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I. Lo stereotipo
I.1. Introduzione e cenni storici
L'introduzione del concetto di stereotipo nelle scienze sociali si deve a Walter
Lippman, giornalista americano che, nel corso deii suoi studi sulla formazione
dell'opinione pubblica (Lippman 1922), utilizzò il termine per definire quelle idee
immutabili e impermeabili che organizzano le categorie sociali (Arcuri Cadinu 1998:
15).
Lippman mutuava il termine “stereotipo”dal mondo tipografico, dove veniva
originariamente utilizzato per definire tanto il processo di stampa in cui i caratteri
metallici che formavano una parola e le parole di una riga venivano organizzati e fusi
insieme, formando appunto un unico stampo rigido che veniva utilizzato più e più volte
per la stampa di righe tutte uguali, quanto lo stampo stesso.
Si trattava di uno strumento che, una volta costruito, era molto comodo e di facile
utilizzo; nel caso in cui, però, durante la composizione della riga fossero stati fatti degli
errori, il fatto che fosse stato ormai fuso e preparato ne rendeva impossibile la modifica.
Onde evitare sprechi, si stampava dunque con l'errore, ripetendolo migliaia di volte.
Lippman ritenne che questa doppia accezione del termine “stereotipo” si prestasse
particolarmente bene a designare in chiave metaforica le opinioni precostituite, non
acquisite sulla base dell’esperienza diretta e scarsamente suscettibili di modifica: si
tratta infatti di strumenti cognitivi di facile utilizzo, il cui mutamento o aggiustamento
risulta però così complicato che non viene praticamente mai messo in atto.
Lippman ebbe intuizioni lungimiranti, che vennero successivamente riprese dalla
tradizione di studi di scuola cognitivista. Il periodo storico in cui egli operava era
tuttavia quello dei primi anni del Novecento, quando l’analisi delle identità culturali si
focalizzava ancora sulla dimensione e sulla natura delle differenze tra le quelle che
venivano definite le “razze” (Mazzara 1996: 60 ss.).
La cosiddetta “psicologia delle razze” partiva dal presupposto che le caratteristiche
psicologiche degli individui fossero codificate e trasmesse geneticamente; una simile
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posizione mascherava evidentemente la finalità politica di supportare il concetto di
Stato-nazione e i nazionalismi che ne derivarono.
La matrice innatista e evoluzionista che ha caratterizzato questo approccio nei primi
anni del ventesimo secolo ha dovuto confrontarsi con i forti cambiamenti socio-politici,
istituzionali e culturali avvenuti su scala globale, ma soprattutto negli Stati Uniti, che in
quel periodo erano il principale teatro di questi studi. Eventi quali la Grande
Depressione, il primo e il secondo conflitto mondiale e l'evoluzione della questione
razziale, in un arco di tempo di pochi decenni, contribuirono in maniera determinante a
modificare radicalmente l'approccio a queste discipline, spostandone il focus di ricerca.
Da un ottica di conflitto e di competizione tra gruppi sociali e razziali diversi, si
passò ad una impostazione ideologica orientata verso la necessità del dialogo e della
convivenza. La comunità scientifica stessa aveva vissuto e stava ancora vivendo un
processo di democratizzazione interna, accogliendo al suo interno contributi e punti di
vista che fino a quel momento non erano mai potuti emergere (Motu e Zamboni 2002:
8).
In campo psico-sociale, il focus delle ricerche si spostò sui processi mentali degli
individui, dando vita alla scuola cognitivista, che, partendo dalle intuizioni di Lippman,
sviluppò e approfondì gli studi sullo stereotipo e sul pregiudizio, dei quali ci
occuperemo più approfonditamente in seguito.
All'approccio cognitivista si affiancarono presto altre prospettive, che si
differenziavano da esso per il livello di analisi sul quale concentravano l’attenzione: se
infatti l'analisi dei processi mentali ricostruiva queste dinamiche a livello individuale,
altri contributi teorici si orientarono sulla dimensione sociale e sul modo in cui i
rapporti tra l'individuo e il gruppo contribuiscono alla formazione e al mantenimento di
stereotipi e pregiudizi (Mazzara 1997: 58 s.).
