INTRODUZIONE
L’industria assicurativa contribuisce alla crescita economica ed alla prosperità
nazionale in vari modi: a livello “macro” contribuisce a rafforzare l’efficienza e la
resistenza dell’economia facilitando il trasferimento del rischio, a livello “micro”
aiuta gli individui a minimizzare l’impatto finanziario del verificarsi di eventi
inattesi.
Per il tipo di attività svolta, l’impresa assicurativa è soggetta a varie tipologie di
rischio, che deve saper controllare e gestire al fine di proteggere gli assicurati e
tutelare la stabilità del sistema.
Entra in gioco il concetto di solvibilità, cioè la capacità dell’assicuratore di far
fronte ai propri impegni nei confronti degli assicurati. Il tema della solvibilità di una
impresa di assicurazione è per sua natura un argomento ampio, in quanto nello
stabilire le regole per garantire la solidità finanziaria vengono coinvolti vari aspetti
dell’impresa, quali ad esempio la vita gestionale e i settori di attività.
Assicurare la stabilità dei propri affari e cautelarsi da imprevisti, che hanno
ripercussioni finanziarie, è una naturale esigenza per qualsiasi impresa e in qualsiasi
epoca. Nel tempo, però, cambia il modo in cui affrontare questo argomento e
mutano gli eventi dai quali mettersi al riparo.
Si può risalire fino al 1630 [San06] per delineare una prima definizione di
solvibilità come “ la capacità di pagare tutti i debiti legali”, soffermandoci
sull’aspetto che, in passato, un dissesto finanziario coinvolgeva un numero di
persone decisamente inferiore rispetto a quanto avviene oggi, questo a causa
dell’allargamento dei mercati e della globalizzazione. Infatti, oggi, le vicende di
un’impresa del settore assicurativo hanno forte impatto anche su quello finanziario,
bancario, immobiliare e produttivo. In particolare una compagnia assicurativa si
trova responsabile nei confronti dei propri assicurati e nei confronti del mercato; per
tale motivo le viene richiesto un adeguato livello di solvibilità.
L’impresa assicuratrice deve poter far fronte in qualsiasi momento agli impegni
assunti che derivano dalla gestione assicurativa, per questo motivo deve poter
disporre di adeguati mezzi propri atti a fronteggiare situazioni in cui uno o più
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rischi potrebbero pregiudicarne l’attività. Le formule di sintesi (short-cut)
permettono di commisurare la necessaria entità dei mezzi propri al livello di
rischiosità relativo alla gestione assicurativa, espresso tramite le riserve
matematiche, i capitali sotto rischio, i capitali riassicurati o , ancora, da altre
quantità collegate al portafoglio. Il risultato di queste formule è il “minimo margine
di solvibilità”. D’altra parte i dati di bilancio di una impresa assicuratrice verificano
la presenza di mezzi propri in misura non inferiore all’importo del minimo margine
di solvibilità. Questa verifica deve aver luogo secondo uno schema prefissato che
stabilisca quali voci del bilancio far rientrare nella determinazione dei mezzi propri
riconosciuti all’assicuratore ai fini della solvibilità. Dei primi metodi per calcolare
tali margini e dell’evoluzione storica, partendo dalle prime direttive, basate sui
lavori di Campagne – che incentrò questi lavori sullo studio della probabilità di
rovina in un esercizio – fino a giungere a Solvency I, parleremo nel corso del
Capitolo Primo.
Dai limiti di Solvency I si partirà verso l’argomento principale del nostro lavoro,
ovvero Solvency II, del quale nel Capitolo Secondo verranno mostrate le
peculiarità, la struttura e gli obiettivi. Tale progetto, adottando un risk based
economic approch, introdurrà requisiti regolamentari (cd Solvency Capital
Requirement e Minimum Capital Requirement) calibrati sul rischio effettivo
dell’impresa assicurando, anche grazie all’architettura “Lamfalussy”, un’elevata ed
un’adeguata tutela nei confronti dei contraenti. Ne deriva che il nuovo sistema di
solvibilità dovrà essere congeniato in modo da incentivare l’impresa a compiere una
corretta valutazione e gestione dei rischi cui è esposta nell’esercizio della sua
attività.
