perseguimento di pax et tranquillitas, commodus et salus del mondo, e felicitas del
popolo
10
.
Questo modo di concepire i compiti dell’autorità legittima, che peraltro ben
rappresentava il pensiero cristiano, subì una prima, importante revisione solo nel
1776, con la Dichiarazione d’indipendenza americana ove, insieme alla vita ed alla
libertà, si annoverava anche il diritto alla ricerca della felicità, che poteva giustificare
la pretesa, da parte dei cittadini, ormai non più sudditi, di vedersi garantiti dallo stato
alcuni diritti sociali basilari, presto individuati nel sostentamento e nel lavoro.
Ma è solo sul finire del XIX secolo che al nuovo rilievo attribuito ai compiti sociali
dello stato venne a corrispondere l’affermazione dei concetti di “Stato del benessere”
e di “Stato sociale”, immediatamente ripresi in Gran Bretagna, dove i ‘nuovi liberali’,
tra i quali l’economista Jhon Hobson, facevano largo uso del termine di Welfare
policy, nel senso di “politica d’intervento statale tesa al miglioramento delle sorti
della classe operaia, al di là dell’assistenza ai poveri”
11
.
Si giunse quindi alla Repubblica di Weimar, dove il termine assunse il significato di
“continuazione logica della democrazia politica in quella economica”
12
.
Da Weimar in poi, il concetto acquistò un rilievo molto più ampio, come testimonia
un celebre discorso del presidente americano Roosevelt del 1934 in cui, per la prima
volta, fece capolino il concetto, sicuramente più esteso, di ‘sicurezza sociale’, di cui
si impadronì la dottrina tedesca post – bellica, e che divenne, nel 1942, l’idea centrale
del piano Beveridge, mentre nel 1948 lo stesso apparve con forza nell’articolo 22
della Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo, sottoscritta in sede Onu, in cui
venne riconosciuta ad ogni uomo.
Alla fine di questo rapido excursus, appare chiaro il passaggio da un modello di stato
di matrice liberale, fermo nel garantire tradizionali e formali diritti individuali, ad un
altro di stampo democratico, risoluto nel riconoscere nuovi e sempre più ampi diritti
sociali.
La discussione, semmai, riguarda l’ambito e le modalità dell’intervento.
Esemplare, in proposito, la posizione su cui si è attestato il sociologo tedesco
Kaufmann
13
, secondo il quale quattro devono essere i tipi d’intervento socio –
politici:
1. giuridico, teso a migliorare la posizione giuridica delle persone;
2. economico, volto al miglioramento dei rapporti di reddito;
3. ecologico, inteso a migliorare l’ambiente materiale e sociale;
4. pedagogico, intento a migliorare le capacità d’azione delle persone.
10
G. Ritter, Storia dello stato sociale, Bari 1996, pag. 9.
11
In G. Ritter, op. cit., pag. 11.
12
H. Keller, in G. Ritter, op. cit., pag. 17.
13
F. X. Kaufmann, in G. Ritter, op. cit., pag. 20.
É dunque evidente come lo Stato sociale venga ad imporsi come risposta al crescente
bisogno di dare una soluzione ai sempre più numerosi conflitti derivanti
dall’aumentata complessità dei rapporti sociali ed economici legati
all’industrializzazione ed urbanizzazione post – belliche; alla minore importanza
delle tradizionali forme di paternalismo e solidarismo; all’inasprirsi dei conflitti di
classe.
É in questo quadro, non certo chiaro, ed in continua, costante espansione che bisogna
orientarsi, nel tentativo di illustrare gli elementi di continuità e quelli di rottura tra le
varie fasi evolutive del Welfare state, rilevandone le cesure ed indicando, al
contempo, le possibili traiettorie di sviluppo.
PARAGRAFO PRIMO: L’ESPERIENZA TEDESCA
Da quanto finora detto, emerge nitidamente il ruolo chiave avuto dalla Germania nel
processo formativo dello Stato sociale.