Quest’ultimo nuovo paradigma di ricerca parte dal presupposto che ciò che ci
circonda non è soltanto percepito e categorizzato individualmente, ma riceve un
significato anche mediante processi collettivi e sociali.
In questa scuola di pensiero rientrano contributi molto vari, che vanno dalla teoria
delle rappresentazioni sociali di Moscovici, al lavoro sulle “interfacce” di Bateson, fino
alle teorie costruttiviste e costruzioniste, che al loro interno hanno sviluppato a propria
volta innumerevoli correnti (Fruggeri 1998).
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Il contributo alla definizione del concetto di stereotipo su cui si basa questa ricerca
viene principalmente dalla scuola cognitivista; a questo approccio si affianca,
integrandolo, il contributo teorico proveniente dalla teoria delle rappresentazioni sociali
(Moscovici 1981; cit. in Mucchi Faina 2006: 22).
I.4. La definizione cognitivista
Lo stereotipo è definito come uno strumento mentale che si origina e viene utilizzato
durante il processo di categorizzazione, passaggio ineludibile del processo percettivo, e
di per sé non connotato patologicamente. Fa parte quindi del normale modus operandi
della mente umana, rappresentando
“una indispensabile strategia di categorizzazione che gli individui devono impiegare se
vogliono opportunamente semplificare un mondo di esperienze variegato, mobile, difficile da
catturare.” (Arcuri e Cadinu 1998: 37).
Il processo di percezione è il mezzo tramite il quale si viene in contatto con la realtà
esterna. Il mondo esperienziale è così complesso e articolato che gli stimoli potenziali
che ne partono sono pressoché infiniti; se la mente fosse esposta indiscriminatamente a
tutti essa impazzirebbe in breve tempo.
Il modo in cui questo bombardamento di informazioni viene gestito è attraverso il
processo di percezione, che funge da filtro. Questo filtro è diverso per ogni individuo, è
influenzato principalmente dalla cultura di appartenenza e può essere definito come “il
processo di conversione degli stimoli esterni in esperienza dotata di significato”
(Giaccardi 2005: 197).
Il processo percettivo è diviso in tre fasi: la selezione, la categorizzazione e
l'interpretazione:
- la selezione è la fase in cui vengono filtrati i dati che pervengono dall'esterno; è
il passaggio in cui la cultura maggiormente influenza tutto il processo, poiché
“fa passare” alcuni elementi e ne esclude altri dalle fasi successive;
- la categorizzazione è la fase in cui i dati vengono organizzati; essi prendono una
struttura e acquisiscono stabilità, venendo divisi e organizzati in categorie che
semplificano e rendono accessibile la complessità del mondo esterno;
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- L'interpretazione rappresenta la fase finale del processo, in cui viene assegnato
un significato allo stimolo categorizzato.
Tra gli studiosi del processo percettivo, Gordon Allport (1954) ha sottolineato come
gli stereotipi abbiano origine nel processo di categorizzazione, “introducendo semplicità
e ordine là dove in realtà sono presenti una complessità e una variazione pressoché
casuale [...] aiutandoci [...] tramutando differenze sfumante in differenze ben chiare, o
creando nuove differenza là dove non ce ne sono affatto.” (Tajfel 1981 [trad. it. 1985:
212]).
Gli stereotipi sono dunque rappresentazioni cognitive che la mente umana utilizza
per suddividere ed organizzare i dati percepiti.
