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linguaggio ovvero su quali sono i processi che permettono ad un
bambino di imparare a produrre e a comprendere la sua lingua. In altre
parole essi si sono interessati ai processi cognitivi implicati nell’uso del
linguaggio.
Il termine “linguaggio” può riferirsi alle diverse lingue parlate nel
mondo come il francese, il tedesco ecc. oppure viene utilizzato per
definire il linguaggio umano in generale. Quel che rende unico e diverso
il linguaggio rispetto ad altri sistemi comunicativi esistenti è la presenza
di due proprietà: la creatività e l’arbitrarietà.
La “creatività linguistica” ci permette di produrre e comprendere una
quantità infinita di messaggi combinando fra loro un numero finito di
fonemi e di parole. Inoltre consente, a noi, di creare parole nuove per
designare concetti nuovi congiungendo parole o parti di esse già presenti
nella lingua.
Nel linguaggio la relazione tra i suoni e i loro significati è arbitraria
ovvero non si può ricavare il significato di una parola dalla forma del
suono. Pertanto la relazione tra suono e significato deve essere appresa e
trasmessa culturalmente. Imparare a parlare è un processo molto
complesso. Tuttavia esso si verifica con grande rapidità. Un bambino che
impara a parlare deve comprendere il significato delle parole,
individuare le regole della sua lingua al fine di formare delle frasi
corrette per poter comunicare con i suoi simili, ed infine produrre frasi
mai sentite prima.
Alla domanda, come fa un bambino ad imparare la sua lingua in un
tempo così breve rispetto alla complessità dell’intero processo, sono
state date diverse risposte ognuna delle quali fa riferimento ad una
prospettiva teorica ben precisa.
Per prima cosa esponiamo i due punti di vista più estremi, quello
innatista di Chomsky e quello comportamentista di Skinner.
Il primo ipotizza l’esistenza di un programma biologico ossia di un
meccanismo innato che permette al bambino di individuare le regole
grammaticali della sua lingua. Il linguaggio, secondo Chomsky (1965), è
un sistema complesso caratterizzato da un insieme di regole, che il
bambino dovrà scoprire. Quindi, per Chomsky, l’acquisizione del
linguaggio corrisponde ad un processo di verifica delle ipotesi che un
bambino si è fatto circa le regole grammaticali della sua lingua.
Il secondo modo di spiegare il processo di acquisizione del linguaggio
utilizza il modello comportamentista del condizionamento operante.
Secondo Skinner (1957) il bambino impara a parlare per imitazione e
attraverso gli insegnamenti degli adulti che gli forniscono continui
rinforzi. Quindi è l’ambiente esterno che “plasma” e “modella” le loro
espressioni in modo da renderle sempre più simili a quelle degli adulti.
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Oltre a queste due prospettive antagoniste vi è quella “cognitiva” di
Piaget (1946), il quale sottolinea la centralità dello sviluppo cognitivo
rifiutando il punto di vista secondo cui la capacità del bambino di
acquisire il linguaggio deriva da strutture innate, specificatamente
linguistiche. Secondo Piaget il linguaggio non è un sistema autonomo
rispetto alle capacità logiche di pensiero ma deriva proprio da queste. Un
prerequisito per l’acquisizione del linguaggio è il raggiungimento del
livello cognitivo della “rappresentazione”, più precisamente alla fine
dello stadio sensomotorio. Infatti il linguaggio fa la sua prima
apparizione quando questo primo stadio dello sviluppo sta per
terminare. Il linguaggio è uno dei molti aspetti che fanno parte di un
particolare stadio della struttura cognitiva sottostante. Ad esempio, la
funzione simbolica comprende: il linguaggio (inteso come prime parole),
il gioco simbolico (il gioco del far finta di) e l’imitazione differita.
Pertanto si può notare come il linguaggio sia solo una delle varie
manifestazioni della funzione simbolica (Piaget 1946; Bloom 1970).
In ultimo esponiamo il punto di vista di Bruner (1975a e 1975b).
Questo autore non ha escluso l’esistenza di una componente innata del
linguaggio ma tuttavia egli pensa che questa debba essere attivata
dall’esterno attraverso gli scambi comunicativi quotidiani con gli adulti,
il più delle volte la madre. E’ per mezzo degli scambi sociali che nel
bambino vengono attivate le capacità linguistiche innate. Bruner mise in
evidenza il ruolo fondamentale che ha l’ambiente sociale e familiare nel
processo di acquisizione del linguaggio (nel paragrafo 1.5. la sua
posizione verrà spiegata più in dettaglio).
Ognuna delle posizioni fin qui descritte ha influenzato gli studi sul
linguaggio. Le ricerche che fanno riferimento alla concezione innatista
tendono ad analizzare i vari tipi di abilità linguistica. In particolare
durante gli anni ’60 le ricerche subirono l’influenza della posizione di
Chomsky secondo cui l’acquisizione del linguaggio si basa
sull’apprendimento di regole sintattiche. Le prime ricerche utilizzarono
una procedura che consisteva nel registrare campioni di discorsi
spontanei dei bambini per individuarne i modi in cui venivano costruite
le espressioni verbali. Successivamente i ricercatori hanno cercato di
stabilire quali fossero le regole utilizzate dai bambini. L’esistenza di un
dispositivo innato implica l’universalità delle regole sviluppate dai
bambini nel corso dell’acquisizione del linguaggio. Infatti le ricerche
condotte da Braine (1963) e Brown (1973) sulla grammatica del
linguaggio precoce cercarono di individuare le regole universali. Questi
studi, però, si erano concentrati sugli aspetti sintattici del linguaggio
tralasciando quelli semantici e pragmatici.