Questo iter, che si concluse con l’inserimento dei diritti sociali fondamentali nella
Costituzione di Weimar, per aprirsi poi ad ulteriori sviluppi, era stato avviato nella
seconda metà del XIX secolo, durante il cancellierato di Otto von Bismarck. Questi
era salito al potere proprio quando la Germania era percorsa dai fremiti, sociali ed
economici, della rivoluzione industriale, ed inizialmente non seppe comprendere
appieno le linee dello sviluppo imposte da quel fenomeno, tant’è che affermò più
volte la convinzione che una più incisiva regolazione statale dei rapporti di lavoro
avrebbe costituito un’inopportuna ingerenza nell’operato degli imprenditori e nelle
vite dei lavoratori e delle loro famiglie, conducendo così il proprio Paese ad attestarsi
su una posizione di arretratezza e isolamento, sul piano internazionale, nel campo
della tutela dei lavoratori.
Diede però vita all’invenzione istituzionale più importante del secolo: l’assicurazione
sociale. Questa, basata sul triplice contributo fornito da datori di lavoro, lavoratori e
stato, riprendeva elementi delle prime forme di previdenza collettiva, ma se ne
distaccava, anzitutto, per il fatto di essere rivolta ad un più ampio numero di persone,
non circoscrivendo il proprio ambito alle sole corporazioni e, soprattutto, per non
essere più ispirata al principio paternalistico, ma alla concezione per cui si
riconosceva, finalmente, l’esistenza di cause sociali di necessità di cui il singolo non
era responsabile, e la cui risoluzione avrebbe dovuto provenire dalla società intera,
nel perseguimento delle libertà dei singoli e del benessere collettivo.
Deboli, alla luce di studi recenti, appaiono le motivazioni di chi tende ad affermare
che le ragioni della legislazione sociale bismarckiana siano da rinvenire soltanto nel
rapido mutamento economico e sociale dell’epoca, oppure nella mobilitazione
politica e sindacale delle masse.
In realtà, balza subito agli occhi il ruolo di integrazione e stabilizzazione di quella
politica
14
. Ed in ossequio al principio di legittimazione, il cui bisogno sembrava
essere più forte nella Germania di quegli anni, retta da una monarchia costituzionale,
e con una preponderante forza socialista attiva al suo interno, Bismarck concepì il
sistema dell’assicurazione sociale come strumento volto “ad indebolire la
socialdemocrazia e ad ottenere l’adesione della classe operaia allo stato
monarchico”
15
.
14
Non è certamente un caso che i primi interventi di legislazione sociale siano coevi ed organicamente
connessi alla legislazione antisocialista.
15
G. Ritter, in op. cit., pag. 66.
Ben poca valenza esplicativa della portata delle riforme bismarckiane avrebbe anche
quest’interpretazione se non si tenesse conto dell’importante ruolo assunto dallo stato
nella vita economica e sociale, della capacità della macchina amministrativa, delle
doti rielaborative delle istanze sociali delle elitées politiche e, infine, della forte
presenza di una classe operaia organizzata in partiti e sindacati.
In questo intreccio di ragioni storico – ideologiche, può essere d’aiuto ricordare, in
merito, il pensiero di Hegel
16
, che influenzò fortemente l’intero contesto.
Partendo dall’analisi della crescente industrializzazione, dell’accumulazione dei
capitali, delle condizioni del proletariato, sottomesso ed ormai precipitato al di sotto
dei minimi vitali, il filosofo idealista giunse al riconoscimento della necessità di un
intervento statale non più e non solo in chiave poliziesca, ma anche e soprattutto in
un’ottica socialmente riformatrice, capace di superare le contraddizioni della classe
borghese ed evitare la rivoluzione.
Allo stesso modo, un altro importante ed ascoltato pensatore del tempo, Lorenz von
Stein, coniando il termine “democrazia sociale”, giunse ad ipotizzare un “regno della
riforma sociale che scavalcasse i conflitti di classe, conducendo ad una legittimazione
della monarchia costituzionale” dell’epoca
17
.
Queste impostazioni, dapprima fortemente contestate, vennero da ultimo accolte
anche dai teorici del liberalismo, che auspicarono l’intervento statale nel tentativo di
elevare materialmente e moralmente le classi inferiori, e da numerosi interpreti del
primo movimento operaio, ben disposti a una qualche limitata cooperazione con lo
stato prussiano nell’interesse delle riforme sociali.
In questo clima ideale, per necessità sommariamente dipinto, si inserì lo “stato
istituzionale – razional – burocratico”
18
, un’amministrazione consapevole ed
efficiente, saldamente ancorata alla borghesia colta, legata al riformismo sociale
protestante.
