6
Introduzione
La responsabilità medica è, nell’ambito del diritto penale, uno dei settori più
affascinanti e complessi di riflessione e approfondimento: teatro di accesi
dibattiti dottrinali e giurisprudenziali, oggetto di numerose riforme e tutt’ora
figura in perenne ricerca di un volto definito.
La questione ruota principalmente attorno al concetto di colpa medica, la
cui definizione – snodo centrale della vivissima discussione tra operatori del
diritto - è fondamentale per circoscrivere il perimetro entro il quale il
sanitario si trovi a dover rispondere della morte o delle lesioni causate
colposamente ai propri pazienti nell’esercizio della professione.
Prima del 2012, infatti, anno in cui viene rotto il silenzio serbato per decenni
dal legislatore sul punto, l’operatore sanitario rispondeva del proprio
operato come qualsiasi altro soggetto dell’ordinamento, seguendo le
prescrizioni del Codice Rocco in tema di colpa. Dunque, qualora l’evento
penalmente rilevante, non voluto dall'agente, si fosse verificato a causa di
negligenza o imprudenza o imperizia, ovvero per inosservanza di leggi,
regolamenti, ordini o discipline, il medico ne sarebbe stato responsabile.
Tale sistema, evidentemente, non distingueva i gradi di colpa, di
conseguenza la levità della stessa non era sufficiente ad esimere il sanitario
dalla responsabilità penale. Sicché, nonostante la grande complessità
dell’attività medica, non veniva operata alcuna distinzione tra condotte
lievemente colpose e condotte gravemente colpose in ordine all’integrazione
del reato, vanificando ogni tentativo di gradazione e ragionevolezza del
rimprovero penale in relazione a fatti molto diversi tra di loro.
A questa situazione si aggiungeva, come accennato, l’assenza di leggi
speciali o di articoli inseriti nello stesso Codice penale destinati
esclusivamente alla professione sanitaria.
7
Visto dunque il rischio di cause penali cui si trovavano quotidianamente
esposti gli operatori, si sviluppò un atteggiamento estremamente
precauzionale degli stessi, che prese il nome di “medicina difensiva”: in
sostanza, più che alla cura del paziente, le prestazioni sanitarie venivano
erogate o non erogate al fine di evitare denunce.
I medici, quindi, erano soliti prescrivere visite o esami superflui o addirittura
si rifiutavano tout court di curare soggetti ad alto rischio o la cui cura
implicasse prestazioni particolarmente difficili, con delle conseguenze
negative sia per quanto concerneva la gestione efficiente delle risorse
sanitarie, sia per ciò che riguardava la salute dei pazienti.
L’assenza di una normativa specifica che disciplinasse l’operato degli
operatori sanitari e la conseguente applicazione dell’art. 43 c.p. in tema di
colpa alla classe medica risultarono da subito insoddisfacenti nel giudizio
dell’operato del professionista. Un tale impianto ordinamentale, dando
rilevanza anche a condotte connotate da colpa lieve, infatti, avrebbe
disincentivato i sanitari ad intervenire nei casi più complessi e in generale
scoraggiato la loro iniziativa professionale, con conseguenze anche
drammatiche per la salute dei pazienti. Considerata l’utilità sociale della
medicina e la circostanza per cui la stessa implica sempre un margine di
“rischio consentito”, ciò portò la giurisprudenza, già nella seconda metà del
secolo scorso, a ritenere applicabile in ambito penale l’art. 2236 c.c., per
cui la responsabilità del prestatore d’opera – e quindi in questo caso
dell’operatore sanitario - veniva limitata alle sole ipotesi di dolo o - per
quanto qui interessa - di colpa grave, quando la prestazione implicasse la
soluzione di problemi tecnici di rilevante gravità.
Tale graduazione della colpa penale, fatta per il tramite dell’articolo in
parola, implicava che il medico, in situazioni di particolare complessità
risolutiva, ovvero tendenzialmente quando lo si poteva accusare di
8
imperizia, andava esente da responsabilità penale qualora versasse in colpa
lieve. In questo modo, almeno secondo il pensiero dei giudici dell’epoca, i
sanitari non avrebbero temuto un’intrusione eccessiva della macchina
statale nel loro operato, in quanto – almeno in quei casi particolarmente
complessi in cui la colpa del professionista non fosse stata grave – la
perseguibilità penale dei loro agiti veniva meno.
