Latina e capire perché il più recente esperimento di “liberazione” sin dall’inizio
fosse gravido di minacce.
Attualmente, sembra quasi affermarsi una tendenza generale al rigetto degli
esperimenti liberali tentati negli ultimi anni un po’ ovunque nei Paesi in via di
sviluppo.
Sul piano economico, invece, con la creazione dell’Organizzazione Mondiale del
Commercio nel 1994, si assiste a un’accelerazione delle negoziazioni in attesa di
creare una vasta zona di libero scambio su scala mondiale. Allo stesso tempo,
però, questa internazionalizzazione dell’economia è segnata dall’accelerazione dei
processi d’integrazione regionale.
Tale processo si sta realizzando attraverso il cosiddetto “regionalismo aperto”.
Ciò implica un processo che intende conciliare l’interdipendenza degli accordi di
carattere preferenziale con gli impulsi del mercato provenienti dalla
liberalizzazione commerciale. Il fine perseguito attraverso il regionalismo aperto è
che l’integrazione sia allo stesso tempo compatibile e complementare con le
politiche nazionali tendenti ad accrescere la competitività internazionale delle
economie regionali, nell’ambito del rafforzamento del sistema multilaterale del
commercio.
Con una parte di sovranità sempre più grande legata alla globalizzazione, la
maggior parte dei Paesi si trova ad essere limitato nella messa in opera delle
proprie politiche commerciali, economiche e monetarie. Per far fronte a questa
nuova tendenza esterna, questi Stati hanno la tendenza a raggrupparsi per affinità
geografiche. Tali processi d’integrazione regionale permettono di moltiplicare gli
scambi commerciali e di ritrovare un certo margine di manovra in termini di
politica economica.
L’elaborato, quindi, inizia con l’analizzare i vari processi d’integrazione regionale
nel sub-continente come punto di partenza per lo sviluppo della politica
internazionale.
Da quindici anni a questa parte, si assiste infatti a una sorta di moltiplicazione
della creazione di tali raggruppamenti nel sub-continente latinoamericano. Questi
ultimi possono assumere forme diverse, andando dalla costituzione di una zona di
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libero scambio tra due Paesi fino a un processo d’integrazione regionale avanzato
economicamente.
L’integrazione tra Stati appartenenti a una stessa area geografica obbedisce allo
stesso obiettivo della politica estera di tali Stati considerati singolarmente, ovvero,
l’aumento delle proprie capacità, che per l’America Latina significa rafforzare lo
sviluppo economico.
Protagonisti indiscussi di tale fenomeno restano però le maggiori economie
mondiali rappresentate dagli Usa, Unione Europea e Giappone, mentre la più
riuscita forma di aggregazione latinoamericana, il Mercado Comune del Sur, si
colloca tra quelli meno conosciuti.
Con il suo 5,4% del Pil mondiale, l’America Latina sembra avere un’importanza
trascurabile nel contesto economico mondiale. Tuttavia, le sue risorse di
idrocarburi e di materie prime, unite alla vicinanza geografica con gli Stati Uniti,
la rendono un’area da tenere sotto controllo.
Per ciò che riguarda invece i rapporti con gli Usa, non è semplice costruire una
sorta di solidarietà continentale partendo da contesti socio-culturali così diversi e
da relazioni così tese come sono state quelle dei decenni scorsi. Crea una grave
difficoltà soprattutto l’asimmetria di potere tra il centro politico ed economico del
mondo attuale, un impero globale, secondo molti, e i più di 35 Stati, molti dei
quali considerati dei microstati, che continuavano ad avvertire squilibri interni e
molti dei quali non hanno ancora vissuto la propria rivoluzione industriale.