L’obiettivo che si pone la Commissione Europea con il progetto Solvency II è
quello di definire un regime prudenziale, comprensivo dei requisiti patrimoniali, che
sia meglio calibrato sui rischi effettivi cui le singole imprese di assicurazione sono
esposte e che possa incentivare una migliore misurazione e gestione dei rischi da
parte delle imprese stesse. Verrà evidenziata la struttura della Direttiva, articolata su
tre “pilastri”, seguendo l’impostazione precedentemente utilizzata per Basilea II,
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atta a definire un sistema prudenziale – come detto - più orientato ai rischi, ma, al
contempo, più flessibile, dove ad ogni pilastro si fa riferimento rispettivamente a
requisiti quantitativi, qualitativi e di disciplina di mercato
Nel Capitolo terzo si parlerà dell’importanza degli studi di impatto quantitativo nel
processo di sviluppo di Solvency II. I QIS, ovvero Quantitative Impact Studies sono
stati introdotti su richiesta del CEIOPS come strumento per reperire dati, pareri ed
input quali/quantitativi dalle imprese, ma anche per far acquisire consapevolezza e
per preparare le imprese stesse sui requisiti delle nuova Direttiva. In questo capitolo
si farà un cenno agli obiettivi perseguiti dai primi tre studi (QIS1, QIS2, QIS3)
mentre ci soffermeremo sul più recente di questi studi ovvero il QIS4, la cui
struttura proviene dai progressi e dagli sviluppi degli altri QIS ed è destinata a
rimanere immutata, seppur modificandosi nei parametri e nelle calibrature.
Un esempio pratico, con la chiara intenzione di entrare nel concreto, di Internal
Model (IM) verrà sviluppato all’interno del Capitolo Quarto.
Come vedremo nel corso del lavoro, un modello interno è l’alternativa alla
Standard Formula (SF) per il calcolo del requisito. Un’impresa infatti può avvalersi
di un modello interno, previa autorizzazione dell’Autorità di vigilanza, qualora
ritenga che i risultati della Standard Formula non riflettano il reale profilo di rischio.
Integrare o sostituire la SF con un IM nel business e nel sistema di Risk
Management può altresì essere vantaggioso in termini di risparmio di capitale e
garantisce una maggiore comprensione del proprio business; tutto ciò, a causa della
complessità dei dati (di dettaglio) e delle capacità richieste, può comportare un
elevato esborso iniziale. Tuttavia i benefici derivanti dall’utilizzo di un modello
interno, nel medio-lungo termine, saranno molteplici e consentiranno al
management di produrre decisioni più appropriate e più tempestive.
In questa disamina, che tende ad entrare sempre più nel particolare, grande
importanza assume il Capitolo conclusivo di questo lavoro in cui verrà effettuata
un’analisi specifica che riguarda entrambi i rami; dapprima si tradurrà in concreto,
con l’ausilio di formule di pricing, la valutazione delle polizze vita “Profit-Sharing”
nella convalida del modello interno. Infine, per quanto concerne il ramo non-vita,
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verranno messi a confronto due modelli: lo Swiss Solvency Test (SST) e Solvency
II, evidenziandone similitudini e differenze nella determinazione del requisito di
capitale per l’”insurance risk”.
La materia Solvency II è molto articolata e trova elementi di spunto nei regolamenti
di associazioni ed enti che operano a livello europeo, delle associazioni di
professionisti del settore, nei regolamenti di contabilità, e nei regolamenti di altri
Paesi europei e non.