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Con l’inizio degli anni ’70 il focus dell’interesse si spostò dalla
sintassi alla semantica. Bloom (1970) osservò che descrivere e conoscere
la struttura sintattica del linguaggio precoce non basta per spiegare e
capire un processo complesso come quello dell’acquisizione del
linguaggio. Secondo la Bloom gli studi condotti durante gli anni ’60
hanno ignorato l’aspetto semantico del linguaggio essendo esso veicolo
di significati. Infatti le ricerche condotte nella prima metà degli anni’ 70
registravano tutto ciò che un bambino diceva e contemporaneamente
veniva osservato quel che accadeva intorno a lui. Le informazioni
ricavate dal contesto servivano ad attribuire un significato alle
espressioni formulate dal bambino. Un bambino con un’espressione di
due parole intende esprimere qualcosa che va interpretato in relazione al
contesto in cui viene prodotta.
Nella seconda metà degli anni ’70 l’attenzione degli studiosi del
linguaggio si pose sugli aspetti pragmatici di esso. Hymes (1971)
distinse la nozione di competenza linguistica da quella di competenza
comunicativa. La prima si riferisce alla conoscenza del codice linguistico
mentre la seconda consiste nella capacità che ha un individuo di
conversare modificando i discorsi a seconda degli interlocutori. Gli studi
fatti in questi anni si concentrarono sulla competenza comunicativa dei
bambini. Pertanto le ricerche evidenziarono una continuità fra la fase che
precede la comparsa del linguaggio e il suo emergere successivo. Infatti
vennero rilevate diverse funzioni e intenzioni comunicative espresse dal
bambino già nella fase prelinguistica.
Il linguaggio è un sistema complesso formato da una serie di aspetti:
fonologico, morfologico, semantico, sintattico ed infine pragmatico.
Nel cercare di capire come avviene il processo di acquisizione del
linguaggio bisogna tener conto di tutti questi aspetti messi insieme
poichè è dalla loro integrazione che si struttura il linguaggio.
1.2. Le prime fasi dello sviluppo lessicale
Il lessico, attualmente, viene definito come un insieme di
rappresentazioni, cioè di oggetti mentali che corrispondono ad elementi
della realtà di cui riflettono certe caratteristiche rilevanti, e di processi
che si applicano a queste rappresentazioni operando su di esse
(Laudanna e Burani, 1993). Gli studi che si sono occupati dello sviluppo
del lessico nel bambino sono essenzialmente di due tipi. Il primo tipo è
rappresentato dagli studi diaristici che utilizzano il metodo osservativo
per raccogliere i dati. Il bambino viene osservato nel suo ambiente
familiare e seguito longitudinalmente, per tracciare le fasi e le modalità
del primo sviluppo linguistico. Gli studi diaristici sono stati molto utili,
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per mettere in evidenza le tappe di sviluppo universali, identiche in tutti i
bambini indipendentemente dalle diverse lingue e culture di
appartenenza. Quelle che utilizzano questo metodo sono ricerche su casi
singoli, quindi diviene difficile generalizzare i risultati.
Il secondo tipo di studi tenta di tracciare le linee generali dello
sviluppo del linguaggio utilizzando metodi indiretti di osservazione.
Essi rivelano e misurano lo sviluppo comunicativo e linguistico
attraverso la somministrazione di questionari ai genitori dei bambini.
Uno dei questionari più utilizzati negli studi sullo sviluppo delle
competenze lessicali e di quelle morfosintattiche è il MacArthur
Comunicative Development Inventory.
In Italia è stato costruito e ideato un questionario simile, per rilevare
e/o misurare lo sviluppo comunicativo e linguistico nei bambini italiani.