Nonostante in un primo momento tale indirizzo giurisprudenziale permise
un marcato favor pretorio nei confronti dei medici e una dialettica –
relativamente - serena tra giudici e professionisti sanitari, negli anni
Settanta venne sollevata questione di legittimità costituzionale degli artt.
589 e 43 c.p., per contrasto con il principio di uguaglianza, nella parte in
cui, tramite l’applicazione dell’art 2236 c.c., permettevano che il criterio
della graduazione della colpa penale in lieve e grave fosse assunto quale
discrimen per la punibilità.
Il caso, infatti, riguardava un medico e un odontotecnico che, entrambi
responsabili in egual misura – secondo l’accusa – della morte di una
paziente, avrebbero subìto diverse conseguenze giuridiche in ragione della
professione esercitata: il medico, vista la difficoltà tecnica del problema
affrontato, non avrebbe risposto per colpa lieve, diversamente
dall’odontotecnico, nonostante – è bene ribadirlo – le condotte poste in
essere fossero state entrambe ugualmente concausa del decesso della
paziente. Secondo il giudice a quo, ciò non poteva che violare il principio di
uguaglianza, in quanto a due situazioni simili venivano applicati due
trattamenti diversi sulla base del titolo professionale degli imputati.
La Corte costituzionale, tuttavia, con la sentenza n. 166 del 1973, giustificò
la più marcata protezione accordata al professionista intellettuale rispetto
ad altri agenti e relativa a casi di particolare difficoltà tecnica, rigettando
per infondatezza la questione, con gli argomenti che si approfondiranno
9
oltre. Di conseguenza, la situazione rimaneva immutata, se non addirittura
avallata dalla Corte costituzionale, ultima depositaria della bontà
costituzionale delle leggi e degli atti aventi forza di legge.
La giurisprudenza successiva, però, come si avrà modo di vedere nei capitoli
a venire, non si adeguò in maniera uniforme alla pronuncia, aggravando lo
stato di incertezza in relazione ai limiti della responsabilità medica e
inflazionando pratiche cautelative da parte dei sanitari.
Come anticipato, solo recentemente il legislatore è intervenuto sul tema.
Il primo intervento si è avuto con il decreto-legge n. 158 del 2012, detto
“Riforma Balduzzi”, con cui si prevede l’esclusione della punibilità del medico
in caso di colpa lieve, se il professionista si è attenuto alle linee guida e
buone pratiche accreditate dalla comunità scientifica.
Dopo soltanto cinque anni, è entrata in vigore la legge n. 24 del 2017, detta
“Legge Gelli-Bianco”, che cercando di risolvere i problemi applicativi
sollevati dalla precedente riforma, esclude la punibilità in caso di imperizia
se il professionista si è attenuto a linee guida definite e pubblicate ai sensi
di legge a patto che siano accreditate e adeguate al caso concreto e, in
mancanza di queste, alle buone pratiche clinico-assistenziali.
Gli ultimi due interventi, ovvero il decreto-legge n. 44 del 2021 e la legge
n. 76 del 2021, sono scaturiti dall’inadeguatezza che il sistema vigente ha
dimostrato di fronte all’emergenza pandemica da Covid-19, invocando l’uno
la limitazione della responsabilità penale dei vaccinatori ai casi di colpa
grave, l’altra la punibilità degli eventi ex artt. 589 e 590 c.p. che trovano
causa nell’emergenza sanitaria – anche qui - solo per colpa grave.
Ciò che accomuna tutte queste riforme è il tentativo di definire i margini
entro i quali si può muovere un rimprovero di tipo penale alla condotta
colposa di un operatore sanitario, laddove a questa siano causalmente
seguite la morte o le lesioni del proprio paziente.
10
La strada intrapresa dal legislatore è quella di interrogarsi su quale sia il
grado di colpa che giustifichi l’intervento della mano punitiva dello stato, in
un’ottica di irrilevanza penale della colpa lieve nel settore sanitario.
Come si avrà modo di approfondire, questa non è l’unica strategia
disponibile per riformare a livello normativo la responsabilità medica,
essendo diverse le prospettive de iure condendo offerte da dottrina e
giurisprudenza.
Tuttavia, lo snodo centrale di tutti gli interventi del legislatore, così come la
questione principale da sempre oggetto di dibattiti tra studiosi del diritto e
giudici, è stato ed è tuttora il concetto di colpa medica. A seconda della sua
declinazione, della sua estensione, della sua rilevanza penale e della
tipizzazione delle regole cautelari, infatti, si è concretato il tentativo di
definire i limiti della responsabilità penale degli operatori sanitari.