E’ quindi chiaro che per gli Stati Uniti, nel quadro della loro politica
internazionale, la priorità è data alle relazioni con l’Eurasia, soprattutto in una
possibile alleanza con l’Unione Europea. La “grande scacchiera”, come ha
ribadito Brzezinski, è in Eurasia, dove si gioca la partita decisiva per l’ordine e
l’egemonia mondiale. Infatti, la guerra globale al terrorismo, il passaggio
dell’Europa a 27 membri, le relazioni con la Russia e con la Cina, la formazione
dell’Associazione del Sud-Est asiatico che riunisce 10 Paesi più la Cina, il
Giappone e la Corea, il protagonismo in Medio Oriente, soprattutto nel conflitto
israelo-palestinese, interessano e preoccupano maggiormente gli Usa delle
relazioni con l’America Latina.
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Allo stesso tempo, però, non si possono sottovalutare le risorse energetiche di cui
è ricco il sub-continente, soprattutto da parte di un’economia, quale quella
nordamericana, così dipendente dal consumo del petrolio. Ecco perché
l’amministrazione Bush ha proposto, nel 2001, un’area di libero scambio – l’Alca
- che avrebbe dovuto estendersi dall’Alaska alla Terra del Fuoco.
In realtà, questo progetto nasconde una sorta di logica espansionista di
Washington, che non è troppo diversa dalla celebre dottrina Monroe del 1823, con
la quale si dichiarava “l’America gli americani”. A partire da questa data, le
relazioni tra le due Americhe non sono state facili, incentrate soprattutto sul
cosiddetto consenso di Washington, che ha permesso di stabilizzare quel
particolare approccio nordamericano nella regione – e nel mondo – basato sulla
militarizzazione del sub-continente.
Attualmente, quindi, questa nuova proposta Alca, allettante per le povere
economie latinoamericane, ma allo stesso tempo ingannevole, ha risvegliato una
parte dell’opinione pubblica del sub-continente, stanca delle politiche di
aggiustamento propinate dall’esterno, filtrate dagli Usa, e che sta spingendo per
un processo autonomo d’integrazione regionale, che non copra solo gli aspetti
puramente commerciali delle relazioni tra Stati.
Ci sono due obiettivi fondamentali per i Paesi latinoamericani, che non possono
essere dissociati, che sembrano opposti, ma che devono trovare la necessaria
coordinazione: aprire le economie al mercato internazionale e proteggere
selettivamente i propri sistemi industriali e le loro capacità d’innovazione
tecnologica.
Molti individuano nell’Unione europea una via d’uscita per le economie
latinoamericane. Tale convinzione nasce da un approccio diverso del vecchio
continente nell’area, considerato migliore perché fondato sulla cosiddetta clausola
democratica e sulla coesione sociale, quindi su un dialogo tra le due regioni che
prenda in considerazione la particolare realtà sociale del sub-continente,
caratterizzata da violenza e povertà. Di fonte alle politiche statunitensi, quindi,
l’Ue tende a privilegiare lo sviluppo di relazioni commerciali e a subordinarvi
l’aiuto allo sviluppo.
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Risale al 1986 l’inizio della cooperazione comunitaria verso i Paesi dell’America
Latina, grazie all’adesione della Spagna e del Portogallo all’Unione europea.
Le relazioni tra l’Unione Europea e i Paesi latinoamericani si sviluppano sia a
livello continentale (UE-America Latina), sia, all’interno di questo macro-
rapporto, a livello interregionale (col Mercosur, Comunità Andina e America
Centrale), sia bi-regionale, ma a livello nazionale, tra l’UE e alcuni Paesi specifici
(Messico e Cile), con i quali l’Unione ha firmato Accordi di Associazione.
Al livello più alto delle relazioni tra le due aree ci sono gli incontri tra i Capi di
Stato e di Governo dell’UE - America Latina/Caraibi(ALC). Tali summit hanno
luogo ogni due anni, a partire dal 1999, per approfondire i rapporti tra le due
regioni e verificarne i progressi compiuti.
Una parte dell’elaborato esaminerà anche la cooperazione allo sviluppo portata
avanti dall’Ufficio europeo “EuropAid”, creato nel 2001 col compito
d’incentivare e gestire gli aiuti esterni al territorio comunitario. Particolare rilievo
è dato al Consorzio Al-Invest, programma rivolto alle piccole e medie imprese
europee e latinoamericane, definito come “programma quadro di cooperazione
imprenditoriale e di promozione degli investimenti”.