Iniziava così il processo di creazione delle infrastrutture, in direzione del
contenimento dei più gravi abusi sociali e dell’estensione dell’esperienza assicurativa
in campo sanitario.
Va comunque ricordato che queste prime forme di Stato sociale erano accompagnate
e spesso stimolate dalla tendenza all’autotutela dal basso, vivificata dalla lunga e
significativa esperienza socialdemocratica. Accanto agli strumento d’intervento
diretti dello stato, infatti, veniva ad esistenza una fitta rete di associazioni ed
organismi di autotutela, nonché una solida presenza sindacale che portò alla nascita
dei contratti sociali di lavoro, con i quali si mirava al raggiungimento della garanzia
16
G. W. F. Hegel, Lineamenti di filosofia del diritto, trad. it. Roma 1994, pp. 195 ss..
17
L. von Stein, in G. Ritter, op. cit., pag 69.
18
La definizione è di Werner Conz.
In G. Ritter, op. cit., pag. 79.
di una maggiore stabilità del posto di lavoro ed all’affermazione, in generale, di un
insieme di diritti volti a salvaguardare la dignità ed il mantenimento delle classi
lavoratrici.
Rivoluzionaria, per l’epoca, fu pure l’introduzione della pensione d’invalidità e
vecchiaia, inizialmente riservata ai soli lavoratori delle industrie, in seguito estesa,
ma solo nel 1911, anche agli impiegati. È da evidenziare che queste prime forme di
interventismo statale trovarono attuazione solo attraverso il ricorso alla forte
partecipazione contributiva personale degli assicurati, mentre molto limitato era
l’apporto finanziario dello stato, e quasi irrisorio quello dei datori di lavoro.
Nel volgere di un ventennio, quest’impalcatura, edificata allo scopo di indebolire una
parte politica, sortì l’effetto contrario, favorendo l’integrazione permanente dei
lavoratori nello stato e nella società, divenendo patrimonio inattaccabile di conquiste
sociali ed esempio da copiare e sviluppare anche per gli altri Paesi.
Anche se il caso tedesco è quello che prevale nella ricostruzione storica dello Stato
sociale, sia per il dibattito teorico originato, sia per l’essere stato il primo modello a
rivestire le caratteristiche di sistema organico, non va certo trascurata l’antecedente
legislazione sociale britannica, primo esempio di un Paese industrializzato che avvertì
l’esigenza di dotarsi di provvedimenti adeguati alla tutela delle classi lavoratrici.
Tra il 1833 e il 1850 si posero dei limiti al lavoro minorile e femminile, incidendo, in
particolare, sull’orario di lavoro. Ma ciò che fu davvero rilevante, al di là dei singoli,
specifici provvedimenti, fu il superamento del vecchio concetto liberale, tipico della
tradizione lockiana, dello “stato guardiano notturno”, poiché anche in questi casi, in
termini di girondinismo preventivo, si teorizzò l’intromissione statale nei rapporti
sociali e la legittimità del suo intervento limitativo del libero potere discrezionale dei
datori di lavoro, che interruppe le secolari sfere d’autonomia ed intoccabilità del
capitalismo inglese. Una volta infranto questo tabù, divenne più semplice anche
l’affermazione dei movimenti sindacali, dapprima osteggiati dai continui divieti di
coalizione emanati dal Parlamento, poi gradatamente ammessi fino ad ottenere il
pieno riconoscimento giuridico con le leggi degli anni 1867 – 76. Si rese così
possibile la formazione di una rappresentanza più forte e stabile degli interessi dei
lavoratori che, in seguito, avrebbe accelerato lo sviluppo dello Stato sociale, le sue
evoluzioni interne e la sua configurazione come modello esportabile anche oltre
Manica.
PARAGRAFO TERZO: LA DIFFUSIONE DEI MODELLI INGLESE E
TEDESCO
Nel volgere dei trent’anni successivi all’ingresso sulla scena istituzionale dei modelli
di Welfare elaborati in Germania e Gran Bretagna, anche negli altri stati dell’Europa
centro – settentrionale vennero affermandosi i principi e le forme proprie del nuovo
modello, concretizzatesi nell’assicurazione contro gli infortuni e le malattie.