Di conseguenza, sarà questo il focus del presente lavoro: seguendo un
ordine cronologico, capitolo per capitolo, si andranno ad analizzare gli
orientamenti pretori e gli interventi legislativi che hanno modificato nel
tempo l’impianto giuridico-ordinamentale in cui il sanitario si è trovato ad
operare, cercando di costruire un sistema in cui l’esercente la professione
medica torni ad occuparsi primariamente della cura dei propri pazienti,
lasciandosi alle spalle la preoccupazione latente che ogni suo agito possa
costargli un rimprovero di tipo penale.
11
Capitolo I
1. La responsabilità medica: inquadramento della fattispecie
In campo penale, si parla di responsabilità medica ogni qualvolta la condotta
– principalmente, ma non esclusivamente, colposa - di un operatore
sanitario, posta in essere nell’esercizio delle sue funzioni professionali, abbia
cagionato al paziente con cui intrattiene il rapporto terapeutico un danno,
solitamente una lesione personale o il decesso.
Al fine di analizzare più da vicino la fattispecie criminosa in oggetto, è
opportuno dedicare qualche riflessione alla disamina degli elementi
oggettivi e soggettivi della stessa, posto comunque che per “responsabilità
medica” si intende non un solo reato, ma una classe di reati accomunati dal
fatto di avere origine nella condotta penalmente rilevante di un operatore
sanitario e dall’essere reati di evento a forma libera, appunto quelli di lesioni
personali e di omicidio.
1.1. Gli elementi oggettivi
Dal punto di vista oggettivo, gli elementi da considerare per descrivere il
fatto criminoso nei reati di cui trattasi sono la condotta, l’evento stesso (o
gli eventi) e il nesso causale che li lega
1
.
La condotta posta in essere dall’agente, dunque nel caso di specie dal
sanitario, può essere sia commissiva che omissiva.
1
G. Marinucci - E. Dolcini - G.L. Gatta, Manuale di Diritto Penale. Parte Generale, X ed., Milano, Giuffrè, 2021,
230 e ss.
12
La condotta ha carattere commissivo quando consiste in un’azione,
un’attività esteriore compiuta dall’agente
2
. Poiché sia le lesioni che
l’omicidio sono reati a forma libera, in quanto il legislatore considera
rilevante ogni comportamento che abbia causato l’evento, qualsiasi azione
posta in essere dall’esercente la professione sanitaria che abbia creato il
pericolo concretizzatosi nell’evento – morte o lesioni del paziente - sarà
tipica e quindi punibile
3
.
Al contempo, la condotta può consistere anche in un’omissione, ovvero nel
mancato compimento di un’azione che si ha l’obbligo giuridico di compiere
4
.
I reati omissivi, nel nostro ordinamento, possono essere sia propri – quindi
di mera omissione – che impropri – quindi commissivi tramite omissione.
Sono questi ultimi a rilevare nel caso della responsabilità medica.
Infatti, in tali reati viene punito il mancato compimento di un’azione
giuridicamente doverosa imposta per impedire il verificarsi di un evento
5
.
A livello codicistico, non sono inquadrati da disposizioni ad hoc, ma dal
combinato disposto dell’art 40 cpv c.p. e di altre disposizioni di parte
speciale, nello specifico norme incriminatrici di un reato commissivo
d’evento, come quelle che puniscono l’omicidio e le lesioni. Posto che
l’articolo di parte generale prescrive che “non impedire un evento che si ha
l’obbligo giuridico di impedire equivale a cagionarlo” e che l’operatore
sanitario ha un obbligo di protezione nei confronti del proprio paziente,
nascente nel momento stesso in cui si instaura un rapporto terapeutico tra
i due
6
, ne consegue che il medico che non pone in essere le prestazioni
2
Ivi, 243
3
Ivi, 244. Naturalmente “sarà punibile” qualora sussistano tutti gli altri elementi necessari all’integrazione del
reato e non ricorrano cause di esclusione della punibilità in senso lato e in senso stretto.
4
Ivi, 277
5
Ivi, 279
6
Ivi, 283; Inter alia, Cass. Pen., Sez. IV, 12 gennaio 2018, n. 15178, Tessitore, in Ced Cassazione, rv. 273012-01;
Cass. Pen., Sez. IV, 7 gennaio 2016, n. 1846, Pala, in Ced Cassazione, rv. 265581; Cass. Sez. IV, 2 dicembre
2011, n. 13547, Ferrari, in Ced Cassazione, rv. 253293
13
necessarie a curare il proprio paziente risponde delle lesioni o della morte
di questo, se cagionate dalle sue omissioni.