Tajfel, studioso della scuola cognitivista, spiega più tecnicamente come la mente
umana applichi categorie discontinue (p. es. i gruppi razziali) a dimensioni continue
(come la variazione dei tratti morfologici somatici). Così facendo, la mente tratta in
maniera analoga sia dimensioni come il peso e l'altezza, sia tratti e caratteristiche
personali come l'intelligenza, la simpatia, l'onestà, o la pigrizia. Non esiste una scala
numerata dell'intelligenza o dell'onestà, eppure la prova della presenza di queste
categorizzazioni è la produzione di enunciati come “più simpatico” o “meno onesto”,
altrimenti impossibili.
Proprio questo metodo di categorizzazione, tipico dell'uomo, influisce sul risultato
finale, la percezione. In uno dei primi studi sugli effetti della categorizzazione (Tajfel e
Wilkes, 1963), si è chiesto ai partecipanti di determinare la lunghezza di otto linee che
venivano loro mostrate, una alla volta, su fogli separati. La lunghezza delle otto linee
variava da 16,2 a 22,9 cm. A una parte dei partecipanti (gruppo di controllo) le linee
sono state presentate varie volte, in ordine casuale. Agli altri partecipanti, invece, le
quattro linee più corte sono state presentate su fogli sui quali era scritta una grossa A, e
le quattro linee più lunghe su fogli sui quali era scritta una grossa B. Le lettere A e B,
quindi, fornivano una classificazione (categorizzazione) delle linee in due gruppi: le più
corte e le più lunghe. Si è constatato che nel gruppo sperimentale le persone tendevano
a sovrastimare la differenza tra la linea meno corta del gruppo A e quella adiacente, la
meno lunga del gruppo B (differenziazione intercategoriale), e a sottostimare la
differenza tra linee adiacenti all'interno del gruppo A o del gruppo B (assimilazione
intracategoriale). I risultati di questo studio mostrano che gli elementi interni a una
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categoria sono percepiti come simili tra loro, mentre gli elementi appartenenti a
categorie differenti sono percepiti come dissimili (Mucchi Faina 2006: 19 s.).
Gli stereotipi sono dunque uno strumento di economizzazione delle risorse cognitive
(Arcuri Cadinu 1998: 72), e fanno parte del normale funzionamento della mente umana,
finché non sconfinanoverso la formazione di dicotomie esasperate, esercitando forzature
gratuite sui fatti (Tajfel 1981: 212).
I.3. La categorizzazione sociale
Quando il processo sopra descritto si applica non più semplicemente a linee su un
pezzo di carta o ad oggetti, ma a persone, avviene ciò che viene definito come
“categorizzazione sociale”.
In questo caso, non si tratta più di un semplice processo cognitivo, poiché le
categorie sociali raramente sono neutre, e più spesso sono cariche di credenze e valori.
Anche queste categorizzazioni si basano su stereotipi, che vengono conservati nella
memoria a lungo termine come associazioni tra la denominazione del gruppo (“gli
Italiani”) e delle caratteristiche attribuite a quel gruppo (“bravi cuochi” o “mafiosi”);
inoltre, alcune ricerche dimostrano come esperienze con specifici individui appartenenti
alla categoria, detti “esemplari”, possano influenzare gli stereotipi (Stangor e Schaller
1996; cit. in Mucchi Faina 2006: 21 s.).
Gli stereotipi culturali creano aspettative nei confronti del gruppo a cui sono
attribuiti, potenzialmente falsando le basi di un eventuale incontro e comunicazione. Le
ricerche effettuate in questo abito da Crocker e Major (1989; cit. in Mucchi Faina 2006:
22) e da Steele e Aronson (1995; cit. in Mucchi Faina 2006: 22), hanno sottolineato
l'impatto di questi stereotipi, rispettivamente nella percezione di se stessi e nel
comportamento tenuto.
Un ulteriore importante ricerca transculturale ha indagato sui motivi e sulle modalità
di formazione degli stereotipi culturali, scoprendo che servono a determinare se gli altri
ci siano ostili o no e quale sia il loro livello di competenza, informazioni utilizzate poi
nella competizione intergruppo presente in tutte le società umane complesse (Cuddy et
al., 2004; cit. in Mucchi Faina 2006: 22 s.).