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cooperative, si introduce un sistema semi-privato di gestione della terra (household
responsibility system) che concede alle famiglie di disporre della produzione in
eccesso rispetto al piano governativo. Nel corso della seconda metà degli anni
Ottanta, essendosi il Partito espresso in favore di un sistema misto nel quale
coesistono pianificazione e mercato, il disegno riformatore acquista maggior respiro,
coinvolgendo i settori industriali urbani, mediante la liberalizzazione dei prezzi, il
decentramento del commercio con l’estero e l’ampliamento dell’autonomia
decisionale delle imprese pubbliche (le Stateowned enterprises) e collettive (le
township and village enterprises). L’impatto sulla crescita è enorme: fra il 1984 e il
1985, il prodotto interno lordo aumenta del 15,2% e, pur rallentando, cresce
comunque di oltre l’11% all’anno fra il 1987 e il 1989.
Nel contempo, però, l’inflazione raggiunge il 18% annuo, portando all’estremo le
distorsioni dei prezzi, mentre si moltiplicano i traffici illeciti, la speculazione e la
corruzione. Per contrastare tale situazione, il governo congela le riforme e decide di
raffreddare l’economia ristabilendo i prezzi amministrati. Benché tali misure abbiano
innanzitutto caratteristiche tecniche, dopo le note manifestazioni popolari del maggio
del 1989, brutalmente represse dall’esercito sulla piazza Tian’anmen (si stimano in
“qualche migliaio” le persone rimaste uccise), esse acquisiscono anche un forte
connotato politico, venendo affiancate da un discorso ideologico e da un
irrigidimento politico finalizzati a mettere in discussione le trasformazioni
economiche avviate con la “demaoizzazione”.
Benché il processo di riforma sembri esaurirsi, le trasformazioni intraprese risultano
tuttavia irreversibili. Il mondo rurale e le autorità locali (specie quelle delle regioni
costiere, che hanno acquisito un’importante libertà di manovra economica e
finanziaria) oppongono una forte resistenza al tentativo di ritornare allo status quo
ante. Inoltre, la lotta all’inflazione frena la crescita, stimolando un’opposizione
sempre più ampia via via che risultano chiare le sue conseguenze sociali, in
particolare sull’occupazione nelle grandi città.
Alla fine del 1990, i “conservatori” si rivelano incapaci di far prevalere la loro linea
in seno al Partito. L’implosione dell’ Unione Sovietica alla fine del 1991 risulta loro
fatale, perché convince il resto della classe dirigente che la legittimità del potere in
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Cina si basa sullo sviluppo economico e sul miglioramento delle condizioni di vita
della popolazione.
All’inizio del 1992, l’ottantottenne primo ministro Deng Xiaoping (il “Piccolo
Timoniere”) rilancia le riforme in occasione di un viaggio, fortemente reclamizzato,
nella Cina del Sud (nelle zone economiche speciali) e, nell’autunno dello stesso anno,
il quattordicesimo congresso del Partito assegna alle stesse l’obiettivo di costruire “il
socialismo di libero mercato”. Si tratta di un ibrido ideologico, giustificato da
Pechino con la considerazione che alcuni strumenti economici, a lungo etichettati
come capitalisti, sono in realtà neutrali e possono essere impiegati per favorire la
crescita economica. Socialismo e libero mercato non sono in contraddizione perché il
mercato non porta necessariamente al capitalismo e anche nelle economie capitaliste
vi sono forme di pianificazione economica.
In buona sostanza, la formula del “socialismo di libero mercato” (entrata
ufficialmente nella Carta costituzionale nel 1993) sta a indicare che il Partito
Comunista continuerà a esercitare un forte controllo su importanti settori
dell’economia. Basti dire che, nonostante la crescita delle imprese private (passate da
poco più di 100.000 nel 1990 a oltre 3 milioni nel 2003), delle 181.557 aziende
industriali con fatturato annuo superiore 600.000 dollari registrate nel 2002, 41.125
erano ufficialmente di proprietà totale o parziale dello Stato. Inoltre, il governo
possiede anche una quota in molte delle 27.477 imprese definite “collettive” e delle
10.193 imprese registrate come “cooperative”, e delle migliaia di imprese non
industriali. Aggiungasi che le maggiori banche sono ancora possedute dal Governo
centrale e guidate da funzionari designati dal Partito, come pure il fatto che ogni
progetto di investimento che superi una soglia minima deve essere formalmente
approvato da funzionari provinciali o nazionali.
Si consideri inoltre che anche all’Esercito di Liberazione Popolare, formalmente
posto sotto la direzione del Partito, fanno capo interessi economici notevoli.
1.2.- L’iniziativa economica privata e l’apertura verso l’estero
Il nuovo corso politico riavvia l’opera di modernizzazione della Cina basata sulla
valorizzazione dell’iniziativa privata e sull’apertura verso l’estero. Dopo decenni di
timore, arricchirsi diventa giusto e utile alla causa del Paese (“to get rich is glorius”).