Si sviluppavano, in tal modo, sistemi previdenziali tutti ispirati ai medesimi principi
le cui diverse sfaccettature, certamente esistenti, non devono essere sopravvalutate. Il
principio assistenziale e quello assicurativo, spesso in contrapposizione,
caratterizzano lo sviluppo di quei sistemi. Fino a quando prevalse il principio
assistenziale, le prestazioni statali non poterono che essere limitate a gruppi molto
ristretti, comportando, contemporaneamente, l’insufficienza delle risorse destinate
alle prestazioni dell’assicurazione sociale. La svolta fu segnata, a partire dalla Gran
Bretagna, da una riconsiderazione del principio assicurativo, tale da erodere la base
sociale fruitrice dell’assistenza sociale, e da migliorarla facendole assumere, sempre
più, il volto di una tutela sanitaria finalmente adeguata ai bisogni correnti.
Lungo questa strada si incamminarono presto anche gli altri sistemi, nati in Svezia,
Norvegia, Olanda, ma pure negli altri stati del Commonwealth, con forti
caratterizzazioni britanniche.
L’importanza di questa fase iniziale non può essere sottostimata, poiché sulle
decisioni assunte nel corso di essa è fondato lo sviluppo successivo del Welfare state.
PARAGRAFO QUARTO: PRIMA GUERRA MONDIALE E PERIODO POST
– BELLICO
I processi di trasformazione sociale in atto nei vari Paesi europei furono tragicamente
sconvolti dalle pistolettate di Gavrilo Princip, l’irredentista bosniaco che con il suo
attentato all’arciduca d’Austria accese la miccia della prima guerra mondiale.
La Grande guerra fu però una formidabile levatrice di novità anche rispetto al tema in
questione, poiché proprio le esigenze belliche rappresentarono la molla che condusse
lo stato ad assumere il controllo totale del mercato del lavoro, al di là di un
riaccentuarsi degli interventi assistenziali. Ciò significò una lotta attiva alla
disoccupazione mediante programmi statali, ma anche il potenziamento dei sussidi
per i disoccupati.
Soprattutto la Rivoluzione d’Ottobre, i tumulti rivoluzionari nelle potenze centrali e
le forti agitazioni sociali nei maggiori Paesi capitalistici rafforzarono, già sul finire
del conflitto, la disponibilità a ridurre, con l’intervento sociale dello stato, il
potenziale conflittuale, limitando altresì le possibilità che la riconversione
dell’economia di guerra causasse una forte disoccupazione e nuove tensioni sociali.
Nella Germania sconfitta dalla guerra ed umiliata dagli accordi di pace, la
Costituzione di Weimar, del 1919, abbandonò le vecchie piste, imboccando una
strada diversa nello sviluppo dello stato sociale, con la definizione dei “diritti e
doveri fondamentali dei tedeschi”, attraverso i quali si intendeva esprimere lo spirito
della nuova democrazia sociale tedesca.
La Carta fondamentale fissò una serie di norme, tra cui il diritto al lavoro o al
mantenimento (art. 163), la garanzia di un sistema assicurativo per la salvaguardia e
la tutela della salute, della maternità e della vecchiaia (art. 161), la partecipazione dei
cittadini agli oneri pubblici in relazione alle loro possibilità (art. 134), il controllo
statale sulla divisione ed utilizzazione della terra (art. 155), la libertà di coalizione
(art. 159), il riconoscimento dei contratti collettivi di lavoro (art. 165).
Ad ogni modo, l’intero impianto, sicuramente innovativo per quei tempi, non
corrispose però alle attese dei sindacati e delle sinistre, che contestavano, soprattutto,
l’inattuazione dell’ordinamento economico socialista e del diritto del lavoro unitario.
A ciò non giovò, di certo, l’evoluzione del diritto del lavoro, affidata ad appositi
tribunali retti però dal personale dei tribunali ordinari, e della giurisprudenza
lavoristica che, nell’aspirazione alla pace economica e alla costruzione di una
comunità nazionale necessaria, tendeva a limitare l’operato dei sindacati, negando, al
contempo, validità pratica ad elementi centrali della Costituzione.
Anche in Gran Bretagna il sopirsi degli eventi bellici coincise con l’esigenza di
istituzionalizzare i conflitti di classe, tanto che si giunse a proporre di integrare il
Parlamento politico con un “Parlamento sociale”
19
, che avrebbe dovuto assumere su
di sé la responsabilità delle questioni di politica economica, fiscale e sociale.
Il programma, inutile a dirsi, non ebbe alcuna possibilità di effettiva realizzazione.