Si chiama “Il primo vocabolario del bambino” di Caselli e Casadio
(1995) ed è formato da due schede: “Gesti e parole” per raccogliere
informazioni su bambini di età compresa fra gli 8 e i 17 mesi, e “Parole e
frasi “ per quelli tra i 18 e i 30 mesi. La fascia di età tra gli 8 e i 17 mesi
è caratterizzata dalle prime intenzioni comunicative che il bambino
esprime con i gesti quali il mostrare, il dare e l’indicare utilizzati per
denominare e far richiesta. Questo tipo di gesti vengono chiamati gesti
comunicativi intenzionali deittici. La fascia di età che va dagli 8 ai 17
mesi appartiene, prevalentemente, alla fase prelinguistica che precede la
comparsa delle prime parole. Successivamente compare un secondo tipo
di gesti detti comunicativi intenzionali referenziali come ad esempio
ciao, non c’è più, telefonare ecc. Rispetto al primo tipo di gesti in quelli
referenziali il referente non è dato dal contesto in cui la comunicazione
ha luogo. Il contenuto semantico da loro espresso non varia in funzione
del contesto. Per questo aspetto i gesti referenziali “somigliano” alle
parole. E’ stato riscontrato che esiste una continuità fra comunicazione
gestuale e vocale mettendo, così, in crisi la visione secondo la quale la
comparsa delle prime parole coincide con la nascita del linguaggio
(Bruner, 1975b; Camaioni, 1978). Pertanto nello studiare lo sviluppo del
vocabolario nelle prime fasi di vita occorre prendere in considerazione
sia le parole che i gesti. Esiste, infatti, una precisa corrispondenza fra le
parole comprese e i gesti usati dal bambino. Fino ai 18-20 mesi, nel
bambino prevale la tendenza ad usare i gesti piuttosto che le parole
dopodichè a poco a poco nel bambino comincia a prevalere la modalità
vocale su quella gestuale. In genere intorno ai 17-18 mesi il numero di
parole comprese risulta essere maggiore rispetto al numero di parole
prodotte. Inoltre non sembra esistere un rapporto proporzionalmente
diretto tra il numero di parole comprese e prodotte. Alcuni bambini,
infatti, comprendono un numero elevato di parole (200-300) e ne
producono invece molto poche (ad es. 10), altri al contrario
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comprendono un numero di parole relativamente basso (100) ma ne
producono un numero proporzionalmente alto (50). Quindi il numero di
parole comprese ad una determinata età non sono sempre collegate al
numero di parole prodotte. Alcuni studi, però, hanno messo in luce
l’esistenza di una forte correlazione fra la comprensione di parole in una
fase dello sviluppo e la produzione di parole nelle fasi successive
(Caselli e Casadio, 1995). Il fatto che la comprensione di parole predica
l’ampiezza del vocabolario prodotto nelle età successive, suggerisce che
le due abilità, quella del comprendere e del produrre, siano indipendenti
fra loro solo apparentemente o nella fase in questione (18-20 mesi). In
realtà esse sono collegate fra loro pur avendo ritmi di sviluppo diversi
(Caselli e Casadio, 1995). In genere le parole che vengono più
facilmente comprese e prodotte fra gli 8 e i 18 mesi sono i nomi di
persona, di oggetti, i versi degli animali e le routine. Successivamente,
tra i 19 e i 24 mesi, il numero di parole prodotte dal bambino comincia
ad aumentare vorticosamente tanto da far parlare di una esplosione del
vocabolario. Il bambino in questa fase scopre che tutte le cose hanno un
nome, e anche i genitori notano che i loro figli hanno sempre meno
bisogno di sollecitazioni per produrre parole. L’esplosione del
vocabolario è un fenomeno molto discusso, perché può manifestarsi in
tempi e fasi di sviluppo che variano da individuo a individuo. Perciò non
si può considerare l’esplosione del vocabolario come una tappa
obbligatoria e universale. Ad esempio alcuni bambini acquisiscono il
lessico in modo molto graduale senza presentare alcuna brusca
accelerazione.
Inizialmente le prime parole vengono comprese e usate in una singola
situazione comunicativa e verso specifiche entità. Le parole, poi,
vengono accumulate in un magazzino del lessico. L’esplosione o
l’espansione del vocabolario può avvenire solo dopo che il bambino
abbia usato e immagazzinato una certa quantità di parole che supera la
soglia minima al di là della quale si ha un apprendimento automatico e
continuo di nuove parole. Inoltre la scoperta che a ciascuna cosa va dato
un nome fa sì che il bambino possa classificare un gruppo di cose nelle
loro rispettive categorie di nomi e quindi a comprendere che tutte le cose
fanno parte di categorie (Gopnik e Meltzoff, 1987).
Secondo Nelson e Horgan (1981) le differenze nell’andamento di
acquisizione del linguaggio possono essere identificate nel rapporto che
intercorre tra velocità di apprendimento e differenze di stile di
apprendimento. I due studiosi hanno rilevato l’esistenza di una relazione
positiva tra la velocità di acquisizione e l’enfasi sui sostantivi in bambini
di lingua inglese.
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Nelson (1973) notò che alcuni bambini erano più interessati al mondo
degli oggetti ed all’importanza di nominarli, mentre altri erano più
orientati verso il mondo sociale e utilizzavano il linguaggio per
esprimere sentimenti e bisogni. Il primo gruppo di bambini fu chiamato
referenziale e il secondo espressivo. Seguendo longitudinalmente i due
gruppi, rispettivamente con stile referenziale ed espressivo, Nelson trovò
che lo sviluppo del vocabolario dei bambini referenziali era più rapido
mentre il gruppo di bambini con stile espressivo presentava uno
sviluppo più rapido sul piano sintattico. La maggior parte dei bambini
presenta uno stile misto fra quello referenziale ed espressivo. Rari sono
quei bambini che hanno uno stile ben definito tra questi due. Una ricerca
di Camaioni e Longobardi (1995) su 15 bambini italiani ha rilevato che
solo un numero ridotto di questi bambini usa uno stile chiaramente
definibile come “referenziale” o “espressivo”. La maggior parte dei
bambini presenta uno stile che comprende entrambi questi due stili. In
questa ricerca, lo stile referenziale è stato definito sulla base della
presenza di almeno il 40% di sostantivi prodotti rispetto al totale mentre
lo stile espressivo è stato definito in base al 40% di pronomi e nomi
propri. Confrontando la composizione del vocabolario dei bambini più
veloci e di quelli più lenti nell’apprendimento, si è notato che i bambini
precoci producevano molti più sostantivi, verbi e articoli rispetto a quelli
più lenti. Sono necessarie ulteriori ricerche per identificare meglio i
fattori che influiscono sulle prime strategie di acquisizione del
vocabolario.