Incentrando le sue politiche su tre assi – dialogo politico, cooperazione allo
sviluppo, relazioni commerciali – l’Europa può permettersi di dire che essa
propone ai suoi partner relazioni di più grande qualità rispetto a quelle che
esistono tra questi Paesi e gli Stati Uniti, basati essenzialmente solo sulla sfera
commerciale, economica e finanziaria. Tuttavia, se queste tre dimensioni sono
effettivamente i pilastri formali degli accordi, di fatto però sono sempre gli
interessi commerciali che pilotano l’insieme.
Il cuore degli accordi tra Europa e America Latina resta la promozione di una
zona di libero scambio tra le due aree, una sorta di Alca europea prevista per il
2010. E’ del resto ciò che ricordano continuamente le autorità europee, ovvero che
l’Unione è diventata il primo investitore e il secondo partner commerciale del sub-
continente. Allo stesso tempo, l’America Latina è stata spinta dalle istituzioni
multilaterali a togliere numerose barriere all’importazione a prodotto provenienti
da altri continenti, allorché l’Europa mantiene un alto livello di protezionismo,
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specie nel settore dei beni primari, principalmente agricolo, che rappresentano una
buona parte delle esportazioni latinoamericane.
Nell’analisi che segue, una parte viene riservata alla trattazione degli interessi
delle transnazionali europee e statunitensi in America Latina, alle loro politiche di
sfruttamento e ai loro frequenti rapporti con i governi locali, troppo spesso
responsabili dell’ingiusta divisione della ricchezza nel sub-continente.
L’unico sbocco possibile resta quindi il rafforzamento dei processi d’integrazione
nell’area, che possono imprimere un’ulteriore accelerazione alla crescita
economica e sociale dei Paesi latinoamericani e alla promozione di uno sviluppo
umano, sostenibile ed equo. E possono creare le condizioni per il consolidamento
e il rafforzamento di quella stabilità democratica che il sub-continente sembra
lentamente raggiungere dopo decenni di sanguinosi regimi militari e movimenti di
guerriglia. L’apertura verso l’esterno, invece, deve privilegiare accordi basati sulle
peculiari realtà di ogni singolo Stato della regione, perché, pur in presenza di una
certa unità dovuta a fattori culturali e storici e a un modello di sviluppo comune, il
carattere dominante in America Latina continua a essere l’eterogeneità, espressa
sottoforma di numerosi aspetti, come ad esempio: la dimensione territoriale dei
differenti Stati, la diversità culturale e della popolazione, la molteplicità di lingue,
la diversità religiosa, una demografia irregolare, che non corrisponde alla
dimensione degli Stati, divergenze importanti dal punto di vista dello sviluppo
economico e negli indici di sviluppo umano.
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CAPITOLO PRIMO
L’INTEGRAZIONE REGIONALE COME
PRESUPPOSTO
DELLO SVILUPPO ECONOMICO IN AMERICA
LATINA
Sommario: 1.1. Le fasi dello sviluppo economico latinoamericano; 1.2. Il
processo d’integrazione attraverso le unioni economiche regionali: 1.2.1.
segue: Mercosur; 1.2.2. segue: Comunità Andina; 1.2.3. segue: Sistema
d’integrazione centroamericano; 1.2.4. segue: Gruppo di Rio; 1.3.
Integrazione come sinonimo d’internazionalizzazione; 1.4. Alca vs Alba; 1.5.
Il Banco del Sur
1.1. Le fasi dello sviluppo economico latinoamericano
Dalla loro apparizione in quanto Stati indipendenti, all’inizio del XIX secolo, i
Paesi latinoamericani, e in particolare quelli del cono sud - ovvero Argentina,
Cile, Uruguay, Paraguay e Brasile - hanno attraversato un processo storico
complesso.
