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carcere un bambino con candore e semplicità descrive il suo
sogno: “vedere, fuori dal carcere, il cielo, il mare, comprare un
gelato, trovare un regalo, andare alla giostrina a giocare con gli
altri bambini…”.
Alla base di ogni società c’è il rapporto fra gli individui. L’uomo
ha bisogno degli altri per sopravvivere, per non sentirsi solo, per
lavorare, per instaurare relazioni durature; nessuno può vivere
completamente isolato dagli altri.
Tra i primi e più significativi legami che l’individuo instaura nel
corso della sua vita è quello con i genitori. Analizzare tale
rapporto implica la considerazione di più variabili: ambientali,
psicologiche, sociali. Il rapporto madre-figlio, in particolare, è
stato studiato da discipline diverse, prima fra tutte la psicologia,
per scoprire se da esso potessero dipendere le caratteristiche
della personalità del bambino e le conseguenze sul suo futuro
approccio alla vita e agli altri (Shaffer, 1973). Per uno studio di
questo tipo è necessario, pertanto, considerare sia il bambino, con
i suoi bisogni, sia la madre, con la sua esperienza passata e il suo
stile relazionale, sia l’ambiente all’interno del quale si crea il
rapporto; ambienti diversi, infatti, possono offrire, o negare, tanto
alla madre quanto al bambino, stimoli differenti, con conseguenti
reazioni diversificate, tali da influenzare positivamente o
negativamente lo sviluppo di entrambi e lo stesso legame
madre-figlio. Se la relazione, infatti, si sviluppa all’interno di un
ambiente sereno che offre alla madre la possibilità di rispondere
alle esigenze del bambino e al bambino stesso di fare esperienze
positive, il suo sviluppo sarà sicuramente diverso rispetto alle
possibilità che potrebbero essere offerte da ambienti “chiusi”, che
obbligano al rispetto di rigide regole e non offrono al bambino gli
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stimoli necessari che lo spingano a fare nuove esperienze di
apprendimento.
Questo lavoro, studia la condizione dei bambini vissuti nei primi
anni di vita in carcere insieme alla madre, argomento che in
Italia, a differenza di altri paesi europei, ha fino ad ora suscitato
una attenzione molto scarsa nonostante la sua evidente rilevanza
sociale
1
(Biondi, 1994). Le cause di ciò sono certamente
molteplici, ma alcune sembrano di particolare rilievo.
In primo luogo, specialmente per il passato, la mancata
attenzione può essere spiegata con l’esistenza, reale o presunta,
di una rete familiare generalmente disponibile e capace di
supplire all’assenza del genitore carcerato. Per di più, la ridotta
incidenza statistica della delinquenza femminile e la sua diversa
tipologia ha contribuito alla rimozione del problema, che si
pensava potesse riguardare soltanto un esiguo numero di
bambini. In effetti, era scarso il numero delle madri detenute
2
(Libianchi, 2006) che sceglievano di tenere con sé il bambino
durante la carcerazione. Il numero dei minori conviventi con la
madre intorno agli anni 90’ era di 50 unità.
Un’altra ragione ha fatto rimanere nell’ombra l’argomento dei
bambini in carcere. Essa consegue al fatto che gli interventi
giudiziari in questa materia, in quanto interventi sulla potestà
genitoriale, appartengono solitamente alla competenza del
Tribunale per i minorenni e quindi ad una giustizia considerata a
lungo “minore”.
Solamente i mass-media sembrano volersene occupare di tanto in
tanto, ma in maniera falsata e falsante, senza alcun rispetto per la
1
BIONDI, G. (1994). Lo sviluppo del bambino in carcere. Milano, FrancoAngeli.
2
LIBIANCHI, S. (2006). Bambini in carcere. (in: http://www.ristretti.it/pianetacarcere.it;
consultato il 20/12/2007).
7
persona del minore, la cui storia, la cui identità e la cui immagine
sono spesso strumentalizzate senza ritegno.
Infine, tra le cause del ritardo, non può essere certo dimenticata,
la situazione generale del sistema penitenziario italiano,
caratterizzato da un numero assolutamente inadeguato di
personale tecnico. Gli assistenti sociali e gli educatori sono pochi
e talvolta non hanno ricevuto una preparazione specifica. A causa
del loro numero ridotto sono in grado di fare fronte solo ai
compiti istituzionali più urgenti e il contatto con i servizi locali
non sempre è assicurato.
