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INTRODUZIONE
“Sport has the power to change the world. It has the power to inspire. It has the power to
unite people in a way that little else does. It speaks to youth in a language they
understand. Sport can create hope where once there was only despair.”
(Nelson Mandela, 1995)
Le parole di Mandela, pronunciate in seguito alla Coppa del Mondo di rugby, ospitata in
Sud Africa nel 1995, ben presentano l’oggetto di questa tesi. Infatti, come il rugby ha
contribuito ad unire sotto un’unica bandiera i sudafricani dopo la fine dell’apartheid, lo
sport e l’attività fisica sono strumenti che possono apportare una spinta positiva allo
sviluppo delle popolazioni e contribuire al conseguimento e al mantenimento della pace.
Lo sviluppo è inteso in senso lato come sviluppo umano, sociale, economico ed
istituzionale, così come è inquadrato dagli Obiettivi di Sviluppo del Millennio
(Millennium Development Goals – MDGs) definiti dalle Nazioni Unite nel 2000
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. Lo
Sport per lo Sviluppo e la Pace (Sport for Development and Peace – SDP) è uno
fenomeno di importanza crescente nel campo dello sviluppo, come dimostra il suo
riconoscimento da parte di enti internazionali, primo tra tutti le Nazioni Unite, le
numerose conferenze tenute sul tema e gli innumerevoli progetti di cooperazione
internazionale che includono o si basano proprio sull’attività sportiva. In questo contesto,
il mio lavoro si propone di presentare il contributo dello sport come motore e strumento
di aggregazione ed integrazione tra diverse nazionalità, culture e religioni, educativo, di
promozione di una cultura di pace e di diritti, di riduzione del disagio sociale, di
socializzazione e sviluppo comunitario e di supporto al benessere fisico e alla salute. Tali
elementi, fondamentali alla crescita e allo sviluppo, soprattutto, dei bambini e dei giovani,
sono mostrati in modo pratico attraverso i case studies da me analizzati. I progetti che
approfondisco sono proposti da due organizzazioni nonprofit, Universal Peace Federation
Italia (UPF – Italia) e Peace Games UISP, e da una squadra di calcio (considerata come
S.p.A. che realizza il suo progetto di Responsabilità Sociale d’Impresa), F.C.
Internazionale Milano. Ho scelto di trattare di organizzazioni nonprofit e Responsabilità
Sociale d’Impresa, tra i vari attori del settore dello SDP, in quanto ritengo che possano
offrire alla comunità in cui operano un aiuto concreto allo sviluppo impiegando lo sport
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http://www.un.org/millenniumgoals/
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come strumento, operando senza fini di lucro, mossi dall’impegno nei confronti della
società e, nella maggior parte dei casi, ricchi di esperienza nel campo; un contributo che
considero piø immediato sia di quello di un governo statale che di quello di un organismo
internazionale, non dovendo rispettare burocrazie e inserendosi direttamente nei contesti
locali. Ciononostante, il ruolo dei governi è altamente importante al fine di includere lo
sport e l’attività fisica nelle strategie di sviluppo del paese, così come la funzione di
riferimento degli organismi internazionali nel regolare e promuovere lo SDP. La tesi,
prima di addentrarsi nell’analisi dei case studies, presenta brevemente la teoria e gli studi
relativi al settore nonprofit, alla Responsabilità Sociale d’Impresa e al fenomeno dello
SDP, al fine di una migliore comprensione dei casi stessi. L’ultimo capitolo è dedicato
all’analisi trasversale dei tre casi con l’intento di mostrare punti comuni e diverse
modalità di approccio. Sempre ai fini dell’analisi, ho elaborato una matrice che incrocia
obiettivi e governance e vi ho collocato all’interno i tre casi, completando la
comparazione affiancandovi alcuni dati relativi alla struttura economica.
Durante la ricerca che ha preceduto la stesura di questo lavoro, ho potuto notare come il
fenomeno dello SDP sia poco visibile in Italia e manchi di riconoscimento istituzionale.
A tal proposito, spero che questo elaborato contribuisca ad informare le persone riguardo
le potenzialità dello sport come strumento da integrare nelle strategie di sviluppo e negli
interventi di cooperazione.
L’idea di questa tesi nasce principalmente dalla mia attività di atleta e allenatrice di
pattinaggio artistico a rotelle. Infatti, ho sperimentato personalmente l’importanza dello
sport sia per il benessere fisico e mentale, che per i valori che esso trasmette, applicabili
nella vita quotidiana, al di fuori della pista. Il tema dello SDP mi ha consentito di
collegare la mia esperienza personale al tipo di studi universitari che sto svolgendo. La
mia curiosità riguardo il tema è stata, inoltre, stimolata dalla visione del documentario
realizzato da Gabriele Salvatores, Fabio Scamoni e Guido Lazzarini, “Petites Historias
das Crianças. Viaggio nel mondo di Inter Campus”, regalatomi dal Direttore Generale
della Nuova Editoriale Sportiva srl, Stefano Sertoli, che mi ha portato a conoscenza di
Inter Campus (progetto di Responsabilità Sociale d’Impresa di Inter).
