4
A tal fine, e per meglio introdurre la descrizione delle realtà particolari studiate, abbiamo
sintetizzato nel primo capitolo il quadro generale della storia romagnola dal 1815 sino alla vigilia
dei moti del ’31. Nel secondo capitolo, invece, abbiamo illustrato tre aspetti centrali del problema
romagnolo: in primo luogo il rapporto tra autorità e spirito pubblico in generale, poi (mettendo a
fuoco due problemi connessi con questo rapporto) la questione del controllo sugli impiegati, e,
infine, la condizione dei letterati romagnoli, scegliendo a titolo di esempio le vicende del cenacolo
cesenate.
A proposito dei dipendenti pubblici, possiamo affermare che, dai documenti considerati,
risulta complessivamente frustrato lo sforzo compiuto dai governi di epurare i quadri
dell’amministrazione dagli elementi politicamente non affidabili; questo dato conferma in sostanza
la notevole diffusione di una disposizione ostile dei romagnoli verso Roma, anche a prescindere
dalle considerazioni sulla sua effettiva potenzialità rivoluzionaria.
Per quanto riguarda lo studio di questo problema, abbiamo integrato i documenti della citata
miscellanea con quelli del fondo della Congregazione di Vigilanza (sempre nello A.S.R.), preposta
istituzionalmente alla sorveglianza politica e disciplinare in quel settore della pubblica ammini-
strazione.
La messa a fuoco sul cenacolo cesenate, invece, ci ha portato a studiare oltre alle carte
dell’A.S.R., il carteggio di Salvatore Betti, famoso erudito della Roma della Restaurazione, il quale
per lunghi anni mantenne una corrispondenza epistolare con gli esponenti della cultura romagnola.
Oltre al carteggio del Betti, che si conserva tra i manoscritti della Biblioteca Nazionale Vittorio
Emanuele II di Roma, ci siamo serviti delle carte di Eduardo Fabbri e Cesare Montalti, facenti parte
dei manoscritti della Biblioteca Malatestiana di Cesena. Questi documenti, per quanto già
ampiamente esplorati dagli studiosi di storia locale, ci hanno offerto alcuni elementi utili al
tentativo di ricostruire, per sommi capi, l’ambiente in cui operarono i letterati cesenati. L’orizzonte
culturale di questi intellettuali, per alcuni versi limitato e provinciale, ma pervaso talora
dall’aspirazione alla libertà politica, risentì dell’impronta classicista legata alla loro formazione
“napoleonica”. Vedremo in seguito in che modo i letterati romagnoli si posero rispetto alle istanze
della borghesia in ascesa e in quale misura la loro attività venne condizionata dalla repressione e
dalla censura governative.
Nell’ultimo capitolo, infine, abbiamo approfondito il discorso sul rapporto tra autorità e
spirito pubblico occupandoci di due città, Cesena e Faenza, la cui storia si presentava ampiamente
significativa delle tensioni che agitavano la Romagna, e, quindi, funzionale allo svolgimento della
nostra tesi.
5
CAPITOLO I
Quadro politico generale della Romagna: la Carboneria, le cospirazioni, il
malcontento dei laici
1. Il periodo francese
La decadenza dello Stato Pontificio, ricostituitosi dalle sue ceneri con la Restaurazione,
aveva com’è noto origini assai lontane, ascrivibili in ultima analisi al suo carattere di Stato
teocratico, in cui il capo della Cristianità (coadiuvato da pochi cardinali) esercitava simultanea-
mente il potere spirituale e quello temporale
1
.
Tuttavia, poiché il periodo che andiamo a trattare si apre col 1815 e si conclude alla vigilia
dei moti del ’31, dovremo limitarci a considerare le vicende appena precedenti e le loro conse-
guenze sullo Stato Pontificio. Dobbiamo pensare innanzi tutto che l’intera Europa aveva preso parte
al conflitto politico, ideologico e persino filosofico fra Chiesa cattolica e forze dell’ancien régime
da una parte, e Francia rivoluzionaria dall’altra; tale conflitto, drammaticamente combattuto sino
alla definitiva caduta di Napoleone, aveva spinto la Chiesa verso una netta chiusura nei confronti
delle idee liberali, e l’aveva resa puntello del nuovo equilibrio europeo fondato sull’alleanza tra il
trono e l’altare. L’ordine politico stabilito nel Congresso di Vienna, già all’atto del suo concepi-
mento, conteneva però i germi di un’insanabile contraddizione fra la via dell’assolutismo, risoluta-
mente imboccata dai governi, e la spinta prepotente al rinnovamento delle istituzioni e al ricambio
dei ceti dominanti proveniente dalla società nel suo complesso.