La rottura delle relazioni politiche ed economiche con le vecchie potenze coloniali
di Spagna e Portogallo, sembrano, almeno in superficie, cancellare la
subordinazione a cui tali territori erano abituati. Ma, in realtà, c’erano altre
potenze interessate a stabilire nuovi rapporti di dipendenza nel sub-continente,
quali il Regno Unito, soprattutto nella regione del Rio de la Plata, e gli Stati Uniti
per ciò che concerne l’America centrale e i Caraibi.
Durante la prima parte del XIX secolo, i nuovi Stati cercarono di conservare
intatta l’utopia di una possibile unità latinoamericana, che avrebbe portato alla
costituzione di una confederazione dei popoli dell’America Latina. A partire,
10
infatti, da questa fase, detti Paesi hanno avuto la tendenza ad assimilare i modelli
europei e, in particolar modo, l’istituzione dello Stato-nazione, quale elemento
principale per l’elaborazione di una coscienza nazionale.
Spostandoci in epoca più recente, numerosi studiosi individuano nella fine della
seconda guerra mondiale un punto di svolta nella storia del sub-continente. In
particolare, la nascita di un nuovo sistema economico e finanziario internazionale,
a seguito della conferenza di Bretton Woods nel 1944 e della costituzione del
GATT nel 1947, incitano gli Stati latinoamericani, alleati degli Usa, a reclamare
un aiuto speciale per le loro economie sottosviluppate. Parallelamente a tale
fenomeno, la Commissione Economica per l’America Latina (CEPAL) del
Consiglio economico e sociale delle Nazioni Unite, difende l’idea di
un’integrazione regionale e doganale sud-americana, vista come unica soluzione
per accelerare il processo d’industrializzazione e di sviluppo economico nella
regione.
Secondo Mario Trampetti, diplomatico e studioso dell’America Latina, si possono
individuare quattro fasi dello sviluppo economico recente nel sub-continente:
- la prima, dal 1955 al 1965, basata sulla cosiddetta “dottrina Prebisch” di
sostituzione delle importazioni e sul protezionismo, è caratterizzata da un
approccio fortemente “populista”;
- la seconda, dal 1965 alla prima crisi petrolifera degli anni ‘70,
caratterizzata da una parziale liberalizzazione commerciale, ma anche da
una forte enfasi sull’industrializzazione diffusa, definibile come modello
“burocratico-autoritario”;
- la terza, dal 1975 alla fine degli anni ’80, che passa attraverso l’espansione
del monetarismo generando un apprezzamento reale del tassi di cambio e
un forte aumento dell’indebitamento esterno;
- l’ultima, che ha caratterizzato gli anni Novanta, del cosiddetto “approccio
liberale”
1
.
I fattori principali per il passaggio da un modello all’altro vanno ricercati
soprattutto nella partecipazione o meno dei ceti popolari al sistema economico e
nell’adozione di politiche rivolte, a seconda del periodo, alla redistribuzione o alla
1
Dal libro “Il continente diviso: i processi d’integrazione in America Latina”, Mario Trampetti,
Francoangeli il punto, 2007.
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concentrazione del reddito nazionale. In tali passaggi sembra essere meno
rilevante il ruolo svolto dalle crisi economiche, a meno che queste non hanno
generato movimenti politici di opposizione miranti a rovesciare la struttura sociale
dominante. Infatti, gli stravolgimenti più importanti, che hanno portato regimi
autoritari al governo, si sono avuti in Paesi come Argentina, Brasile, Cile,
Uruguay e America centrale, dove questi movimenti si andavano rapidamente
diffondendo, o dove, addirittura, erano sempre esistiti. Al contrario, essi non
furono rilevanti, ad esempio, in Venezuela, Ecuador o Costa Rica, dove si stava
consolidando un’alternanza al governo tra partiti, oppure Paesi, come il Messico,
dove un partito dominante tendeva a permeare l’intero sistema politico.
In particolare, il passaggio dalla fase “populista” a quella successiva è stato
soprattutto condizionato dalle pressioni internazionali, nel quadro della crescente
interdipendenza economica globale e dalla maggiore attenzione nelle relazioni
internazionali al rispetto dei diritti umani.