1.3. Lessico e abilità morfosintattiche
I bambini, intorno ai 18 mesi, utilizzano la stessa parola per più
referenti. Questo fenomeno è detto della sovraestensione del significato.
Infatti il bambino usa brum per riferirsi a tutti i veicoli o pappa per tutti i
cibi. Diviene quindi difficile collocare il primo lessico all’interno di
categorie grammaticali e semantiche rigide. L’adulto, interagendo con il
bambino, attribuisce alla parola lo status di “nome” o “verbo” a seconda
dell’uso che ne fa il bambino in contesti diversi. Questo periodo è detto
“olofrastico” perché il bambino usa una parola per designare il
significato che altrimenti sarebbe espresso da una intera frase. L’adulto
aggiunge e completa l’enunciato del bambino. Dore (1975) analizzò le
espressioni di una singola parola prodotte dal bambino in termini di atti
linguistici primitivi. Un atto linguistico primitivo è definito come un
enunciato la cui forma consiste in una sola parola o in un singolo
modello prosodico che ha la funzione di trasmettere l’intenzione del
bambino prima che egli abbia acquisito la capacità di produrre frasi. Il
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bambino pur pronunciando una sola parola alla volta esprime a livello
comunicativo un contenuto semantico grazie anche all’aiuto di gesti di
vario tipo e facendo riferimento a tutto ciò che riguarda il contesto
situazionale e linguistico. Una stessa parola può esprimere così diversi
significati di “frasi” anche molto diverse fra loro.
Esiste una continuità fra il lessico e la morfologia e fra il lessico e la
capacità di produrre frasi? Molti studiosi hanno sostenuto che i processi
di acquisizione che guidano lo sviluppo di domini diversi, come ad
esempio quello fonologico e lessicale, sono regolati da meccanismi
distinti rispetto a quelli che governano lo sviluppo delle abilità
morfosintattiche (Fodor, 1983; Roeper, 1987). Altri studi, al contrario,
hanno riscontrato l’esistenza di una continuità fra le tappe raggiunte dai
bambini nel dominio lessicale ed in quello morfosintattico (Locke, 1979;
Bortolini, 1993; Dromi, 1993). Recentemente da una ricerca di Bates e
Marchman (1994) è emerso che esiste una correlazione tra lo sviluppo
lessicale e morfologico in bambini di lingua inglese; più in particolare
fra l’ampiezza del vocabolario e l’emergere della morfologia verbale.
Anche i dati di ricerche su bambini italiani confermano che durante lo
sviluppo cresce l’espansione del lessico, la capacità di formare frasi ed
aumentano le competenze morfologiche. Ad esempio, i dati di una
ricerca di Caselli e Casadio (1993) sostengono che la produzione di
parole, a 14 mesi di età, sia collegata alla capacità di comprensione e di
produzione a 20 mesi e che vi sia una relazione fra ampiezza del
vocabolario, la conoscenza di parole (comprese) con funzione
grammaticale e sviluppo della capacità combinatoriale. Quest’ultima
consiste nella capacità da parte del bambino di produrre enunciati di due
o più parole. Le prime combinazioni di parole compaiono stabilmente
nel 45% circa dei bambini di 22-24 mesi e nel 85% circa dei bambini di
28-30 mesi (Caselli e Casadio, 1995). La capacità di combinare insieme
più parole fra loro viene acquisita dal bambino quando il suo vocabolario
è di almeno 100 parole. Si tratta di una soglia al di là della quale il
bambino incomincia a produrre le prime “frasi”.
1.4. Il linguaggio rivolto ai bambini
Analizzare il linguaggio che gli adulti utilizzano quando si rivolgono
ai loro bambini è un modo per saperne di più sul processo di
acquisizione del linguaggio. I risultati di molte ricerche documentano
che l’input linguistico rivolto ai bambini predice il loro sviluppo
semantico e sintattico. Le ricerche che risalgono agli anni ‘70 sull’input
linguistico hanno studiato il cosiddetto Baby Talk evidenziandone gli
aspetti prosodici caratteristici come il tono alto e i contorni intonazionali
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“esagerati” (Blount, Padgug, 1977). Inoltre vennero raccolti dati sul tipo
di lessico usato con i bambini piccoli e molti ricercatori pensarono che le
parole usate nel Baby Talk potevano essere analizzate come forme
semplificate di parole adulte (Ferguson, 1977). Ci si è interessati al
linguaggio che viene rivolto ai bambini per cercare di sapere quanto di
questo linguaggio va a far parte del lessico dei bambini, considerandone
gli aspetti sintattici e semantici, più che quelli lessicali e fonologici.