Il presente lavoro tenta di cogliere gli aspetti evolutivi della regolamentazione della
solvibilità, partendo dalle prime impostazioni e descrivendo gli elementi di novità
che in qualche modo sono rilevanti nel definire l’assetto di quello che sarà Solvency
II.
Il lavoro va letto come un resoconto dei tanti passi fatti finora per giungere,
nell’ottobre del 2012, data di entrata in vigore della normativa, all’attuazione della
legge quadro.
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CAPITOLO PRIMO
Evoluzione storica: dai lavori di Campagne a Solvency I
Ogni impresa, qualunque sia il settore di attività in cui essa opera, è soggetta, a
causa dell’aleatorietà che in ogni momento ed in ogni luogo incombe sui risultati
degli affari, al rischio di insolvenza e provvede a tutelarsi debitamente da esso.
L’impresa assicuratrice, in particolare, “vende sicurezza” e quindi deve essere a sua
volta sicura il più possibile. Si capisce anzi come sia posta la massima cura, da parte
degli organi di vigilanza e controllo dell’attività assicurativa, nello stabilire norme
gestionali e nel richiedere attestazioni atte a garantire la solvibilità nel tempo
dell’impresa assicuratrice. Provvedimenti, questi, presi a doverosa tutela degli
assicurati.
Nel Regno Unito già l’Assurance Act del 1909 richiedeva un deposito cauzionale di
20.000 sterline per ogni ramo esercitato. Nel 1946 l’Assurance Companies Act
sostituiva a tale deposito un “margine”
1
pari a un decimo dei premi annui incassati
con un minimo di 50.000 sterline. (Per effetto dell’inflazione la misura del margine
fu aumentata nel 1974).
A livello europeo le prime direttive vita e non vita furono pubblicate
rispettivamente il 24 luglio 1973 ed il 5 marzo 1979. Furono il primo passo verso la
costituzione di un mercato unico e libero in campo assicurativo. In esse sono
delineati i requisiti che le compagnie nell`Unione Europea devono avere per
realizzare la solvibilità.
Gli studi europei effettuati nel 1951 (dal belga prof. Campagne) e nel 1960 (da una
Commissione O.C.S.E. presieduta dall’italiano prof. de Mori) si basano sul criterio
della probabilità di rovina in un esercizio, ricercando quale debba essere l’entità di
un fondo idoneo a garantire che il guadagno aleatorio di un esercizio, derivante
1
Il margine è un importo costituito principalmente dal capitale netto composto dagli asset liberi da impegni
già assunti. Il capitale netto, infatti, viene opportunamente rettificato togliendo le azioni proprie, il capitale
netto non versato e altre voci che non sono libere da impegni.
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dall’introito della massa di premi, dagli esborsi per sinistri e per spese sia superiore
al livello di probabilità di rovina dell’impresa.
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Nei prossimi paragrafi accenneremo a questi tipi di studio che, anche se un po’
obsoleti, permettono di comprendere con maggiore dettaglio i confronti tra
Solvency I e Solvency II. Anche Daykin (1984) descrive i primi lavori che si sono
fatti in questo campo. La differenza di sei anni tra la prima direttiva vita e quella
non vita è dovuta al dibattito sulla liceità di una compagnia ad esercitare in uno o in
entrambi i rami.
1.1 Gli studi di Campagne
Risale al 1948 il primo importante report sull’assicurazione vita pubblicato da
Campagne [Cam48], tale lavoro si basava su dati raccolti da 10 compagnie tedesche
tra il 1926 ed il 1945
3
.
Nel 1957 , invece, su richiesta dell’Insurance Committee dell’ OEEC (Organisation
for European Economic Cooperation), Campagne presentò un rapporto sulla
solvibilità nel non vita. In questo caso i dati usati nel report furono presi da 10
compagnie assicurative in Svizzera tra il 1945 ed il 1954
4
.
