibili per i paesi più sviluppati.
Tuttavia, lo sviluppo locale non è una tendenza lineare e scontata che si afferma
in modo omogeneo. Presuppone particolari condizioni che sostengano il protagoni-
1
Per un approfondimento si veda par 1.3
2
Per un approfondimento si veda par. 1.2
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smo e la capacità di strategia dei soggetti locali. Lo sviluppo locale, nelle sue varie
forme, è accomunato dalla capacità di strategia dei soggetti pubblici e privati: dal lo-
ro impegno a coordinarsi con strumenti formali e informali per sostenere un disegno
di sviluppo condiviso. La novità è che rispetto al passato si affermano percorsi di svi-
luppo che sono meno il frutto di scelte derivanti dal centro da politiche nazionali del-
lo Stato o il mero portato di determinismi geografici, come la dotazione di particolari
risorse naturali e ambientali, o la vicinanza ai mercati. Questi fattori possono essere
più o meno presenti, ma la determinante cruciale appare ora il protagonismo dei sog-
getti istituzionali locali, che sviluppano esperienze di cooperazione innovativa attra-
verso accordi più o meno formalizzati tra loro.
Lo sviluppo locale non si identifica quindi con specifiche specializzazioni produt-
tive o con particolari modelli istituzionali di regolazione dell’economia. È fuorviante
associarlo esclusivamente ai distretti industriali di piccola impresa. Esso riguarda si-
stemi produttivi locali che possono assumere caratteri diversi. Il suo elemento distin-
tivo è costituito dalla capacità dei soggetti istituzionali locali di cooperare per avviare
e condurre percorsi di sviluppo condivisi che mobilitino risorse e competenze locali.
Il protagonismo dei soggetti locali e la mobilitazione delle risorse del territorio
non implicano affatto una sorta di localismo autarchico, una chiusura difensiva verso
i processi globalizzanti. Al contrario, il protagonismo dei soggetti locali favorisce lo
sviluppo di un territorio quando riesce ad attrarre in modo intelligente risorse esterne,
sia di tipo politico che economico o culturale; e quando riesce a cogliere le opportu-
nità che l’allargamento dei mercati offre per nuove strategie di produzione di beni o
servizi che valorizzino specifiche competenze e beni comuni. Tuttavia, ciò che di-
stingue lo sviluppo locale dal mero dinamismo locale, come processo di crescita eco-
nomica misurabile in termini di reddito prodotto e di occupazione, è la capacità di
usare le risorse esterne per valorizzare quelle interne: attrarre investimenti, imprese,
risorse scientifiche o culturali, non solo come occasione per la crescita della produ-
zione, del reddito e dell’occupazione, ma come strumento che arricchisce le compe-
tenze e le specializzazioni locali.
La globalizzazione mentre accresce la mobilità delle imprese, contribuisce a crea-
re nuove opportunità per lo sviluppo locale. Indebolendo la capacità regolativa degli
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Stati nazionali, e aumentando la concorrenza tra territori, spinge i governi locali e re-
gionali a mobilitarsi per svolgere un ruolo più attivo nei percorsi di sviluppo.
Per lungo tempo, nella seconda metà del secolo scorso, le politiche per lo svilup-
po delle aree arretrate sono state concepite come interventi dello Stato centrale. Pro-
tagonisti erano i governi, che realizzavano grandi infrastrutture di trasporto e di co-
municazione, per ridurre la distanza delle imprese dai mercati, o redistribuivano sul
territorio risorse per favorire la localizzazione di nuove attività economiche. Ciò av-
veniva con incentivi agli investimenti delle imprese private o con l’impiego delle
imprese pubbliche.
Questo quadro è cambiato nell’ultimo decennio. Si sono affermate nuove politi-
che per lo sviluppo locale con due caratteristiche principali. Anzitutto, esse perse-
guono l’obiettivo esplicito di promuovere un maggior protagonismo dei soggetti lo-
cali nel definire le scelte di sviluppo del territorio. Per raggiungere tale obiettivo, le
nuove politiche presuppongono forme di cooperazione tra soggetti privati e pubblici,
che insieme si impegnano a intraprendere una serie di iniziative integrate in un pro-
getto condiviso. È in questo quadro che prendono forma in vari paesi, e a livello
dell’Unione europea, le nuove politiche per lo sviluppo locale. Esse mirano a qualifi-
care l’ambiente economico e sociale con interventi volti a elevare la dotazione di in-
frastrutture e servizi, e a favorire la cooperazione tra le imprese private nei processi
di produzione di beni o servizi. Le nuove politiche si basano su forme di coordina-
mento tra i soggetti pubblici e privati nella formulazione di progetti di sviluppo che
possono essere sostenuti, a seconda dei programmi coinvolti, con aiuti esterni da di-
versi livelli istituzionali.
Queste politiche di sviluppo locale presentano un elemento in comune: si basano
su accordi formalizzati tra soggetti istituzionali pubblici e privati. Gli attori pubblici
possono essere di vario livello: Comuni, Province, Regioni, istituzioni statali ed eu-
ropee. Questa è la cosiddetta governance multilivello, termine coniato da Gary Marks
(1996). Il punto di partenza dell’approccio della governance multilivello è l’esistenza
di competenze sovrapposte tra più livelli di governo e l’interazione degli attori politi-
ci attraverso tali livelli. I governi degli stati membri, per quanto potenti, sono solo
uno tra i molteplici attori dell’assetto istituzionale europeo. Gli Stati non sono l’unico
canale di collegamento tra la politica interna e il negoziato intergovernativo. Invece