Dal punto di vista giuridico, va invece sottolineata la posizione di astensione del
diritto e dello stato, nei confronti del mondo del lavoro, lasciando liberi i soggetti
rappresentativi degli operai e degli imprenditori di muoversi nel libero gioco tra le
parti sociali.
In conclusione, ciò che di nuovo e interessante la Grande guerra pose all’attenzione
dell’Europa intera, e cioè il modello tedesco di democrazia economica, fu lasciato
cadere nel dimenticatoio e costretto al fallimento, non solo dal grande capitale, che
temeva di essere superato dalla nuova impostazione socio – economica dello stato,
ma anche dalla paralisi in cui versava lo stato tedesco, incapace di attivarsi
nell’interesse dei lavoratori, e dall’ottusità dei sindacati e delle sinistre, ancorate ad
un massimalismo che avrebbe dimostrato la propria tragica inutilità di lì a qualche
anno.
19
S. e B. Webb, Una Costituzione socialista per il Commonwealth, Londra 1920, pp. 110 ss..
PARAGRAFO QUINTO: LA CRISI DEL ’29
Il Welfare state, così come finora delineato, sebbene in costante e continua
evoluzione, non riusciva a scrollarsi di dosso l’etichetta di ‘capitalismo assistenziale’,
riservato a ristrette elitées di operai qualificati, e con forti venature antisindacali.
Il momento di rottura con il passato, caratterizzato dal passaggio all’idea di Stato
sociale inteso come “responsabilità generale dello stato per l’economia e la
sicurezza”
20
dei suoi cittadini, si ebbe, infatti, solo nel 1929, come conseguenza della
terribile crisi economica di quell’anno e al di fuori del continente europeo, negli Stai
Uniti fortemente segnati dal giovedì nero della Borsa di Wall Street.
Qui, sebbene il ritardo rispetto agli stati europei industrializzati fosse forte, sotto la
spinta della disoccupazione e della miseria di massa cagionata dal crollo delle
economie mondiali, il New Deal di Roosevelt seppe catalizzare le energie
riformatrici, dando vita a forme d’intervento così rilevanti da divenire
paradigmatiche dell’idea stessa di stato democratico, ponendo l’esempio americano al
centro della scena mondiale.
La crisi s’abbattè sull’America e sull’Europa con una violenza tale da rendere
obbligatoria la ricerca di nuove vie verso la democrazia, capaci di evitare il terribile
avvitamento totalitario verificatosi nel contempo in Germania
21
. Sullo sfondo di
questi scenari, l’analisi economica neo – classica e la concezione politica liberale
dimostrarono la loro impotenza. La loro struttura concettuale presupponeva che il
livello operativo normale del sistema economico corrispondesse alla piena
occupazione e che, in caso di disfunzioni, il meccanismo avrebbe continuato
tranquillamente nel suo corso, grazie ad un processo di autoregolazione.
Di fronte al grande crollo, queste convinzioni si sbriciolarono miseramente. Ed è
sotto questa luce che va esaminato il ruolo di Jhon Maynard Keynes, l’economista
inglese che con la sua “Teoria generale dell’occupazione, dell’interesse e della
moneta” criticò l’incontrollato liberismo e le deficienze dei tradizionali strumenti
monetari e di politica economica, postulando la necessità di intervenire direttamente
attraverso il governo, inteso come soggetto attivo di spesa, e affidando un ruolo non
più marginale alla politica fiscale, creando deliberatamente un deficit di bilancio tale
da sostenere e incrementare la domanda globale.
Per un’opinione pubblica allevata nel solco della tradizionale etica puritana, il
significato di tali affermazioni non era certo facilmente recepibile. Ad ogni modo, tra
coloro che capirono la portata del messaggio di Keynes, vi fu Roosevelt.
20
G. Ritter, op. cit., pag. 138.
21
In questo contesto può porsi anche il problema delle distorsioni proprie dello stalinismo nell’Urss.
Per una visione più ampia ed aggiornata della questione, si veda l’opera collettanea “Nazismo, fascismo
e comunismo”, Roma 1996.