Campagne affermò, come aveva fatto Pentikäinen in precedenza, che nello stimare
la posizione di solvibilità di una compagnia si devono considerare i rischi in modo
teorico e fece alcune esemplificazioni sulle assunzioni della distribuzione di
probabilità che sta alla base della solvibilità. In linea di massima avvertì che il
modello doveva fornire unicamente un primo avvertimento di una potenziale
situazione di pericolo e non dare informazioni riguardo alla posizione della
compagnia circa la solvibilità.
Con tali premesse i suoi studi giunsero a questi risultati:
2
Lezioni di tecnica attuariale delle assicurazioni contro i danni, Daboni, 1993.
3
“ Contribution to the Method of Calculating the Stabilization Reserve in Life Assurance Business”; Kastelijn
e Remmeswaal, 1986.
4
“ Minimum Standards of Solvency for Insurance Firms”; Daykin, 1984.
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‐ nel primo studio vita e nel secondo non vita, Campagne propose una
probabilità di rovina per un periodo di tre anni circa di 1/1.000 e per un anno
circa di 3/10.000;
‐ le spese e le commissioni furono rispettivamente al 42 % dei premi ed i
sinistri pari al 58% dei premi;
‐ grazie alle precedenti considerazioni ed al modello usato, fu stimato che un
margine di solvibilità del 25% dei premi era sufficiente per coprire la
probabilità di rovina;
‐ riguardo la riassicurazione fu deciso, senza una concreta giustificazione, che
il 2,5 % dei premi ceduti doveva costituire un margine aggiuntivo per coprire
il rischio che la riassicurazione potesse fallire.
In seguito l’Isurance Commitee dell’OEEC deliberò un nuovo gruppo di lavoro
presieduto da Campagne. Il gruppo era formato da 14 membri provenienti da 10
paesi, tra cui i Professori de Mori e Grossman che compilarono un database con dati
provenienti da un questionario risalente agli anni 1953-1957 sottoposto ad 8 paesi
per il non vita e 5 paesi per il vita.
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1.1.1 Approccio non vita di Campagne
Il ragionamento alla base di questo approccio è il seguente: poniamo che il premio
netto (al netto delle spese) sia tenuto completamente dall’assicuratore, da questo
togliamo una parte costante uguale alla media dei rapporti expense ratio ( spese
generali e amministrazione/premi di competenza) di ogni paese. La rimanente parte
è quello che rimane per pagare i sinistri. A questo punto si calcola il Value at Risk
della distribuzione del loss ratio o VaRLR (sinistri di competenza/premi di
competenza) per ogni paese e si trasla la distribuzione di una quantità pari alla
differenza tra 100 e l’expense ratio in quanto, come si vedrà più avanti, si esamina il
combined ratio. La parte che eccede 100 dovrebbe costituire il margine di
solvibilità espresso in percentuale del premio netto.
Procediamo a formalizzare il discorso.
Sia X l’importo netto da pagare durante un anno per un determinato paese, P il
premio netto trattenuto durante lo stesso periodo, E le spese nette d’esercizio
durante lo stesso periodo. I rapporti ER = E/P e LR = X/P sono rispettivamente
l’expense ratio ed il loss ratio.
Definiamo, per ogni paese, la media degli expense ratio ER* = (Σ ER)/n.
L’osservazione statistica di mercato suggerisce che i loss ratio si distribuiscano
secondo una distribuzione Beta. Per ogni paese viene calcolato il VaRLR. Il
margine di solvibilità in percentuale del premio netto è definito come:
(VaRLR + ER* -100)
Si assume che l’insieme di definizione della distribuzione Beta sia l’intervallo (0,1);
in questo modo si impone implicitamente che i loss ratio non possano essere più
grandi del 100%. Campagne trovò, infatti, che il più grande loss ratio era il 97%.
Altri autori
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trovarono un loss ratio pari al 130 %, in tal caso la distribuzione Beta
aveva come variabile la trasformata (loss ratio/1,5).
Campagne assunse che:
P (ER* + LR > msm) = ε
5
De Wit et al.,1980
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