L’obiettivo di questo lavoro è quello di togliere dall’oblio il
problema dei bambini in carcere, evidenziando che la detenzione
del minore insieme alla madre pone di per sé il minore in una
situazione oggettiva di rischio evolutivo. Un’indagine condotta
da Gianni Biondi (1994) nelle carceri italiane evidenzia come la
maggior parte dei bambini che vivono in cella con la madre
manifesti segni di chiusura e insofferenza nei confronti del
mondo esterno, disturbi del sonno, ritardi nell’articolazione del
linguaggio e poca curiosità di apprendimento rispetto a bambini
che non vivono in tali situazioni. Le difficoltà spesso osservate
in questi bambini sono la tendenza a preferire l’isolamento
rispetto alle stimolazioni dell’ambiente ed il lento ma costante
atteggiamento di chiusura, entrambi indice del disagio emotivo
ed affettivo che il bambino sta vivendo.
Sin dalla vita intrauterina, durante la gravidanza, il contesto
socio-ambientale carcerario comporta significativi problemi per
la madre e per il nascituro. In carcere il problema dell’assistenza
alle gestanti e ai bambini rappresenta comunque un problema di
particolare rilievo organizzativo. Normalmente ci si avvale
8
dell’intervento di professionisti esterni e si preferisce fare
partorire le detenute, in ospedale dato che le infermiere non sono
il più delle volte sufficientemente preparate all’assistenza
ostetrica. E’ recente il caso di una giovane donna nomade che ha
dato alla luce il suo bambino nel carcere di Rebibbia (giugno
2007):
“E’ inaccettabile, oltre che in palese violazione della
legge, che un fatto fondamentale per la vita di una
donna come la nascita di un figlio avvenga in carcere,
un luogo inadeguato sotto tutti i punti di vista per fare
fronte ad un evento del genere”.
E’ quanto scrivono le senatrici Finocchiaro e Serafini, in
un’interrogazione che hanno rivolto al Ministro della Giustizia
all’indomani di questo caso riportato dalle pagine di un
quotidiano nazionale e apparso tra i fatti nella cronaca di Roma.
“Secondo quanto riportato dalla stampa - scrivono le
due senatrici - una giovane donna nomade, che deve
scontare una pena di 6 mesi per furto, ha partorito
all’interno dell’infermeria del carcere di Rebibbia,
adibita frettolosamente a sala parto, visto che
l’ambulanza non ha fatto in tempo a sopraggiungere.
La donna è stata poi trasferita all’ospedale Sandro
Pertini, mentre il neonato è stato ricoverato al Bambin
Gesù perché nato con una malformazione. Eppure il 6
giugno 2007, giorno dell’arrivo della ragazza nel
carcere - sottolineano Anna Finocchiaro e Anna
Serafini - la Direzione di Rebibbia aveva inoltrato al
tribunale di Roma la richiesta per concederle gli
9
arresti ospedalieri, secondo quanto disposto dalla
legge Finocchiaro, la 40/2001, che prevede il rinvio
obbligatorio della pena nel caso di condannate incinte
e il suo possibile differimento nel caso che la
condannata sia mamma di un bambino fino a tre anni.
Alla richiesta, tuttavia, il carcere di Rebibbia non ha
mai avuto risposta”.
Il periodo pre e post-parto è caratterizzato da momenti di grande
ansia per la maggior parte delle donne, ma per quelle che vivono
in carcere i normali stress vengono ad essere moltiplicati,
amplificando il vissuto di inadeguatezza e di impotenza. Il
retroterra sociale di deprivazione, i contatti familiari
inconsistenti, l’isolamento, un’ instabile salute fisica e/o mentale
e la coscienza che il bambino potrà essere affidato a un ente
assistenziale, sono soltanto alcuni dei problemi che vivono queste
donne, testimoniando un bisogno di tutela maggiore rispetto alle
persone libere.
Le ricerche
3
indicano una maggiore probabilità di parto
prematuro e di una percentuale maggiore di mortalità tra le
detenute madri, specie se tossicodipendenti e portatrici di
patologie diffusive tipicamente penitenziarie, come la tbc.
Laddove però siano assicurati un adeguato apporto nutrizionale e
specifici programmi di disassuefazione dalle droghe, si osserva
un chiaro miglioramento degli esiti di gravidanze di donne ad
alto rischio (Libianchi 2005).