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Inoltre, l’apertura all’estero consente di immettere velocemente, in un Paese del tutto
arretrato dal punto di vista produttivo, le tecnologie e le conoscenze in grado di
avviare il decollo industriale.
Per quanto concerne l’iniziativa privata, nel 1993 il Partito decide che la Cina deve
dotarsi di un sistema di imprese “moderno” e che le aziende pubbliche devono essere
trasformate in società. La legge che entra in vigore nel gennaio 1994 definisce lo
statuto delle società a responsabilità limitata, e delle società per azioni, con ciò
stabilendo le condizioni per l’apertura ad altri soggetti della partecipazione al capitale
sociale, tappa preliminare per un’eventuale privatizzazione. Nel 1997, il
quindicesimo congresso del Partito decide che lo Stato deve disimpegnarsi dalla
proprietà delle imprese, mantenendo una posizione dominante in un numero limitato
di settori reputati “strategici” (tra cui: meccanica, elettronica, automotive,
petrolchimica ecc.). Nel marzo del 1999, le autorità cinesi riconoscono in modo
ufficiale l’importanza del settore privato, approvando una riforma costituzionale in
cui la proprietà privata viene riconosciuta come componente primaria dello sviluppo
economico.
Per quanto riguarda invece l’apertura verso l’estero, che pone fine a trent’anni di
autarchia, la Cina, ispirandosi all’esperienza dei “Dragoni” asiatici (che avevano
avviato lo sviluppo favorendo la creazione di capacità di esportazione nelle industrie
leggere), attua politiche che consentono di trarre profitto dai propri vantaggi
comparati nei settori ad alta intensità di lavoro, mediante una politica selettiva, sia in
materia di commercio con l’estero sia rispetto agli investimenti diretti esteri.
In merito agli investimenti diretti esteri, una serie di provvedimenti legislativi ne ha
precisato le condizioni, con l’obiettivo da un lato di attirarli e dall’altro di canalizzarli
verso particolari aree geografiche e settori di attività. Per ciò che concerne le aree
geografiche:
• nel 1979 vengono create quattro zone economiche speciali (Shenzhen, Zhuhai e
Shantou nella provincia del Guangdong e Xiamen nel Fujian, a cui nel 1988 si
aggiungerà anche l’isola di Hainan), con l’obiettivo di attrarre investitori esteri
mediante condizioni privilegiate (riduzione dell’imposizione fiscale, esenzione dalle
tariffe doganali). Localizzando queste zone in prossimità di Hong Kong e Taiwan, le
autorità puntano ad attrarre in primo luogo i “cinesi d’oltremare”;
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• durante gli anni Ottanta, le condizioni privilegiate sono estese all’insieme delle zone
costiere, dove vengono istituite zone di sviluppo economico e tecnico in grado di
accogliere investitori stranieri. In quest’ottica, nel 1991 vengono differenziate le
aliquote fiscali sugli utili delle società miste a seconda della loro localizzazione: esse
sono normalmente pari al 33%, ma sono ridotte al 24% nelle regioni aperte e
addirittura al 15% nelle zone economiche speciali e nelle zone di sviluppo economico
e tecnico;
• nel 1999 nuove disposizioni normative hanno attribuito alle province del centro e
dell’interno la possibilità di mettere in atto misure analoghe per attrarre a loro volta
investitori stranieri.
In merito invece ai settori di attività, la Cina incoraggia gli investimenti stranieri
sia nelle industrie esportatrici sia in quelle in cui la produzione è destinata a sostituirsi
alle importazioni (ad esempio, l’industria dell’auto). La regolamentazione modula le
condizioni offerte agli investitori a seconda dei settori, distinguendo quelli in cui
sono: a) incoraggiati; b) autorizzati; c) limitati. Con l’ingresso nell’Organizzazione
Mondiale del Commercio(2001), la Cina ha accettato di abolire gran parte delle
restrizioni preesistenti sugli investimenti diretti esteri (fra i quali, quelli concernenti la
possibilità di detenere partecipazioni di maggioranza assoluta da parte di operatori
stranieri – vedi WFOE, 3.4) e ha aperto loro in particolare l’ingresso in alcuni settori
di servizi.
Anche la politica adottata in materia di commercio con l’estero ha caratteri di
selettività. A metà degli anni Ottanta, le autorità cinesi, con l’obiettivo di incentivare
le imprese esportatrici e gli investitori stranieri, accordano agli stessi un regime
preferenziale, tale per cui i prodotti importati destinati alla trasformazione o
all’assemblaggio per l’esportazione sono esentati dai diritti doganali; lo stesso accade
per i macchinari importati dalle imprese a capitale straniero. I diritti doganali sono
invece imposti sui prodotti importati ad uso interno. Ciò permette di proteggere il
mercato nazionale e allo stesso tempo di incentivare l’industria esportatrice.
Come già detto, il lungo processo di apertura verso l’estero culmina nel 2001, quando
la Cina entra a far pare dell’Organizzazione Mondiale del Commercio. L’ingresso
risponde certamente a una necessità di riconoscimento internazionale avvertito dalle
autorità, ma nel contempo assolve a esigenze di politica economica interna. Gli
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impegni assunti dalla Cina costituiscono anche uno strumento per superare le
resistenze interne e far progredire il processo riformatore, giacché si reputa che la
concorrenza delle importazioni e degli investitori esteri concorra ad accelerare le
ristrutturazioni e la razionalizzazione dell’attività economica.