Tale contraddizione di fondo, che investiva pressoché tutti i campi della vita civile, doveva
emergere con maggior forza dirompente là dove le popolazioni vennero sottoposte ad un sistema di
leggi e a metodi di governo assolutamente inadeguati alle nuove esigenze sociali, politiche ed eco-
nomiche della società, al cui interno la borghesia diventava sempre più importante; fu questo il caso
dello Stato Pontificio: ma in esso, per di più, data la sua particolare natura, con il clero che deteneva
il monopolio delle massime cariche pubbliche, le opposizioni tipiche dell’età della Restaurazione
portarono ad una crisi praticamente cronica.
Tuttavia, al di là di certe caratteristiche generali, non sarebbe esatto considerare questo Stato
come una realtà omogenea. Le Legazioni, oggetto del nostro studio, si distinguevano soprattutto per
la presenza di una borghesia più ricca e più dinamica di quella delle altre province, che si poneva
quindi come fattore di forte contraddizione sociale rispetto al sistema dominante. Fra le ragioni
dello sviluppo della borghesia locale stava anche la maggior durata che ebbe la dominazione
francese nelle Legazioni rispetto alle altre province dello Stato, dato che esso fecero parte dapprima
delle repubbliche Cispadana e Italiana e infine del Regno Italico.
Un giudizio analitico sugli effetti della dominazione francese in Italia esula dai limiti della
nostra ricerca; basti perciò ricordare alcune conclusioni su quella esperienza cui è giunta la recente
storiografia. Ha scritto il Candeloro:
«Il ceto dei proprietari terrieri, nobili e borghesi, accresciutosi con gli acquirenti dei beni
nazionali (…) trasse notevoli vantaggi dall’opera di organizzazione dello Stato (…); il risanamento
del debito pubblico, la regolarità amministrativa, la liquidazione del giacobinismo, la struttura
stessa del nuovo Stato;» tutto, insomma, contribuiva ad assegnare «ai proprietari terrieri una
posizione privilegiata, che compensava largamente, per quelli di loro che erano nobili, la perdita dei
vecchi privilegi giuridici di carattere feudale»
2
.
1
«A differenza, quindi, degli altri Stati europei, lo Stato Pontificio non venne solo a trovarsi, nell’ambito della
Restaurazione, di fronte alla soluzione di un puro e semplice problema di riorganizzazione di tutto il proprio apparato
statale, ma anche, e prima di tutto, di fronte alla necessità di dimostrare la sua stessa capacità di esistenza in un mondo
così profondamente mutato (…) ». C. Semeraro, Restaurazione, Chiesa e società. La “seconda ricupera” e la rinascita
degli ordini religiosi nello Stato Pontificio (Marche e Legazioni. 1815-1823), Roma, 1982, p. 19.
2
Storia dell’Italia moderna, I, Milano, 1977, p. 316.
6
E ancora:
«La formazione di uno Stato abbastanza vasto, senza barriere doganali interne, l’unifi-
cazione delle monete, dei pesi e delle misure, la nuova legislazione civile e commerciale, le
costruzioni stradali (…) portarono senza dubbi al commercio sensibili vantaggi»
3
.
A fronte di questi aspetti positivi, di cui però beneficiarono quasi esclusivamente la
borghesia e l’aristocrazia imborghesita,stavano alcuni aspetti negativi che, anche per la breve vita
delle formazioni politiche create dai francesi, finirono per rallentare e intralciare lo sviluppo econo-
mico e il regolare svolgimento di quella vita civile che la nuova struttura statale lasciava presagire.
Questi aspetti negativi furono principalmente: gli effetti del blocco continentale, ossia la
chiusura dei porti al commercio inglese, e il peso delle spese militari imposte dalla partecipazione
forzata del Regno Italico alle guerre napoleoniche, che comportarono da una parte una continua
situazione di emergenza finanziaria, dall’altra un doloroso tributo di vite umane; la coscrizione
obbligatoria e il perenne stato di guerra sono elementi essenziali per spiegare la perdita del
consenso al regime napoleonico. D’altronde le masse popolari non avevano ottenuto dalle riforme
napoleoniche un apprezzabile miglioramento della loro condizione, né un’effettiva partecipazione
alla vita politica.
Nonostante queste gravi contraddizioni, che ne causarono il crollo, la dominazione napoleo-
nica rappresentò negli anni della Restaurazione un punto di riferimento ideale, un’esperienza
incancellabile. Era logico che la nostalgia di quel periodo fosse sentita soprattutto dalla borghesia e
da una parte della nobiltà, cioè dalle classi che si erano arricchite ed avevano partecipato
attivamente alla gestione della cosa pubblica, esprimendo i quadri del regime, gli ufficiali, i
funzionari, l’ossatura stessa dell’apparato amministrativo e burocratico.
Il ricordo di quell’epoca fu perciò un fenomeno caratteristico degli anni successivi, ed è
impossibile prescinderne se si vuole comprendere appieno l’età della Restaurazione. La persistenza
di tale ricordo agì infatti da stimolo per l’opposizione ai governi restaurati e fu alla base dell’ecce-
zionale proliferazione delle società segrete, in cui, almeno fino al 1830-31, gli ex ufficiali
napoleonici e murattiani e gli ex funzionari costituirono spesso il nucleo promotore delle cospi-
razioni e fornirono alla Carboneria i quadri dirigenti.