Sotto la sua presidenza, nell’ottica del famoso “Nuovo patto” (il New Deal), il
governo statunitense si prefisse l’obiettivo di ristabilire un soddisfacente livello di
profitto nell’attività industriale (tramite il National industrial recovery act), così da
stimolare gli investimenti e produrre nuovo reddito, da redistribuire ai lavoratori
attraverso un aumento dei salari, combinando la ripresa economica con la riforma
sociale, migliorando la previdenza, varando programmi di assistenza (quali il Social
security act) e, soprattutto, incoraggiando l’azione dei sindacati operai, con
l’imposizione della contrattazione collettiva (attraverso il Wagner act) e dei minimi
sindacali (con il Fair labor standards act). Ma l’esperimento più significativo del New
Deal fu forse quello della Tennessee Valley authority: un progetto di pianificazione
energetica, territoriale e sociale in una delle più desolate regioni dell’America povera.
L’azione di Roosevelt, in definitiva, assunse le forme di una continua lotta
riformatrice contro le forze più retrive della società americana le quali, del resto,
riuscirono, attraverso l’operato della Corte costituzionale, a smantellare molte delle
conquiste realizzate dal nuovo corso. Anche se il New Deal non riuscì nell’intento di
eliminare del tutto la ciclicità delle crisi economiche e ad attenuare i conflitti sociali,
Roosevelt e Keynes fecero segnare la definitiva scomparsa del capitalismo liberale,
dando luogo ad un capitalismo dal volto umano, evoluto e adattato alle nuove
circostanze sociali.
Nel quadro delle odierne discussioni sui sistemi di sicurezza sociale, rivisto con
sguardo sereno e scevro da condizionamenti ideologici e dottrinari, l’apporto teorico
keynesiano, specie riguardo ai compiti e ai limiti dell’intervento pubblico nella vita
economica, ha assunto un’accentuata rilevanza, suscitando ampi, e spesso violenti,
dibattiti teorici.
A tal proposito, un’attenta rilettura di Keynes sanerebbe, probabilmente, alcune
controversie ancora in atto. Certamente, la maggior estensione del ruolo che lo stato
svolge in campo economico, e le sue conseguenze degenerative, non sono imputabili
all’economista inglese, quanto piuttosto ai lasciti delle due guerre mondiali, “che
mobilitarono l’intera popolazione sotto lo stendardo dello stato – nazione”
22
. Alla fine
emergerebbe l’idea che è poi stata il punto di partenza per ogni discussione sul
divenire dello Stato sociale dagli anni ’30 in poi: l’immagine di un mercato che, con
l’affermarsi della società industriale matura, e con le sue connesse istituzioni
politiche, perde sempre più la sua forza come meccanismo regolatore.
22
J.K. Galbraith, in F. Caffè, In difesa del Welfare state, Roma 1986.
PARAGRAFO SESTO: LO STATO SOCIALE DOPO LA SECONDA
GUERRA MONDIALE
Ancora una volta, come già accaduto per gli sviluppi successivi al conflitto del ’15 –
’18, le tendenze evolutive post – belliche trovarono origine nel bel mezzo dei
bombardamenti, identificandosi nel tentativo di indirizzare, con interventi statali,
l’economia di guerra.
Fondamentale, in questa direzione, ancora una volta, il ruolo giocato dalla Gran
Bretagna. Oltre Manica, in effetti, la costante minaccia rappresentata dal pericolo del
nazi fascismo attenuò le divergenze interne, assicurando una coesione sociale altrove
impossibile. Proprio su questo terreno iniziò a delinearsi lo Stato sociale come
configurato nel piano Beveridge, presentato al Parlamento britannico sul finire del
1942, ma realizzato solo tre anni più tardi, in coincidenza con il successo elettorale
conseguito dal partito laburista.
Due gli elementi fondanti del programma redatto dalla commissione parlamentare
coordinata da William Beveridge: lo stretto collegamento tra le politiche sociali e
quelle economiche rivolte al perseguimento della piena occupazione, e l’estensione
dell’assicurazione sociale dai soli lavoratori a tutti i cittadini.
Parte di un più vasto disegno di riorganizzazione della società inglese, il piano
garantiva non solo le esigenze delle organizzazioni sindacali, ma anche quelle dei ceti
medi e delle imprese, nei confronti delle quali non veniva agitato lo spauracchio della
redistribuzione dei redditi, ma solo l’invito a una contribuzione minima. Si segnalava
inoltre uno scostamento dalle teorie keynesiane sotto l’aspetto della piena
occupazione: questa, infatti, andava ricercata non attraverso la regolazione della
domanda, bensì tramite la redistribuzione della forza lavoro facilitata, nelle previsioni
dei membri della commissione parlamentare, dal controllo statale sugli investimenti e
dalla graduale abolizione della proprietà privata dei mezzi di produzione
23
.