Secondo la Snow, visto che non sono solo le madri a parlare in maniera
particolare ai bambini ma tutti gli adulti, ha preferito usare l’espressione
“ linguaggio rivolto ai bambini “ (Child Directed Speech, CDS) anziché
Baby talk e Motherese.
Gli studi sul linguaggio rivolto ai bambini sono stati fatti per
rispondere alle affermazioni di Chomsky, secondo il quale, il linguaggio
a cui sono esposti i bambini è complesso, pieno di errori e di frasi non
complete; pertanto il linguaggio viene acquisito grazie ad un dispositivo
innato e non per mezzo delle influenze ambientali.
Uno degli studi più noti fu condotto da Snow (1972) la quale concluse
che, a differenza di quanto affermò Chomsky, ai bambini non vengono
presentate frasi complesse e sgrammaticate ma al contrario il linguaggio
a loro rivolto è costituito da frasi organizzate, semplificate e ridondanti.
I bambini ricevono, quindi, una base ideale per l’apprendimento del
linguaggio. In un secondo momento, Snow pose l’attenzione sui fattori
che inducono le madri ad usare questo linguaggio specifico. L’autrice
sostiene che i fattori che influenzano le madri siano due: il feedback
proveniente dal bambino e le aspettative che la ha madre circa le
capacità che ha il suo bambino di comunicare con lei. Inoltre Snow notò
che una caratteristica saliente del linguaggio materno è la riduzione della
lunghezza media dell’enunciato. Le frasi sono semplici perché vi è un
uso minore di proposizioni subordinate e di verbi composti e di enunciati
senza verbo. In una frase semplice è molto probabile che il soggetto ed il
verbo, i quali sono in relazione, si susseguano uno dopo l’altro. In questo
modo il bambino arriva a scoprire la regola soggetto-verbo-oggetto più
facilmente. In effetti il lavoro che il bambino compie, nel ricercare le
principali unità di una frase, viene facilitato data la minor quantità di
unità da elaborare. Il fatto che le madri ripetano più volte una stessa
frase, fornisce al bambino più tempo per elaborare l’input offrendogli la
possibilità di fare attenzione alle costruzioni e alla struttura sintagmatica
degli enunciati ascoltati. Gli adattamenti attuati dalle madri sono
collegati al livello di comprensione del bambino. Infatti è stato
dimostrato che gli adulti accorciano le loro frasi dopo che le risposte
del bambino ne hanno indicato una mancanza di comprensione. Il
bambino, da parte sua, per mezzo delle abilità di comprensione, filtra gli
input che superano un certo livello di difficoltà ossia che diventano
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complessi per lui. Quindi il linguaggio che gli adulti rivolgono ai
bambini viene adattato al loro livello di comprensione. Il modello
conversazionale spiega le caratteristiche del linguaggio rivolto ai
bambini e come questo favorisce lo sviluppo del linguaggio. Il contenuto
del CDS è costituito da frasi di tempo presente e commenti su ciò che
accade o su cosa sta facendo il bambino. In genere le madri fanno
osservazioni, pongono domande su come vengono chiamati gli oggetti,
sul rumore che fanno, sul loro colore, sulle azioni in cui sono coinvolti,
su chi li possiede, sulla loro collocazione. Molte espressioni materne
sono costituite da espansioni. Le espansioni sono espressioni complete e
corrette che completano le espressioni telegrafiche dei bambini. In
definitiva, le espansioni forniscono informazioni per una realizzazione
corretta e completa di ciò che il bambino vuole dire (Cross, 1978; Wells,
1978). Anche il fornire delle estensioni semantiche, che aggiungono
nuove informazioni a ciò che ha detto il bambino, hanno un effetto
facilitante, più delle semplici espansioni (Cross, 1978; Barnes, 1983).
Cross (1978) e Barnes (1983) hanno trovato che la percentuale di
espressioni materne, collegate semanticamente alle precedenti
espressioni infantili, è un indice per predire lo sviluppo delle abilità
linguistiche nel bambino.
In sintesi il linguaggio che le madri usano quando si rivolgono ai loro
bambini, è formato da espansioni, richieste di chiarificazione, domande
che riguardano la realtà circostante e l’attività di gioco del bambino.
Uno studio ha messo in luce che, oltre agli adulti e alle madri, anche i
bambini di 4-5 anni usano un linguaggio piuttosto semplice e ridondante
quando si rivolgono a bambini tra 2 anni (Shatz e Gelman, 1973). Il
bambino, quindi riceve comunque un input particolare e semplice, sia
che a lui si rivolga, durante una conversazione, un adulto, la madre o un
fratello maggiore. Contemporaneamente un’altra serie di studi verificò
che i bambini hanno un ruolo attivo nel selezionare le frasi che ascoltano
(Shipley, Gleitman e Smith, 1969; Snow 1972). Infatti emerse che, tra le
frasi pronunciate dall’adulto, il bambino prestava più attenzione a quelle
che cominciavano con una parola a lui più familiare che non a quelle che
cominciavano con una parola non familiare. Pertanto si può dire che, da
un lato, gli adulti semplificano il linguaggio che inviano ai loro bambini
e dall’altro questi ultimi selezionano attivamente l’input ricevuto.
