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INTRODUZIONE
“Stato sociale” è un’espressione di grande successo nel linguaggio quotidiano,
e in apparenza di facile determinazione: si tratta dello stato in cui il potere
politico si interessa delle condizioni socio-economiche dei cittadini,
assicurandogli livelli adeguati di reddito, lavoro, salute ed istruzione.
Sotto i durissimi colpi inferti dalla crisi economica mondiale e dall’azione
demolitrice dei governi che si sono susseguiti nel corso degli anni, lo Stato
sociale è ormai agonizzante in Italia, in Europa e nel resto del Mondo.
I dati più recenti confermano il rallentamento del ciclo internazionale, in Italia la
situazione delle imprese, travolte dalla crisi di produttività e di accesso al
credito, si è aggravata nel corso del biennio 2009-2010, con la caduta degli
indicatori economici principali. Nel 2011 il tasso d’inflazione è quasi
raddoppiata rispetto all’anno precedente e l’aumento dei prezzi dei prodotti
acquistati è stato particolarmente elevato, con la conseguente riduzione del
potere d’acquisto da parte delle famiglie che hanno ridotto i loro consumi.
Nonostante la discesa del Pil, l’occupazione nel 2011, dopo un biennio di
discesa, ha fatto registrare un leggero aumento: alla crescita dell’occupazione
straniera si è accompagnata una diminuzione della componente italiana. In
particolare, è proseguita la diminuzione dell’occupazione giovanile e di
lavoratori a tempo pieno, mentre è aumentata la quota di lavoratori part-time.
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Tra i grandi paesi europei, solo la Germania ha ottenuto risultati migliori,
mentre il resto dei paesi è esposto a grandi turbolenze economiche e finanziarie;
tuttavia l’Italia si trova ad essere ancora di più esposta a questi rischi a causa di
problemi strutturali che sono alla base del quadro socio-economico italiano.
Negli ultimi decenni tutte le attenzioni e l’impegno dell’opinione pubblica e
della classe politica sono state rivolte alle grandi trasformazioni economiche e
sociali del Paese e alle vicende politiche che le hanno accompagnate. Tra le
innumerevoli trasformazioni, il sistema di protezione sociale è stato investito da
profondi cambiamenti che hanno richiesto anche mutamenti nella legislazione
vigente ed ingenti forme di finanziamento necessarie a far fronte alla crisi
economica che ha investito tutto il mondo all’inizio del XXI secolo.
All’interno di questo contesto si colloca il presente lavoro che tratta lo Stato
sociale in generale, fornendo un’analisi dettagliata delle condizioni socio-
economiche degli individui.
Nel corso di tale lavoro verranno analizzate le diverse metodologie in modo
dettagliato e verranno osservate le distribuzioni delle variabili socio-economiche
più importanti che influenzano lo Stato sociale. In particolare verranno
analizzati i lineamenti che caratterizzano lo Stato sociale, ossia: povertà e
reddito, e le metodologie adoperate per misurare tali fenomeni.
Il lavoro è suddiviso in quattro capitoli ognuno dei quali affronta diverse
tematiche relative allo Stato sociale e al quadro generale della situazione italiana
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e del resto del mondo; alle metodologie di analisi della povertà; alle metodologie
dell’analisi del reddito e al contesto socio-economico internazionale.
In particolare nel primo capitolo vengono analizzati i lineamenti
che caratterizzano lo Stato sociale e il contesto socio-economico
dell’Italia. Nel 2011 il Paese appare diviso ed in forte difficoltà per
quanto riguarda la politica ma soprattutto l’economia. Gli impegni
assunti nel corso degli anni sulla lotta alla povertà e all’esclusione
sociale sono stati puntualmente disattesi, con politiche che invece di
investire sulla società e sulle risorse creative, hanno reso inefficiente
l’erogazione di servizi essenziali. Tutto ciò ha avuto come
conseguenza il peggioramento della qualità della vita della maggior
parte della popolazione italiana. Nel mondo del lavoro, tutte le
conquiste fatte in questo decennio sono state messe in discussione,
mentre aumenta la disoccupazione: un milione e mezzo di italiani
scoraggiati non cerca più lavoro, due terzi dei quali nel Meridione.
Anche il governo Monti, ha approvato provvedimenti più mirati al
contenimento delle spese, non evidenziando l’importanza di investire
sul ripristino del suolo e del territorio, sulle energie rinnovabili,
sull’uso efficiente delle materie a disposizione e sulla tutela dei
lavoratori. I dati più recenti confermano il rallentamento del ciclo
internazionale ed in questo contesto l’Italia è uno dei Paesi che più
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ne ha risentito della crisi economica. Si fa poi riferimento alla
povertà e al reddito, due fenomeni connessi fortemente tra di loro. La
povertà rappresenta la forma più estrema di disuguaglianza dei
redditi, infatti si è soliti chiamare poveri quei soggetti primi di
entrate monetarie tanto da non permettersi un tenore di vita, definito
decente dalla maggioranza. Nella definizione appena enunciata la
povertà costituisce una condizione relativa, che varia da collettività a
collettività, ed all’interno della stessa collettività, di tempo in tempo.