I riflessi di tutto ciò si fecero sentire, inevitabilmente, nel resto d’Europa.
In Francia, ad esempio, il governo provvisorio in esilio, guidato dal generale De
Gaulle, studiò già negli anni del distacco dalla patria le novità provenienti dalla Gran
Bretagna e, nel primo dopoguerra, anche lì s’introdusse un nuovo unitario sistema di
sicurezza sociale, riguardante tutti i cittadini. Ma l’opposizione dei lavoratori
autonomi e la fine del governo di unità nazionale segnarono il fallimento delle
originarie aspirazioni, finendo col dar vita ad un sistema all’interno del quale si
trovarono a convivere vari ed eterogenei sistemi assicurativi speciali.
Diverso, invece, fu il punto di partenza della Germania post – bellica.
23
Questi e altri particolari del piano Beveridge, nell’ottica di una ricostruzione più articolata dello
stesso, sono rinvenibili negli Atti del Parlamento inglese, relativi all’anno 1942.
Questa, diretta non da un governo proprio, bensì dalle potenze alleate occupanti, visse
esperienze diverse, legate al volere dei Paesi assegnatari delle varie zone d’influenza
in cui erano state divise la nazione e la stessa capitale Berlino.
Nella zona sovietica fu presto introdotta, con finalità redistributive, un’assicurazione
unitaria, sotto il dominio delle organizzazioni operaie. Analogo tentativo fu
sperimentato nei territori posti sotto il controllo francese, dove in parte si realizzò il
modello proposto in Francia.
Ad ogni modo, il pensiero tedesco era ancora troppo forte e fiero della sua secolare
autonomia, per cedere il passo alle tendenze d’importazione. E fu così che esso
riprese vigore, non appena si giunse alla creazione della Repubblica federale tedesca,
tanto da pervenire, nel 1957, all’emanazione di una legge pensionistica che, assimilati
gli elementi di novità introdotti dal piano Beveridge e dalle varie rivisitazioni dello
stesso, si segnalò per l’introduzione di originali principi di carattere generale. In essa,
pur mantenendosi viva la stretta connessione tra politiche sociali economiche, ci si
attenne alla tradizione tedesca nel settore della differenziazione dei contributi, ma
anche nel rifiuto di un’amministrazione unica, prevedendo, per la prima volta nella
storia, l’istituto del ricalcolo ed il principio del dinamismo della pensione,
consentendo così ai beneficiari di partecipare allo sviluppo economico.
A parte le riforma pensionistica, il sistema sociale tedesco, nel tentativo di mitigare le
tragiche conseguenze della guerra, fu imperniato anche sulla tutela dei bisognosi,
sull’assistenza familiare e giovanile, sull’edilizia sociale. In tal modo, la nuova
Repubblica venne ad assumere le sembianze di uno Stato sociale, anche se,
diversamente da Weimar, la Carta fondamentale non prevedeva un dettagliato elenco
di diritti sociali. Questa diversità, sicuramente notevole sotto l’aspetto costituzionale,
era dovuta alla previsione che entro breve si sarebbe giunti all’unificazione del
territorio tedesco, ragion per la quale non si sarebbe mancata l’occasione per
riscrivere, in maniera compiuta, l’intera costituzione.
La storia, come è a tutti noto, seguì strade diverse, lasciando al codice sociale del
1975 l’onore, e l’onere, di procedere all’individuazione analitica dei diritti sociali.
Da queste basi, gli sviluppo dello Stato sociale si susseguirono in maniera vorticosa e
differenziata, condividendo però una grande conquista, vale a dire l’opinione che la
sicurezza sociale sia diritto fondamentale di ogni individuo.
Nella commistione tra i vari sistemi, si affermò, quasi dappertutto, il principio del
dinamismo, di marca tedesca, nella convinzione che fosse compito dello stato
industrializzato moderno garantire non solo il minimo vitale, ma anche il tenore di
vita.
Per concretizzare quest’idea, laddove il principio del dinamismo attecchì con ritardo
rispetto alla RFG, per renderlo operativo si fece ricorso a sistemi integrativi pubblici.