I bambini vengono esposti, ogni giorno, ad un insieme di parole molte
delle quali potrebbero essere aggiunte nel loro vocabolario. Alcune di
queste parole vengono ascoltate più frequentemente di altre. Ad esempio
fra i termini più ascoltati vi sono quelli che designano i colori degli
oggetti, i quali, vanno a far parte del lessico del bambino.
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Quasi quotidianamente i genitori richiamano l’attenzione dei loro figli
sui colori degli oggetti. Recentemente Gleason e Ely (1997), esaminando
le produzioni spontanee dei bambini (25-62 mesi) durante le
conversazioni con i loro genitori, hanno trovato che il nome dei colori
acquisiti dai bambini sono esattamente quelli usati ed enfatizzati dai loro
genitori. Inoltre questi due autori hanno disconfermato l’esistenza di un
ordine universale di acquisizione dei termini che designo i colori
proposta da Berlin e Kay (1969), i quali sostenevano che il bianco e il
nero fossero i nomi dei colori più usati e che venissero acquisiti per
primi rispetto agli altri colori. Secondo i dati ottenuti da Gleason e Ely il
nome dei colori usati più di frequente e acquisiti prima di altri, sia dai
genitori che dai bambini, sono il rosso e il blu.
Esistono diversi modi in cui gli adulti si rivolgono ed interagiscono
con i propri figli. Diversi studiosi si sono chiesti se queste differenze
nello stile di interazione tra adulto e bambino possano influenzare il
ritmo di sviluppo del linguaggio. Cross (1978) provò a svolgere un
confronto fra un gruppo di bambini (19-33 mesi) che presentavano un
processo di sviluppo del linguaggio accelerato e un altro gruppo che
presentava, invece, uno sviluppo normale. Cross scoprì che il primo
gruppo di bambini era il più esposto ad un linguaggio che si adattava al
loro livello linguistico, quindi al loro livello di comprensione. Le madri
di questi bambini, infatti, adattavano il loro linguaggio regolandosi
continuamente sul livello di comprensione del proprio bambino. Quindi i
bambini che fanno progressi rapidi sono proprio quelli che ricevono una
maggior quantità di espressioni che sono contingenti alle loro espressioni
precedentemente prodotte. Come abbiamo già accennato all’inizio di
questo paragrafo, la maggior parte delle espressioni che un bambino
riceve sono costituite da imitazioni, espansioni ed estensioni.
L’importanza delle risposte estese a un argomento espresso dal
bambino è stata sottolineata da una ricerca della Howe (1980). Anche
questa autrice si interessò agli effetti, sullo sviluppo del linguaggio,
dovuti a diversi modelli di conversazione.
Nella sua ricerca i bambini avevano un’età compresa fra i 20 e i 22
mesi e si trovavano tutti ad uno stesso livello di sviluppo. Furono
videoregistrate le interazioni madre-bambino dalle quali l’autrice rilevò
l’esistenza di diversi modi che avevano le madri di rivolgersi ai loro
bambini per iniziare una conversazione. Alcune madri rispondevano ai
commenti dei bambini, usando raramente richieste di informazione per
iniziare la conversazione; altre, viceversa, iniziavano uno scambio di
conversazione chiedendo un’informazione al bambino, mentre raramente
fornivano risposte estese ai suoi commenti; altre infine, presentavano
entrambi gli aspetti degli altri due gruppi. I bambini di questo ultimo
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gruppo presentavano dei progressi maggiori rispetto agli altri due gruppi.
La Howe concluse che questi bambini hanno potuto trarre maggior
beneficio, dalla richiesta di informazione e dalle risposte estese ai loro
commenti messi insieme.
Mc Donald e Pien (1982), analizzando il linguaggio che 11 madri
rivolgevano ai loro bambini di età 2-3 anni (in termini di intenzione
interattiva delle madri), trovarono che le madri avevano principalmente
due modi di rivolgersi ad essi: in un caso la madre tendeva a controllare
il comportamento del bambino, mentre nell’altro aveva un atteggiamento
interattivo. Questi autori, in base ai dati che hanno ottenuto, hanno
concluso che quel che facilita lo sviluppo linguistico nel bambino è il
modo delle madri che hanno interesse a stimolare la conversazione
anziché operare un controllo su di essa.
A facilitare lo sviluppo linguistico dei bambini è lo stile di quelle madri
il cui scopo è di elicitare la conversazione.
Un’altra importante ricerca è stata fatta da Ellis e Wells (1980). I dati
da loro ottenuti rivelano che i bambini, il cui sviluppo linguistico si
manifesta precoce e rapido, ricevono maggiori riconoscimenti delle loro
espressioni verbali nonchè più istruzioni e più domande. I riconoscimenti
forniscono, al bambino, un feedback su ciò che hanno detto e, allo stesso
tempo, sono un rinforzo. Le istruzioni, date ai bambini, si riferiscono agli
oggetti circostanti o alle azioni in cui adulto e bambino sono coinvolti.
Inoltre gli adulti fanno domande al proprio bambino circa quello che sta
facendo. Pertanto gli autori di questa ricerca hanno concluso che i
riconoscimenti, le istruzioni e le domande incidono sul ritmo di sviluppo
del linguaggio di un bambino, favorendolo.