Infatti il livello di vita ritenuto adeguato da una comunità può essere
ritenuto inaccettabile per un’altra comunità con risorse monetarie
maggiori. Si pensi, ad esempio, all’ampio divario in termini di costi e
di redditi esistenti tra le regioni centro-settentrionali e meridionali
d’Italia. Mentre per reddito si definiscono le entrate che un individuo
riesce a percepire attraverso il lavoro o le rendite patrimoniali, che
gli servono per il soddisfacimento dei propri bisogni e della propria
famiglia.
Nel secondo capitolo vengono analizzate le metodologie di analisi
della povertà. In letteratura non esiste una definizione
universalmente accettata del termine povertà, infatti nel corso degli
ultimi decenni sono stati fatti numerosi sforzi con lo scopo di
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risolvere la questione di realizzare indici sintetici per tale fenomeno.
Può sicuramente definirsi povero chi non dispone di mezzi necessari
a soddisfare i propri bisogni primari come: l’alimentazione,
l’alloggio, il vestiario, la salute e l’igiene. Per quanto riguarda il
nostro lavoro, la definizione di povertà utilizzata è quella che indica
come povera una famiglia di due persone con reddito inferiore o
uguale alla spesa ( o al reddito ) media/o pro-capite. Strettamente
legata al concetto di povertà è la linea di povertà o soglia che
rappresenta quel valore limite che suddivide le famiglie osservate in
povere, in quanto al di sotto di tale valore, e non povere. Nel caso in
cui una famiglia sia composta da più di due individui, entrano in
campo le cosiddette scale di equivalenza, al fine di omogeneizzare i
valori, rendendoli così comparabili tra di loro. La scala di
equivalenza è un insieme di coefficienti usati per deflazionare il
reddito ed è definita come il rapporto tra il costo sostenuto da una
famiglia con certe caratteristiche demografiche per raggiungere un
certo tenore di vita e il costo sostenuto da una “famiglia di
riferimento” per raggiungere lo stesso livello di benessere. Le scale
di equivalenza possono essere suddivise in cinque classi: scale
econometriche, scale soggettive, scale basate su bilanci standard,
scale implicite nelle misure di assistenza sociale e scale
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paragmatiche. Nel nostro lavoro viene adoperata una scala di tipo
econometrico, ossia la scala di Engel che è caratterizzata dal fatto
che la quota di spesa destinata ai generi alimentari decresce
all’aumentare del reddito della famiglia e aumenta al crescere del
numero dei componenti del nucleo familiare. In Italia, la
Commissione d’indagine sulla povertà e sull’emarginazione ha
adottato fin dalla sua costituzione, nel 1984, una scala di equivalenza
direttamente derivata da quella costruita da Engel, nota come scala
Carbonaro, dal nome dell’autore che l’ha stimata.
Poi si passa all’analisi delle metodologie per la misurazione della
povertà, partendo dall’approccio diretto, il cosiddetto budget
standard approach, che si serve di un paniere di beni e servizi
considerati essenziali per sottrarsi allo stato di povertà. Una volta
selezionato il paniere in questione, si può procedere alla definizione
di una “quantità obiettivo”:
x* = X
1
. . . X
i
nel quale ciascuna componente si riferisce al particolare consumo di
un articolo o di un insieme di articoli: cibo, abbigliamento e spese
per l’abitazioni, tutti contenuti nel paniere. Secondo tale metodo, sarà
necessario consumare un determinato livello minimo di ogni bene
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contenuto nel paniere per evitare lo stato di povertà. Il metodo
budget standard approach è molto semplificato e possiede oggettività
nel metodo di calcolo. I punti critici di tale teoria sono una stima
poco precisa della scelta dei beni e dei servizi che costituiscono il
paniere e il criterio di scelta. Ad esempio, può essere seguito un
criterio più “sociale” che scientifico nella scelta del tipo di beni e
servizi e nella determinazione della “minima quantità necessaria”.
Poi si passa al metodo food ratio che corrisponde alla quota di
reddito spesa per l’alimentazione ed ha l’attrattiva della semplicità
dal punto di vista concettuale. Esso si basa sulla constatazione di
Engel che il food ratio è una funzione decrescente del reddito, ovvero
la frazione di reddito che un individuo più ricco spende per i beni
alimentari è inferiore a quella di uno più povero:
F = g( y )
ed è definito povero colui che spende più della quota del suo reddito
disponibile in beni alimentari, alloggio e vestiario.