Questa strada, percorsa celermente dagli Stati Uniti, fu seguita invece a rilento in
Gran Bretagna, dove il sistema contributivo disomogeneo portò rapidamente alla
nascita di una società classista, all’interno della quale si contrapponevano, da un lato
coloro i quali, in relazione all’attività svolta, potevano assicurarsi una pensione
integrativa, dall’altro il resto della popolazione.
L’intervento redistributivo statale, tramite i menzionati sistemi integrativi, risultò
essere efficace soltanto a partire dalla riforma pensionistica del 1975, quando si rivide
l’impostazione dell’intero sistema contributivo, legandolo in misura proporzionale
alla retribuzione per coloro che rientravano in una determinata fascia di reddito
salariale, ed in misura unitaria per i restanti lavoratori, tutti compresi in una diversa
fascia salariale.
Anche questo tentativo, pur contribuendo all’evoluzione della situazione, non riuscì
nell’intento di debellare l’annoso problema della disparità tra i pensionati. Fenomeno,
questo, che spinse i governi degli anni ’80 a ricorrere, sempre più, alla previdenza
privata, peraltro con l’introduzione di una serie di agevolazioni, tra cui alcune di
natura fiscale.
Diversi, e coronati da successo, furono al contrario i tentativi svedesi.
Questi, pur condizionati dall’impatto teorico del piano Beveridge, si slegarono presto
dalla convinzione inglese delle pensioni unitarie, e furono indirizzati sulla via
dell’estensione della base sociale, in modo che i lavoratori dipendenti potessero
contribuire, in un clima di distensione, alla creazione di un sistema pensionistico
finanziato tramite il prelievo fiscale e il contributo dei datori di lavoro, mentre i
capitali compresi nei fondi pensione venivano ad essere utilizzati per finanziare
l’edilizia sociale e provvedimenti occupazionali di varia natura.
Questa tendenza all’universalismo, sviluppatasi nel tempo in Gran Bretagna e nei
Paesi nord – europei, si propagò anche in Germania e Francia, dove fu ripresa ed
estesa anche al settore agricolo, nonché all’assistenza in campo sanitario.
La postuma propensione alla riunificazione o, quantomeno, al riavvicinamento dei
principali sistemi di Welfare state, non deve però trarre in inganno. Ne è palese
testimonianza la pressocché impossibile armonizzazione tentata in sede di comunità
europea, resa necessaria dalla realizzazione dell’Europa senza frontiere, a partire dal
Gennaio del 1993.
Nel dibattito, che si protrarrà certo per lungo tempo ancora, potrà essere d’aiuto
l’esperienza della Germania unita, improntata ad un progetto di riunificazione non
più politico, ma sociale ed economico di due parti della stessa nazione le quali
presentano tutt’oggi capacità economiche diverse. Potrà essere d’aiuto anche quella
degli altri Paesi europei, culla di un sistema di sicurezza sociale con parecchi tratti
omogenei, scaturiti dall’interdipendenza economica e sociale imposta dal Trattato di
Roma del 1957.
Tutto ciò potrà inoltre servire a rilevare, in chiave comparatistica, le linee guida del
Welfare state nelle nazioni degli altri continenti.
Da un’inchiesta ormai datata, risalente al 1983
24
, si deduce come nei Paesi asiatici ed
africani in via di sviluppo la percentuale delle prestazioni sociali in rapporto al
prodotto interno lordo non superasse il 3%
25
.
Quell’indagine, seppur allarmante nelle risultanze assolute, può tuttavia ritenersi
incoraggiante, se paragonata alle situazioni del passato, anche recente. Da essa si
evidenzia infatti la tendenza alla progressiva espansione dei sistemi pensionistici e
sanitari, legata però, come accadeva nella vecchia Europa, all’influenza della classi
dominanti.
C’è da augurarsi, nonostante tutto, che questa tendenza sia ancor oggi in atto, e che
anche per queste zone del mondo, com’è avvenuto da noi, lo Stato sociale possa
significare non solo miglioramento delle condizioni di vita, ma anche e soprattutto
stimolo di trasformazione della società in senso moderno e democratico.
24
Organizzazione internazionale del lavoro, Il costo della sicurezza sociale, XII inchiesta comparativa,
Ginevra 1988.
25
Si assuma come dato di riferimento comparativo quello medio dei Paesi europei ad economia di
mercato, pari al 22%.