La posizione di garanzia che riveste il medico nei confronti del proprio
paziente, laddove non abbia origine dalla legge
7
o dal contratto terapeutico
8
,
ha fonte in regole tendenzialmente deontologiche e di costume che sono
state ricollegate alla figura del c.d. “contatto sociale”
9
, di guisa che –
sebbene al di fuori di un accordo negoziale strettamente inteso, ma
considerato che il medico sia più del quisque de populo rilevante per la
responsabilità extracontrattuale – l’obbligo del professionista sanitario sia
comunque di natura giuridica
10
. Dunque, in base a tale concezione, non
basta la violazione dell’obbligo giuridico di impedire l’evento a ritenere
penalmente responsabile il sanitario, ma è necessario altresì riscontrare che
questi fosse effettivamente in una posizione di garanzia nei confronti del
paziente, la quale deve essere accertata – secondo la più attenta dottrina
11
- anche evidenziando la sussistenza di effettivi poteri impeditivi dell’evento,
concretamente presenti nel singolo caso, al fine di evitare che la mancata
tipizzazione delle posizioni di garanzia principali possa entrare in conflitto
con il principio di precisione in materia penale
12
.
Per quel che concerne gli eventi, questi, dal punto di vista giuridico, sono
degli accadimenti temporalmente e spazialmente separati dalla condotta ma
7
La titolarità formale dell’obbligo di protezione deriva solitamente dall’art. 1 della l. 502/1992, che attribuisce al
Servizio Sanitario Nazionale e ai suoi medici la tutela della salute dei pazienti.
8
Nel caso di medici al di fuori del SSN.
9
Tuttavia, la riforma Gelli-Bianco, all’art 7, riconduce la responsabilità civile della struttura sanitaria al dettato
dell’art. 1218 c.c. e quella del singolo professionista all’art. 2043 c.c., salvo che sussista un obbligo negoziale
con il paziente, senza lasciare spazio a figure intermedie come quella del “contatto sociale”. Tale modifica incide
solo a livello di inquadramento del tipo di responsabilità civile rilevante e sulla ripartizione dell’onere probatorio
tra le parti in causa, senza compromettere la posizione di garanzia che il sanitario ha nei confronti dei propri
pazienti e che giustifica l’applicazione della clausola di equivalenza di cui all’art 40 cpv c.p. alle altre
disposizioni di parte speciale per la configurazione di un reato omissivo improprio.
10
A. Manna, Medicina difensiva e diritto penale. Tra legalità e tutela della salute, Pisa, Pisa University Press,
2014, 48 e ss.
11
Ivi, 49 e note ivi riportate
12
Ibidem
14
da questa cagionati
13
- nei reati commissivi - o non evitati - nei reati omissivi
- e nel caso di medical malpractice sono le lesioni lamentate dal paziente o
il decesso dello stesso.
1.2. (segue) Il nesso causale
La condotta e gli eventi devono tuttavia essere avvinti da un nesso di
causalità per rendere il fatto di reato tipico e dunque punibile.
Posto che il tenore letterale dell’art. 41 c.p. lascia intendere che il legislatore
abbia aderito alla teoria condizionalistica della causalità
14
, si può concludere
che è causa dell’evento ogni azione – dunque condotta commissiva - che
non possa essere mentalmente eliminata, sulla base di leggi scientifiche,
senza che l’evento concreto venga meno
15
. Di conseguenza, se eliminata la
condotta commissiva e colposa del medico l’evento morte o lesioni del
paziente non si sarebbe verificato, si può affermare che il comportamento
tenuto dall’operatore sanitario sia stato causa o concausa del danno patito
dal paziente.
Per la condotta omissiva, il nesso eziologico che lega omissione ed evento
non è la causazione ma il mancato impedimento di quest’ultimo. Dunque,
bisogna svolgere un’indagine diversa: in primis, va accertato che il medico
fosse titolare di un obbligo giuridico di impedire l’evento, ex art 40 cpv c.p.;
in seconda battuta, si dovrà ricostruire il concreto processo causale che ha
cagionato l’accadimento – indagando quindi la causalità reale; in terzo
luogo, dovrà essere individuata con precisione quale fosse la condotta
doverosa che il sanitario avrebbe dovuto tenere e infine andrà valutata
13
G. Marinucci - E. Dolcini - G.L. Gatta, op. cit., 248
14
Ivi, 261 e ss.