3
Ibidem.
7
2. Le Legazioni province di seconda recupera
Senza alcun dubbio il principale motivo dell’impopolarità del governo pontificio in
Romagna (ma anche nel resto dello Stato) furono, come abbiamo detto, le prerogative attribuite
all’elemento ecclesiastico, che, con il Motu Proprio di Pio VII del 6 luglio 1816, riottenne
solennemente quell’esclusiva gestione del potere che già deteneva da secoli.
E’ significativo il fatto che «quando ancora era incerta la sorte politica delle ex-Legazioni, i
liberali, attraverso l’opera di Antonio Aldini, tentarono di evitare la dominazione ecclesiastica,
prima chiedendo che quelle province facessero parte di un solo regno con la Lombardia e il Veneto,
magari nell’orbita austriaca; poi, diventata inevitabile la loro inclusione nello Stato Pontificio,
chiedendo che la parte transappenninica di questo Stato godesse di un’amministrazione propria con
proprie leggi, sotto un vicario del papa»
4
.
Già da questa presa di posizione anteriore alla “ricupera”, appare evidente come si fosse
formata in Emilia e in Romagna un’opinione pubblica laica e moderata, tutt’affatto aliena dal
rinunciare ai posti di responsabilità da poco acquisiti. La mancata soddisfazione dell’esigenza di
partecipare alla vita politica e amministrativa del paese spiega in gran parte il fenomeno del
distacco del ceto medio locale dal governo centrale; un distacco che andò aggravandosi col passare
degli anni, e che la cattiva gestione del potere ad opera dell’elemento ecclesiastico finì fatalmente
per approfondire. Scriveva infatti nel 1819 il cardinal Giustiniani al celebre letterato faentino
Dionigi Strocchi:
«Anche voi vi siete messo dalla parte dei nostri nemici: noi non abbiamo dalla nostra che i
minchioni; non importa, faremo con questi»
5
.
Nella pur colorita espressione del Giustiniani si coglie bene la chiara consapevolezza della
distanza ormai incolmabile fra l’intellettualità, anima della borghesia in ascesa, e i chierici unici
detentori del potere «per solo privilegio di casta»
6
.
Tuttavia, prima di inoltrarci nel vivo della narrazione, sarà meglio ricordare i principali
avvenimenti del biennio 1814-1815 relativi alle Legazioni. In conseguenza del crollo dell’Impero
Francese, si ebbe l’occupazione del territorio di Bologna, Ferrara e Ravenna da parte delle truppe
del generale Dekhardt in nome dell’imperatore d’Austria Francesco I
7
; nello stesso tempo i napole-
tani di Gioacchino Murat reggevano le Marche in attesa che le potenze europee definissero la nuova
sistemazione territoriale della penisola.
Dunque, mentre il pontefice rientrava in possesso del Lazio e dell’Umbria (le cosiddette
province di prima recupera), le regioni adriatiche dello Stato restavano affidate a due diverse
amministrazioni provvisorie. In questo periodo, estremamente ricco di avvenimenti, il destino delle
Legazioni restò incerto; il precedente rappresentato dal trattato di Tolentino del 1797, col quale Pio
VI aveva firmato la cessione delle Legazioni a Napoleone, ne metteva infatti in discussione la
restituzione all’antico sovrano. Perciò il segretario di Stato Ercole Consalvi dovette battersi per
sventare il disegno austriaco di annetterle ai territori lombardo-veneti, e solo il 5 luglio 1815 ne fu
proclamata la riunione allo Stato Pontificio. E’ certo che allora i rapporti fra la Santa Sede e la corte
di Vienna non dovettero essere rosei; si pensi, per fare un esempio, che il 24 luglio 1814 la censura
austriaca vietò la pubblicazione di un articolo del Giornale Italiano di Milano, in cui si spiegavano i
diritti della Santa Sede sulle Legazioni
8
.
4
U. Marcelli, Le vicende politiche dalla Restaurazione alle annessioni, in Storia dell’Emilia Romagna, III, Bologna,
1980, p. 69.
5
Gordiani, Della vita privata di Dionigi Strocchi, brano cit. da N. Trovanelli, Cesena dal 1796 al 1859, Cesena, 1906, p.
140.
6
L. C. Farini, Lo Stato Romano dall’anno 1815 al 1850, Firenze, 1853, I, p. 8.
7
Bologna, 9 maggio 1814. Vedi A. Comandini, L’Italia nei cento anni del sec. XIX (1801-1900) giorno per giorno
illustrata, Milano, 1900-1901, I (1801-1825), P. 718.
8
Ibid., p. 742.