Preoccupante è anche la percentuale di rientri in carcere dei
bambini, che tocca il 18% dei casi e che dimostra come ben poco
3
LIBIANCHI, S. Aggiornamenti sociali. (in: http:// www.ristretti.it/pianetacarcere.it;
consultato il 22/12/2007).
10
venga fatto per evitare il ripetersi della negativa esperienza della
reclusione.
Un altro aspetto da rilevare è la necessità di una maggiore
interazione fra i servizi del territorio e i servizi penitenziari.
L’allontanamento del genitore che viene incarcerato o che resta
in carcere determina al minore una situazione di sofferenza e un
rischio che possono rendere necessario o quanto meno opportuno
l’intervento dei servizi locali. Attualmente, invece, sembra che
tale intervento sia per lo più casuale e non frutto di una strategia
mirata e di un’integrazione dei servizi.
In conclusione, per le esigenze dei figli dei detenuti occorre non
soltanto un risveglio di attenzione, ma anche un approccio
multiplo ed un affinamento tecnico da parte di tutti gli operatori
coinvolti.
L’attuale livello degli interventi non è soltanto sporadico, ma
anche insufficientemente qualificato. Occorre individuare con
maggiore precisione i diritti del bambino che ha i genitori in
carcere e sostenere le sue relazioni significative: nei confronti del
genitore detenuto, nei confronti dell’altro genitore e dei parenti,
nel rapporto con i servizi locali e con l’amministrazione
penitenziaria.
Riconoscendo l’importanza dei diritti di questi bambini, anche
nel rispetto della Convenzione Internazionale sui diritti
dell’infanzia (1989), è urgente sviluppare specifici progetti, su
tutto il territorio nazionale, coinvolgendo associazioni diverse e
istituzioni che possano lavorare per limitare le conseguenze
dell’esperienza del carcere sullo sviluppo dei bambini.
11
CAPITOLO PRIMO
La maternità in carcere: una scelta difficile.
1. La criminalità femminile in cifre
In Italia la criminalità femminile registra ancora oggi uno scarto
molto ampio rispetto a quella maschile. Una ricerca condotta da
Faccioli, avviata nel 1987, evidenziava come le donne
costituissero, a fine anno, solo il 5% della popolazione detenuta
4
.
A distanza di dieci anni le statistiche si possono considerare
pressoché invariate (vedi Fig. 1 e Tab. 1).
Fig.1 Percentuale di donne detenute sul totale della
popolazione carceraria
Fonte: www.giustizia.it Dati riferiti al 30/06/06
4
FACCIOLI, F. (1990). I soggetti deboli. I giovani e le donne nel sistema penale”. Milano,
FrancoAngeli.
12
Tab. 1 Numero di detenuti e istituti
TIPO DI ISTITUTO DONNE UOMINI TOTALE N. ISTITUTI
CASE DI RECLUSIONE 37
CONDANNATI
210 8466
IMPUTATI
49 744 793
TOTALE
259 9.000 9259
CASE CIRCONDARIALI
162
CONDANNATI
1.481 28.141 29.622
IMPUTATI
1.098 19.822 20.980
TOTALE
2.579 48.023 50.602
ISTITUTO PER LE MISURE DI
SICUREZZA
8
CONDANNATI
80 1.276
IMPUTATI
5 42 47
TOTALE
85 1.318 1.403
Il profilo di donna che delinque cambia però nel tempo
5
(Marotta, 1997): in passato la maggior parte era costituita da
donne giovani, tra i 18 e i 34 anni, non sposate, con un basso
livello d’istruzione: il 21% non aveva neanche la licenza
elementare (Faccioli, 1990).
Confrontando tali dati con quelli attuali si può notare che l’età
media si è elevata, la maggior parte dei crimini ha come
responsabili donne fra i 25 e i 44 anni, anche se si riscontrano
percentuali considerevoli (10%) fino ai 59 anni (Fig. 2)
5
MAROTTA, G. (1987). La criminalità femminile in Italia. Roma, Presidenza del
Consiglio dei Ministri.
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Fig. 2 Percentuali di crimini commessi per classi di età
Fonte: www.giustizia.it Dati riferiti al 30/06/06
Per quanto riguarda il titolo di studio prevalente, la maggior parte
delle donne che ha commesso crimini è in possesso del diploma
di scuola media inferiore (35,5%), seguito dalla licenza
elementare (20,6%), anche se si riscontra la presenza residuale di
laureate, (1%) (Fig. 3).