1.5. Contesto e ambiente sociale nel processo di acquisizione
del linguaggio
Durante gli anni ’60, data l’influenza del paradigma chomskiano, il
contesto era inteso sia come contesto linguistico (ciò che dice il parlante
prima e dopo un enunciato e ciò che dicono gli interlocutori) che come
contesto extra-linguistico (ciò che accade nell’ambiente fisico in
concomitanza con l’emissione di un dato enunciato). Successivamente,
in seguito agli studi che hanno verificato empiricamente le proposte
teoriche di Chomsky, si è fatta strada la consapevolezza che il significato
di una frase è ampiamente determinato dal contesto in cui essa viene
usata. Dall’inizio degli anni ’70 in poi gli studi sul linguaggio hanno
cominciato a dare grande importanza al contesto inteso come luogo in
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cui adulto e bambino instaurano un’attenzione condivisa
1
; quindi il
contesto diviene sinonimo di interazione sociale. L’attenzione condivisa
Pertanto il linguaggio non è stato più studiato e analizzato come
fenomeno intraindividuale e intrapsichico ma come fenomeno
interindividuale e interattivo. L’acquisizione del linguaggio implica una
relazione tra il sistema linguistico e il mondo. Il linguaggio viene
appreso principalmente attraverso l’interazione sociale.
Bruner sostiene che le relazioni sociali sono la vera radice dello
sviluppo cognitivo e linguistico. Secondo questo autore il linguaggio,
così come l’apprendimento degli schemi sensomotori, viene acquisito
all’interno di un contesto sociale familiare, strutturato dall’adulto.
Questo contesto strutturato viene da lui chiamato formato. Un formato è
una situazione di interazione abituale e ripetuta in cui l’adulto e il
bambino fanno delle cose l’uno all’altro e con l’altro (Bruner, 1987).
Tramite i formati si creano delle routine attraverso le quali il bambino
acquisisce le funzioni pragmatiche del linguaggio e impara ad usare il
linguaggio in modo rappresentativo e simbolico, grazie alla condivisione
e convenzionalizzazione dei significati. Inoltre i formati inseriscono le
intenzioni comunicative del bambino in una matrice culturale. Quindi
essi sono strumenti per trasmettere la cultura e il relativo linguaggio.
Nella prospettiva teorica di Bruner viene dato un ruolo significativo alla
figura dell’adulto nel favorire lo sviluppo delle capacità linguistiche nel
bambino. Infatti secondo l’autore il linguaggio viene appreso dal
bambino soprattutto nel corso dell’interazione e dell’attività ludica con la
madre. La madre interpretando il comportamento del suo bambino ne
struttura le intenzioni. E’, in genere, la madre colei che dirige
l’attenzione del suo bambino e attribuisce intenzioni alle azioni che il
piccolo mette in atto
2
. Man mano che il bambino intraprende un’azione
comune con la propria madre acquisisce non solo la lingua, ma le regole
e le convenzioni sociali.
Fra le tante situazioni di routine che si presentano durante il giorno
occupano una posizione di rilievo le conversazioni fra adulto e bambino
che avvengono durante l’ora dei pasti. Molti autori ritengono che le
conversazioni in famiglia durante il pranzo o la cena favoriscono
l’acquisizione di nuove parole e di forme linguistiche convenzionali nel
bambino (Gleason e Ely, 1997; Beals, 1997). Durante il pranzo e la cena,
infatti, adulto e bambino interagiscono conversando ad esempio di un
evento del giorno oppure raccontando delle storie. Si tratta di un contesto
interattivo nel quale il bambino impara il significato di nuove parole.
1
Per la nozione di attenzione condivisa vedi Vygotskij Piaget, Bruner Concezioni dello sviluppo, a
cura di Olga Liverta Sempio, 1998 (pag.276)
2
Per ulteriori informazioni su Bruner vedi Il bambino segno simbolo e parola di Anolli e Scurati (pag.
55-57)
14
Beals e Smith (1992) hanno analizzato le conversazioni spontanee
durante i pasti di 31 famiglie (età dei bambini 3 anni). La maggior parte
di queste conversazioni verteva su racconti ed inoltre i genitori davano
un gran quantità di spiegazioni ai loro bambini. Pertanto le conversazioni
durante i pasti possono essere considerate un contesto strutturato dato
che l’adulto fornisce il supporto necessario per l’acquisizione di parole
ancora sconosciute al bambino. I bambini, però, sono capaci di imparare
dalle otto alle dieci parole al giorno anche senza alcuna istruzione diretta
sul loro significato da parte dell’adulto. Infatti talvolta i bambini
acquisiscono il senso di una nuova parola tramite una sola esposizione.
Secondo Rice (1990) i bambini apprendono il significato di nuove parole
da un’esposizione incidentale di queste ultime per mezzo di prerequisiti
cognitivi, quali la rappresentazione, e di un processo che l’autrice
chiama Quick Incidental Learning (QUIL), che significa appunto veloce
apprendimento incidentale. Questo processo comprende diversi compiti
cognitivi che un bambino mette in atto: segmentazione del discorso per
l’identificazione
di nuove parole, rappresentarsi un possibile referente della nuova parola,
confrontare e adattare gli elementi lessicali al referente della
rappresentazione ed infine immagazzinare la parola nella memoria
semantica per poterla riutilizzare successivamente. Non va tralasciato il
fatto che questo apprendimento incidentale si svolge in un contesto,
inteso come scambio interattivo, il quale fornisce al bambino una
comprensione parziale del significato della parola da acquisire. Durante i
primi anni di vita il linguaggio del bambino è molto legato al contesto in
cui hanno luogo gli scambi comunicativi. Gradualmente durante lo
sviluppo riesce a far uso di un linguaggio sempre più decontestualizzato,
che gli consente di comunicare e parlare di oggetti, persone e azioni non
presenti in quel particolare momento.