Vorrei concludere questa introduzione con alcuni esempi che ho potuto trarre dagli ultimi
Giochi Olimpici di Londra 2012. Nella finale di nuoto dei 200 m stile libro maschile,
l’argento è stato vinto a pari merito dal cinese Yang Sun e dal sudcoreano Taehwan Park;
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durante la premiazione i due atleti, condividendo lo stesso gradino del podio, si sono
scambiati un abbraccio, segno dei rapporti recenti di amicizia concordati dai due stati di
rappresentanza. Questo gesto mostra come lo sport possa essere un catalizzatore di pace e
come gli atleti possano servire da modello di comportamento positivo. Inoltre, ognuna
delle 204 nazioni partecipanti ai Giochi ha presentato almeno una atleta donna; questo
evidenzia come lo sport possa essere promotore dell’uguaglianza tra i generi, sbloccando
alcune norme relative alla partecipazione sociale delle donne in alcuni paesi. Infine, il
Segretario Generale delle Nazioni Unite Ban Ki-moon è stato tra i tedofori che hanno
portato la torcia olimpica nella città di Londra e, durante la cerimonia di apertura dei
Giochi, ha accompagnato la bandiera a cinque cerchi, segni del riconoscimento dello
sport e della sua utilità per lo sviluppo della pace nel mondo da parte delle Nazioni Unite.
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CAPITOLO I: ORGANIZZAZIONI NONPROFIT
Il capitolo presenta una breve panoramica del settore nonprofit trattando delle definizioni
di riferimento in ambito internazionale ed europeo e della classificazione delle
organizzazioni del settore. Il capitolo si occupa, in seguito, delle teorie che tentano di
spiegare il perchØ dell’esistenza del settore nonprofit nelle economie moderne.
Proseguendo, vengono descritti gli elementi organizzativi ed esposti alcuni dati sulla
dimensione e la diffusione del settore nel mondo. Questo capitolo si conclude con un
quadro sulla situazione italiana.
1.1 Definizioni e classificazione nel contesto internazionale.
Il settore del nonprofit include una vasta e diversificata gamma di enti accomunati
principalmente, come suggerisce il nome stesso, dal non avere finalità lucrative. ¨ un
settore in crescita a livello locale e nazionale, che sta acquisendo dimensioni significative
anche a livello globale. Tuttavia, lo studio del settore non ha ancora portato ad una
definizione comprensiva per descriverlo. Secondo H. K. Anheier (2005) coesistono
definizioni giuridiche, funzionali, economiche o strutturali.
La definizione giuridica è quella fornita da leggi e regolamenti propri di ciascuno
stato. Essa fornisce le caratteristiche fondamentali per cui una organizzazione
possa essere classificata o registrata come nonprofit e identifica i benefici
derivanti da tale status.
La definizione funzionale mette in evidenza le funzioni ed i fini delle
organizzazioni nonprofit. In generale, un’organizzazione nonprofit deve apportare
beneficio alla comunità o alla parte di essa che si trova in difficoltà o in situazioni
di svantaggio. Alcuni esempi possono essere: la prevenzione e l’alleviamento
della povertà, la promozione dei diritti umani e della risoluzione dei conflitti, la
protezione dell’ambiente e dei costumi storici locali, gli aiuti allo sviluppo, il
miglioramento della salute pubblica, il supporto a bambini, giovani, anziani e
persone diversamente abili, il sostegno alla scienza e alla ricerca, all’istruzione,
all’arte, alla cultura e alla religione.
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La caratteristica centrale della definizione economica è la struttura delle entrate
delle organizzazioni nonprofit. Esse non ottengono le loro entrate dalla vendita di
beni o servizi sul mercato come le imprese private, nØ attraverso le tasse come i
governi, ma bensì dalle quote associative e dai contributi volontari di membri e
sostenitori. La definizione economica di nonprofit, accettata a livello mondiale, è
quella fornita dal System of National Accounts (SNA), una raccolta
internazionale di standard e raccomandazioni riguardo attività economiche di
vario genere stilata dalle Nazioni Unite nel 1993 e revisionata nel 2008. Secondo
lo SNA (paragrafo 4.54, 1993), le istituzioni nonprofit sono enti giuridici o sociali
con lo scopo di produrre beni e servizi i quali, però, non possono essere fonte di
reddito, profitto o guadagno per coloro che le hanno fondate, le dirigono o le
finanziano. In pratica, nessun membro può appropriarsi delle eccedenze
finanziarie generate dalle attività produttive dell’organizzazione, ma queste
devono essere reinvestite in altre iniziative dell’organizzazione stessa.