E’ poi opinione comune che il passaggio dalla terza fase a quella “liberal-
conservatrice” sia iniziata con il ritorno del sistema di libertà politiche e civili in
Argentina e in Brasile.
Tale fase inizia simbolicamente nel dicembre 1983, quando torna al potere nella
Casa Rosada di Buenos Aires il governo democratico di Raul Alfonsin
dell’Unione civica radicale.
Ma si traduce anche nella successiva elezione del 1985 di Tancredo Neves a
Presidente della Repubblica federativa del Brasile, concludendo una lunga e lenta
transizione dal regime militare, iniziata almeno del 1979. Un analogo movimento
era presente in Uruguay, sempre nel 1985, con l’elezione di Julio Maria
Sanguinetti; per poi arrivare al Cile, sintesi originale di violenza del regime e
innovazione liberale dell’economia, che nel 1990 conferiva il potere alla
coalizione di centro-sinistra, Concertacion democratica, diretta da Patricio
Aylwin.
Volendo interpretare il panorama economico del sub-continente di questi anni,
molti studiosi si sono rifatti alla cosiddetta “teoria della dipendenza”, che tanta
fortuna ebbe negli anni Novanta. Secondo tale teoria, le economie latinoamericane
in generale sono specializzate nella produzione di materie prime, i cui prezzi sono
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fissati dalla concorrenza internazionale e la cui domanda nei Paesi industrializzati
è anelastica, sia rispetto al reddito che rispetto ai prezzi. Le ragioni di scambio
sono pertanto del tutto al di fuori del loro controllo. Ne consegue che la loro
economia è sotto-capitalizzata e il risparmio limitato, e che quindi, la loro capacità
di crescita deriva dalla disponibilità di capitali esterni. In questo quadro,
l’indebitamento è quasi una necessità e le crisi come quelle degli inizi degli anni
Ottanta sono quasi inevitabili, dato l’andamento ciclico dell’economia.
All’inizio degli anni Novanta si delinea quindi un nuovo scenario regionale in
America Latina caratterizzato da: rafforzamento delle democrazie; peggioramento
della situazione economica, che trasforma la regione in esportatrice netta di
capitali; deterioramento della crisi del debito; perdita progressiva di competitività
con arretratezza tecnologica crescente; riduzione degli investimenti diretti esteri e
bilateralizzazione dell’integrazione.
La spinta principale a tale liberalizzazione è venuta dal “Piano Brady”, dal nome
del segretario al Tesoro degli Usa, che era servito a evitare il tracollo delle
economie della regione a seguito della moratoria nei pagamenti del debito estero
dichiarata dal Messico, alla quale aveva fatto seguito quella del Brasile.
A partire da allora, si diffonde la consapevolezza che la crescente interdipendenza
dell’economia mondiale imponeva un’apertura economica più larga. L’apertura,
però, comporta un continuo e sensibile abbassamento delle barriere tariffarie, la
fine delle riserve di mercato e l’abolizione dei controlli valutari da parte delle
banche centrali. Collabora alla maturazione del fenomeno l’atteggiamento del Cile
dove, tornata la democrazia nel 1991 con Patricio Aylwin, si decide tuttavia di
mantenere inalterata nelle linee fondamentali la politica economica che era stata
impiantata durante gli anni della dittatura militare di Pinochet. Tale politica aveva
seguito le indicazioni della scuola monetarista di Chicago di Milton Friedman,
suscitando un acceso dibattito a livello internazionale.
I risultati di politiche monetarie adeguate tardano di solito di almeno un paio
d’anni, secondo la teoria monetarista, quindi nel 1991 si ottiene in America Latina
una crescita del Pil del 3%, che si ripete nel 1992. Il reddito pro capite medio della
regione aumenta per la seconda volta dopo un decennio di preoccupante declino.
Gli scambi con l’estero crescono di oltre il 10% e permettono un considerevole
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