15
Ivi, 250 e ss. Per leggi scientifiche sono da intendersi “enunciati che esprimono successioni regolari di
accadimenti, frutto dell’osservazione sistematica della realtà fisica o psichica”. Seguendo tale impostazione,
necessario corollario è che, qualora una legge scientifica non venga individuata, il giudice dovrà escludere la
sussistenza di un rapporto di causalità, operando altrimenti un accertamento sulla base della sua mera intuizione.
15
l’efficacia impeditiva dell’azione omessa – causalità ipotetica – chiedendosi
se, aggiunta mentalmente l’azione doverosa, ne sarebbe seguita una
modifica o un’interruzione del processo causale che è sfociato nell’evento
16
.
È immediatamente evidente una differenza strutturale tra l’accertamento
della causalità nei reati commissivi e in quelli omissivi.
Nei primi, il rapporto di causalità tra condotta ed evento è di carattere
materiale, mentre resta ipotetico solo il suo accertamento, in quanto si
avvale di un giudizio controfattuale legato al procedimento di eliminazione
mentale.
Nei reati omissivi, invece, sono ipotetici tanto il rapporto tra condotta
omissiva ed evento quanto il suo accertamento, che si avvale di
un’operazione di addizione mentale del comportamento alternativo lecito ed
esigibile dal professionista
17
.
Tale differenza strutturale è stata dirimente per stabilire quale sia lo
standard probatorio richiesto in tema di causalità.
Nel caso della causalità attiva, certamente si potrà utilizzare la regola
BARD
18
di origine nord-americana come codificata nell’art. 533 c.p.p.,
dunque accertare che la condotta attiva abbia cagionato l’evento al di là di
ogni ragionevole dubbio, se non addirittura con certezza assoluta.
Nel caso della causalità omissiva, invece, si ritiene che essendo questa
stessa ipotetica, non si possa raggiungere il medesimo standard probatorio,
ma quella della probabilità vicina alla certezza
19
.
Il dibattito sullo standard probatorio da adottare per l’accertamento della
causalità omissiva diede vita a due filoni interpretativi, proprio in campo
medico: uno, maggiormente garantista, aderiva alle posizioni dottrinali già
16
F. Viganò, Problemi vecchi e nuovi in tema di responsabilità penale per medical malpractice, in Corriere del
merito, 2006, 964
17
A. Manna, op. cit., 50
18
Acronimo di beyond any reasonable doubt – oltre ogni ragionevole dubbio.
19
A. Manna, op. cit., 50
16
citate e richiedeva una probabilità vicina alla certezza; l’altro,
maggiormente attento al rilievo dei beni giuridici tutelati dalle disposizioni
rilevanti in tema di responsabilità medica, riteneva provata la causalità tra
condotta omissiva ed evento se il comportamento alternativo lecito avesse
aumentato del 20-30% le possibilità di salvare il paziente
20
.
Posero fine al contrasto in parola le Sezioni Unite della Cassazione, con la
sentenza Franzese del 2002
21
, nella quale affermarono che anche un grado
medio-basso di probabilità statistica può essere sufficiente per asserire la
sussistenza del nesso causale, a patto che possano escludersi decorsi
causali alternativi, ovvero laddove si riscontri un’alta probabilità logica che
la condotta omissiva del medico sia stata condizione necessaria dell’evento.
Questa pronuncia ha permesso al giudice di riappropriarsi del proprio ruolo
di peritus peritorum, in quanto fare riferimento alla sola probabilità
statistica per asserire la presenza del nesso causale tra condotta omissiva
ed evento spesso implicava che il magistrato si appiattisse sull’opinione dei
periti in merito all’eziologia dell’evento infausto.
Non solo, la stessa probabilità statistica risultava insoddisfacente se
applicata ai reati di danno, come quelli che rilevano per la responsabilità
medica, in quanto denota solamente un “aumento del rischio”, che meglio
si adatta alla valutazione dei reati di pericolo in senso stretto
22
.
La tesi esposta dalla Sentenza Franzese non è tuttavia condivisa da parte
della dottrina
23
: da un lato, l’inusuale rilievo dato alle spiegazioni causali
alternative sembra un tentativo di compensare l’assenza di una vera e
propria prova del nesso causale e che considera causa dell’evento una
condotta che ha solo aumentato il rischio della sua verificazione; dall’altro,
20
Ivi, 51
21
Cass. Pen., Sez. Un., 11 luglio 2002, n. 30328, Franzese, in Ced Cassazione, rv. 222138
22
A. Manna, op. cit., 51
23
G. Marinucci - E. Dolcini - G.L. Gatta, op.cit., 256 e ss.
17
risulta un’autentica probatio diabolica quella che l’accusa avrebbe l’onere di
sostenere al fine di dimostrare il mancato intervento di tutti i possibili fattori
alternativi, perché solo in tal caso potrebbe sostenersi la responsabilità del
sanitario.