La definizione strutturale di Salamon e Anheier (1992) identifica una
organizzazione come nonprofit se è istituzionalmente organizzata (ad esempio
nella carta costitutiva devono essere indicate le riunioni periodiche e le regole di
procedura), privata (nel senso di non governativa, con un’identità separata da
quella dello stato), autonoma (ovvero non controllata da agenzie dello stato nØ da
aziende private, l’organizzazione deve essere in grado di gestire le sue attività e
possedere proprie procedure interne di governance), i profitti accumulati
nell’anno sono riutilizzati per le attività dell’organizzazione stessa e non
ridistribuiti tra proprietari, membri, fondatori o dirigenti, e volontaria (deve
coinvolgere volontari nelle sue attività e nella sua gestione, e anche adesione e
donazioni devono essere volontarie).
Come suggerisce Anheier (2005), le definizioni riportate vengono impiegate in base alle
intenzioni ed agli obiettivi di scienziati sociali, professionisti e politici, ma anche a
seconda del contesto: i primi due tipi di definizione si adattano meglio all’ambito statale,
mentre quella strutturale è la migliore per le comparazioni cross-country e cross-sector.
Infine, la definizione economica, essendo altamente focalizzata sul comportamento
finanziario, necessita delle altre per non tralasciare caratteristiche importanti.
L’Handbook on Nonprofit Institutions (2003) delle Nazioni Unite offre una definizione
sempre piø diffusa a livello internazionale ed utilizzata per fini comparativi. Essa
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semplifica in parte la versione strutturale di Salamon e Anheier ed include la componente
economica. Di conseguenza, il settore no profit è costituito da enti non guidati da
obiettivi commerciali nØ dalla volontà di fare profitti, i quali devono essere rinvestiti nelle
attività dell’organizzazione. Tali enti devono essere istituzionalmente separati dal
governo dello stato, nonostante possano ricevere finanziamenti da esso, e devono essere
in grado di autogovernarsi. Infine, le Nazioni Unite sostituiscono la componente
volontaristica sostenendo che l’appartenenza e il contributo di tempo e denaro non
devono essere imposti nØ richiesti dalle norme dell’organizzazione.
Gli enti che rientrano nella definizione fornita dalle Nazioni Unite possono assumere una
moltitudine di forme organizzative; l’Handbook on Nonprofit Institutions ne riporta
alcuni esempi (parr. 2.21 e 2.22): gli enti fornitori di servizi nonprofit, come molte
università ed ospedali, le organizzazioni non governative (ONG) mirate alla cooperazione
allo sviluppo, organizzazioni artistiche e culturali, come musei ed orchestre, i club
sportivi, le fondazioni, gruppi di supporto di diritti, associazioni popolari e le
congregazioni religiose. In aggiunta, con l’intento di raggruppare e suddividere in base al
loro fine i diversi enti inclusi dalla definizione, le Nazioni Unite hanno adottato,
nell’Handbook on Nonprofit Institutions, la Classificazione Internazionale delle
Organizzazioni Nonprofit (International Classification of Nonprofit Organizations –
ICNPO). Tale classificazione è stata elaborata in collaborazione con un gruppo di
studiosi del John Hopkins Comparative Nonprofit Sector Project e modellata
sull’International Standard Industrial Classification (ISIC) (Nazioni Unite, 1990). La
classificazione è risultata efficace in seguito alla sua applicazione ad un ampio numero di
Stati che presentano un diverso livello di sviluppo economico, diversi sistemi politici,
legali e culturali, nonchØ varie dimensioni, opportunità e ruoli del proprio settore
nonprofit. Il sistema divide il settore nonprofit in base alla principale attività svolta in
dodici gruppi, suddivisi a loro volta in trenta sottogruppi. Il primo gruppo include le
attività culturali e ricreative, tra cui troviamo anche lo sport; il gruppo seguente coinvolge
gli enti che si dedicano all’istruzione ed alla ricerca; il terzo riguarda l’ambito sanitario
mentre il quarto i servizi sociali; seguono la tutela dell’ambiente e degli animali, la
promozione dello sviluppo economico e sociale e le organizzazioni di avvocati e servizi
legali; l’ottavo gruppo comprende i mediatori filantropici e gruppi di promozione del
volontariato, mentre il nono riguarda le attività internazionali; il decimo è riservato alle
congregazioni e alle associazioni religiose; il gruppo numero undici alle attività delle
imprese e l’ultima è una classe residuale.