Dal momento che l’organizzazione formale del linguaggio e i
significati e gli scopi che essa soddisfa nella comunicazione sono appresi
principalmente attraverso l’interazione sociale, è evidente che, nella
misura in cui questa varia da un gruppo sociale all’altro, ci sarà una
variabilità nel linguaggio infantile che può essere collegata
all’appartenenza ad un gruppo (Wells, 1991). Per appartenenza ad un
gruppo sociale si intende lo status socioeconomico o la classe sociale in
cui un bambino è inserito dalla nascita. Vi sono, infatti, molti studi che
documentano la presenza di differenze significative presenti nel processo
di sviluppo del linguaggio in bambini che provengono da classi di livello
culturale diverso. Il vocabolario è l’aspetto che più precocemente viene
influenzato dalle condizioni socio-ambientali. La conoscenza del
vocabolario è l’area linguistica più connessa con le capacità cognitive e
che risulta essere sensibile, durante il suo sviluppo, alle variazioni
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dell’ambiente sociale. Ad esempio i bambini che appartengono ad una
classe di livello socioeconomico basso presentano uno sviluppo del
vocabolario inferiore rispetto a quelli che appartengono ad un livello
sociale più elevato (Anolli e Scurati, 1987).
Una spiegazione a questo fu data da Bernstein (1961) il quale
sostenne che i bambini di livello socioeconomico basso presentano
difficoltà perchè esposti ad un codice linguistico ristretto. Questo autore
introdusse il concetto di codice linguistico distinto in codice ristretto e
codice elaborato, per descrivere i diversi stili comunicativi ai quali
venivano esposti i bambini sia di classe media che di classe medio-
bassa. Il codice ristretto venne descritto, dall’autore, come un linguaggio
che rimaneva molto ancorato al contesto, nel quale i significati venivano
lasciati impliciti ed i concetti complessi e astratti spesso non sono
espressi. I bambini di classe socioeconomica bassa incontrano rilevanti
difficoltà nel processo di scolarizzazione rispetto ai bambini di classe
media. Questo, secondo Bernstein, è dovuto ad una carenza o deficit
esistente nella cultura dei bambini di livello basso. Così l’autore
concluse che il codice ristretto non favorisce l’elaborazione di un
pensiero logico e astratto. Questa posizione venne messa in discussione
da Labov (1965) il quale, in una ricerca volta ad analizzare l’inglese
utilizzato da persone di colore, appartenenti a comunità statunitensi
emarginate, rifiutò la supposta superiorità dell’inglese convenzionale per
concludere che, l’inglese usato dai bambini di classi subalterne non è un
linguaggio meno sviluppato rispetto a quello utilizzato dalle classi
medie, semplicemente se ne differenzia perché dotato di un sistema di
regole proprio. Bisogna considerare, però, che la posizione di Labov,
rispetto a quella di Bernstein non tenne conto del rapporto tra forme
linguistiche e processi cognitivi. Pertanto le ricerche di Labov non
invalidano la tesi di Bernstein secondo la quale l’impiego di un codice
ristretto non favorisce l’accesso ad un pensiero astratto ed elaborato.
Successivamente sono stati fatti altri studi che hanno indagato sulla
relazione tra sviluppo cognitivo e capacità linguistiche in contesti
svantaggiati. In particolare Picone e Pinto (1986) hanno valutato
ampiamente gli aspetti e i livelli dell’intelligenza trovando che
l’elemento discriminante tra le classi sociali è il fattore verbale delle
prove intellettive. Infatti, le differenze esistenti fra i soggetti di classe
proletaria e quelli di classe medio-alta, risultavano essere nulle o
modeste nelle prove intellettive che non contengono prove verbali come
ad esempio, le Matrici Progressive di Raven e la scala di performance
del test WISC-R, mentre invece, erano presenti delle differenze proprio
in quelle prove che contenevano qualche implicazione linguistica. Dato
che nelle consegne delle prove operative non si può prescindere da una
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formulazione verbale i soggetti di classe proletaria presentavano
difficoltà a livello semantico e questo ostacolava la comprensione
dell’intero problema da risolvere. Ciò spiega perché i soggetti di questa
classe presentano curve di sviluppo operatorie più lente rispetto ai loro
coetanei di classe medio-alta. In sintesi il potenziale cognitivo dei
bambini di classe proletaria incontra serie difficoltà che hanno
ripercussioni sui tempi evolutivi. I risultati delle ricerche fin qui riportati
dimostrano quanto sullo sviluppo del linguaggio, nonché su quello delle
capacità cognitive in genere, influisca il fatto che un bambino sia inserito
e cresca in un contesto sociale e culturale anziché un altro.