Un’ulteriore critica mossa alla sentenza riguarda il ricorso alle c.d. massime
di esperienza, che sono ritenute comunque sufficienti, laddove non si riesca
a individuare una legge generale di copertura universale o statistica per
ricostruire il processo causale
24
.
Infine, alcuni autori hanno evidenziato che, curiosamente, benché la
sentenza Franzese trattasse proprio di un caso di causalità omissiva, lo
schema bifasico enunciato dalla Suprema Corte per l’accertamento del
nesso causale mal si adatta al modello di imputazione dell’evento ad una
comportamento omissivo del medico, risultando invece perfettamente
applicabile in caso di responsabilità commissiva
25
.
Il problema principale riguarda proprio l’inadeguatezza strutturale del
modello bifasico rispetto a questo tipo specifico di causalità. Infatti, una
volta individuata la condotta doverosa che il sanitario avrebbe dovuto
tenere e ritenuto che questa, se posta in essere, avrebbe verosimilmente
evitato il verificarsi dell'evento, risulta a questo punto irrilevante
domandarsi se l’evento sia ascrivibile all’intervento di altri fattori causali
alternativi: infatti, è già nota la causa della morte o delle lesioni del paziente
all’esito dell’indagine sulla c.d. causalità reale.
L’unica domanda da porsi, allora, è quella che concerne la presumibile
efficacia impeditiva della condotta doverosa omessa, alla quale non può che
rispondersi in termini percentualistici. Poiché oltre questo dato non è
possibile andare, richiamarsi alla certezza processuale o, nei termini della
stessa sentenza Franzese, ai concetti di “alta probabilità logica” o “credibilità
24
A. Manna, op. cit., 52
25
F. Viganò, Problemi vecchi e nuovi in tema di responsabilità penale per medical malpractice, op. cit., 964
18
razionale” dell’accertamento si risolve nell’utilizzo di “formule di stile,
chiamate a ‘coprire’ una decisione giudiziale non ulteriormente motivabile
sul piano razionale”
26
.
Al netto di ciò, l’insegnamento della Suprema Corte venne comunque
confermato anche in un’altra importante pronuncia a Sezioni Unite, relativa
al caso ThyssenKrupp
27
e seguito dalla giurisprudenza successiva
28
.
Di conseguenza, per quel che riguarda le condotte omissive del sanitario,
l’iter processuale applicabile per dimostrare la sua responsabilità penale per
danni cagionati ai pazienti sarà il seguente: accertata preliminarmente la
sua posizione di garanzia e secondariamente individuata la causa reale
dell’evento, sarà poi possibile indicare quale fosse la condotta doverosa
omessa dal medico. A questo punto, con un giudizio controfattuale,
bisognerà chiedersi se, aggiungendo mentalmente tale prestazione
sanitaria ed escludendo decorsi causali alternativi, vi sia l’alta probabilità
logica che il processo causale sfociato nella morte o nelle lesioni patite dal
paziente si sarebbe bloccato o comunque modificato. Qualora la risposta sia
affermativa, l’operatore sanitario sarà considerato autore del reato.
1.3. L’elemento soggettivo
Passando alla disamina dell’elemento soggettivo, come accennato
precedentemente, rileva quasi esclusivamente la colpa del sanitario.
Per completezza, è doveroso sottolineare che – benché non sia l’eventualità
più frequente – è possibile parlare di responsabilità medica anche per reati
di lesioni personali o omicidio dolosi e preterintenzionali.
26
Ivi, 969
27
Cass. Pen., Sez. Un., 24 aprile 2014, n. 38343, Espenhahn e altri, in Dejure
28
Ad esempio, da ultimo: Cass. Pen., Sez. IV, 15 dicembre 2021, n.9705, in Dejure; Cass. Pen., Sez. fer., 23 agosto
2019, n. 38200, Simoncini, in Dejure; Cass. Pen., Sez. IV, 9 aprile 2019, n. 24372, Molfese, in Dejure; Cass. Pen.,
Sez. IV, 19 luglio 2017, n. 50975, Memeo, in Dejure