Nel nostro lavoro abbiamo analizzato, in maniera più dettagliata la
linea di povertà assoluta dell’Istat, che è stata elaborata per la prima
volta nel 1986 dalla Commissione di indagini sulla povertà ed
emarginazione. Nel 1995 la suddetta Commissione ha introdotto a
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fianco agli indicatori di povertà relativa, anche quelli sulla povertà
assoluta. È stato quindi necessario ridefinire i panieri di beni e servizi
essenziali in grado di assicurare alle famiglie uno standard di vita che
eviti forme di esclusione sociale. Il valore monetario di tale paniere
costituisce la soglia di povertà assoluta per l’anno in cui è stato
definito; viene aggiornato nel tempo per tenere conto delle variazioni
dei prezzi dei beni e dei servizi che lo compongono. Secondo l’Istat
la stima della povertà relativa si basa sull’uso di una linea di povertà
nota come International Standard of Poverty Line ( Ispl ) che
definisce povera una famiglia di due componenti con una spesa per
consumi inferiore o pari alla spesa media per consumi pro-capite. Il
primo strumento di misura della povertà è rappresentato dall’indice
di diffusione:
H = q/n
Questo indice rappresenta semplicemente una frequenza relativa dei
poveri q ( numero di individui o famiglie povere ) sul totale della
popolazione n. Esso è l’indice sintetico più semplice da utilizzare ma
presenta alcune debolezze in quanto non descrive adeguatamente il
fenomeno povertà in un paese perchè non dice se i poveri sono
mediamente molto o poco al di sotto della linea di povertà.
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La seconda misura è il divario della povertà, vale a dire l’ammontare
complessivo di reddito addizionale necessario ai poveri per
oltrepassare la linea di povertà relativa:
D = ( Z - Y
i
)/Z
dove Z è la soglia di povertà, Y
i
è il reddito dell’individuo povero.
Più alto è l’indicatore, maggiore è il divario di povertà, ossia che il
livello di vita dei più poveri è molto al di sotto della soglia di
povertà.
Nel terzo capitolo vengono analizzate le metodologie di analisi del
reddito, partendo dalla classificazione dei redditi: reddito come
prodotto, reddito come entrate e reddito come consumo. Analizzando
la distribuzione dei redditi familiari possiamo osservare le condizioni
socio-economiche di una popolazione ed il suo livello di vita;
dall’altro lato attraverso lo studio dei redditi individuali è possibile
analizzare la distribuzione dei rendimenti dell’attività produttiva dei
singoli e le relazioni con altre caratteristiche dell’individuo come:
età, sesso, professione, grado di istruzione, ecc.
Nel corso del lavoro, grazie ai dati Istat e a quelli della Banca
d’Italia, contenuti rispettivamente nel Rapporto annuale 2012 e nel
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Bollettino Economico dell’ottobre 2012, vengono analizzate le fonti
e i dati di reddito necessari a formulare una distribuzione dei redditi
complessivi in modo tale da riuscire a misurare il livello di
disuguaglianza esistente tra la popolazione. Trattandosi di
rilevazioni, le analisi effettuate presentano un limite, dovuto alla
differenza tra le stime e i risultati ottenuti osservando le famiglie,
vale a dire: l’errore campionario.
Una misura sintetica dell’attendibilità delle stime è fornita dall’errore
standard, che viene calcolato dall’Istat, la cui formula è:
d / n( n-1 )
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in cui, posto che x sia la media del reddito n delle famiglie del
campione, d è la somma delle n quantità ( x
i
– x ). La disuguaglianza
della distribuzione dei redditi fa riferimento a due aspetti
fondamentali fra di loro strettamente connessi: la dispersione della
distribuzione, dovuta al fatto che persone o nuclei familiari diversi
usufruiscono di redditi di diverso ammontare, e l’asimmetria, che
dipende dal numero elevato di individui o famiglie che percepiscono
redditi bassi rispetto al numero esiguo di coloro che hanno redditi
molto alti. Viene analizzato l’approccio stocastico che fa riferimento
alla legge universale del caso e ad avvenimenti di natura accidentale;
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tale legge presuppone che il reddito degli individui nel tempo sia
rappresentabile attraverso un processo di tipo stocastico e quindi
soggetto a shock casuali. Il punto centrale della teoria è costituito dal
fatto che una generazione, andrebbe inevitabilmente incontro
all’emergere di disuguaglianze per l’intervento di forze di natura
stocastica. All’interno del lavoro vengono fatti riferimenti alle teorie
di Champernowne, Galton, Pigou, Friedman, Hicks, Becker e Mincer
dell’Università di Chicago, poiché la varietà dei modelli descrittivi
disponibili è molto ampia. Poi si passa all’analisi empirica dei
modelli che parte dal campo di variabilità o di variazione:
W = r
n
- n
i
dove r
n
e n
i
indicano rispettivamente i valori di reddito massimo e
minimo della distribuzione osservata.
Lo scarto semplice medio della media aritmetica:
S = ∑
i
│ r
i
- µ │ n
i
/ n
dove r
n
indica, in questo caso, il reddito medio aritmetico della classe
i, n
i
la numerosità corrispondente e μ il reddito medio aritmetico
della distribuzione.