Una delle conseguenze più importanti dell’adesione all’Organizzazione Mondiale del
Commercio è la maggiore apertura del mercato cinese ai prodotti stranieri, in grado di
ridurre il forte squilibrio a favore della liberalizzazione delle esportazioni. In
quest’ottica, è prevista una riduzione dei dazi a un valore medio dell’8,9% per i
prodotti industriali (rispetto, per esempio, a valori fra il 27 e il 36% per Argentina,
Brasile, India e Indonesia), pur con uno spettro di variazione che va dallo 0 al 49% in
diversi settori. Per il tessile, caratterizzato da quote rilevanti fino al 2005, la Cina ha
accettato ogni regola connessa all’abolizione dell’Accordo Multifibre, incluso un
meccanismo di salvaguardia, valido sino al 2008, che consente agli altri Paesi membri
dell’OMC di negoziare con la Cina limitazioni temporanee alle importazioni. Infine,
per il settore agricolo i dazi dovrebbero ridursi a un intervallo fra lo 0 e il 60%, con
una media intorno al 15%. Infine, ma non da ultimo, con l’ingresso
nell’Organizzazione mondiale del commercio, la Cina ha aderito anche ai Trade-
Related Aspect of Intellectual Property (TRIPS), impegnandosi a rispettare le
convenzioni multilaterali su questo tema. Si tratta di un aspetto di grande rilievo,
poiché una delle maggiori critiche rivolta alle imprese cinesi è proprio quella di
copiare i prodotti delle imprese straniere. L’adesione all’OMC è quindi
particolarmente importante perché consente di imporre alla Cina una sempre
maggiore tutela della proprietà intellettuale estera, attraverso gli strumenti giudiziari
propri dei trattati commerciali multilaterali.
1.3.- Alcuni risultati raggiunti
In un quarto di secolo, la Cina è divenuta dunque uno dei Paesi più aperti al
commercio internazionale(vedi 3.1).
Lo sviluppo delle esportazioni è stato trainato dall’industria manifatturiera, lasciando
una quota marginale ai prodotti primari. Nel contempo, la composizione delle
esportazioni di manufatti è profondamente mutata, riflettendo una notevole capacità
di adattamento alla dinamica della domanda internazionale: mentre negli anni Ottanta
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le poste più dinamiche erano il tessile e l’abbigliamento e alcune industrie
manifatturiere (specie i giocattoli e gli articoli sportivi), negli ultimi anni queste sono
state superate dalle industrie dell’elettronica e degli strumenti di precisione (più della
metà dei lettori di Dvd e degli apparecchi fotografici numerici, così come più di un
terzo dei pc da ufficio e portatili e quasi un quarto dei telefonini e dei televisori a
colori provengono dalla Cina) (vedi 3.1).
La forza della Cina nei settori relativi a prodotti intensivi in lavoro non qualificato
dipende dal vantaggio di costo di cui dispone, in ragione dell’abbondanza di forza
lavoro che consente alle imprese locali di incrementare le proprie quote
internazionali, oltre che dal fatto che molte imprese straniere utilizzano la Cina come
base produttiva o di assemblaggio. L’incremento delle quote nei settori
tecnologicamente più avanzati dipende invece dall’articolazione internazionale delle
catene del valore, per effetto della quale le imprese dei Paesi più avanzati hanno
trasferito in Cina le fasi più standardizzate della loro produzione, concorrendo così ad
accrescere la capacità esportativa del Paese in settori nei quali altrimenti non sarebbe
stato presente.
Come si è detto, la Cina ha incoraggiato le operazioni internazionali di assemblaggio
e di subfornitura, esonerando dai dazi doganali le importazioni destinate ad essere
riesportate dopo aver subìto un processo di trasformazione.
Il Paese è divenuto così una base manifatturiera globale (la “fabbrica del mondo”), un
nodo cruciale di molte filiere industriali, in grado di impiegare manodopera a costi
bassissimi in attività labour-intensive. In effetti, l’esportazione di prodotti assemblati
costituisce la parte più dinamica del commercio estero (oltre la metà delle
esportazioni di prodotti assemblati sono costituite da macchinari, materiale elettrico
ed elettronico, strumenti di precisione). Questo fenomeno si riflette anche sulla
composizione delle importazioni, ormai fortemente dominate dai beni intermedi
(59,7%), beni capitali (23,4%) e materie prime (11,9%).
Gli input importati sono diventati la principale fonte per l’acquisizione di alta
tecnologia da parte della Cina. Rispetto agli altri Paesi in via di sviluppo, essa si
caratterizza per l’incidenza relativamente elevata di prodotti high-tech nelle proprie
importazioni. Poiché questi prodotti sono destinati a essere incorporati nei beni
esportati, lo stesso scarto si osserva per quanto riguarda l’export. La Cina ha quindi