umano, che può essere innescato per rendere uomini comuni osservatori partecipi di
spettacoli tanto aberranti.
La concezione umana della morte e dei suoi morti, si basa su un universo di sue
rappresentazioni numerose, quanto fragili: qualsiasi analisi in questo campo corre
sull’esile confine che separa l’universo di conoscenze e certezze all’interno del quale
l’Uomo può sopravvivere, e quel foris
2
fisico e culturale nel quale egli non potrebbe
che ricadere in una sorta di stato di natura primitivo. Ordine, confusione, morte: sono
tre concetti legati fra loro alla base di questo immenso teatro di personaggi e
metafore che, per quanto fittizio, costituisce l’unico panorama nel quale l’essere
umano, in quanto unico animale consapevole della propria fine, può sopravvivere.
Il mio studio parte dall’analisi del racconto di Franz Kafka: “Nella colonia penale”
3
,
composto nell’ottobre del 1914.
Esso si apre con l’arrivo di un visitatore straniero in un’imprecisata colonia penale,
nella quale, per mezzo di una sofisticatissima macchina progettata da un vecchio
comandante ormai scomparso, sta per essere eseguita la condanna a morte di un
soldato accusato di indisciplina e oltraggio a pubblico ufficiale. L’esecutore della
condanna è proprio un ufficiale, legato al vecchio Comandante, ideatore del
marchingegno mortale.
Da questi primi elementi, emerge già un quadro che Girard definirebbe persecutorio.
Sono presenti, infatti, tutti gli «stereotipi della persecuzione»
4
: vi è una situazione di
crisi collettiva generata dalla morte del vecchio Comandante e dalla fine dell’ordine
totalitario da lui costituito; vi è una vittima accusata di un crimine che, mancando di
rispettare quelle norme sociali le quali, almeno apparentemente, permettono di
mantenere in vita il sistema, alimenta la situazione di crisi; vi è la violenza
organizzata e legittimata di un carnefice.
La prima parte del racconto si basa sulla descrizione di un altro elemento chiave della
persecuzione: il congegno mortale.
2
cfr. Roberto ESCOBAR, Metamorfosi della paura, il Mulino, Bologna, 2003, pp.86-87
3
Franz KAFKA, Racconti, trad.di G.Schiavoni, Bur, Milano, 1991
4
René GIRARD, Il capro espiatorio, trad. di C.Leverd e F. Bovoli, Adelphi, Milano, 1999, pp.29-39
L’ufficiale incaricato dell’esecuzione, strenuo seguace dell’ordine imposto dal
vecchio Comandante, illustra minuziosamente al visitatore il funzionamento della
macchina. L’ufficiale decanta, insistentemente, l’estrema efficienza del congegno:
grazie ad esso l’esecuzione avviene, infatti, secondo un rito ben preciso. Il suo
spettacolo di morte è attentamente ponderato: deve rispondere alla necessità di
soddisfare la curiosità del pubblico essendo maestoso, affascinante, sensazionalistico,
ma ogni passo verso l’escalation della violenza, pur accattivandosi l’attenzione del
pubblico, non deve degenerare nell’orrido e nel grottesco. Può sembrare un
paradosso, ma l’esecuzione deve essere “pulita”: lo spettacolo deve orientarsi su
direttive definite, perché deve suscitare sensazioni ben precise, non vi è spazio per
l’emotività incontrollata. Il carnefice cammina sul filo del rasoio: ogni minimo
incidente, ogni goccia di sangue in più rischia di rendere il maestoso spettacolo, una
farsa mostruosa e grottesca, scaraventando la folla da uno stato di delirio paranoico
ad un’isteria collettiva irrefrenabile e dalle conseguenze devastanti. Il pathos creato
dallo spettacolo dell’esecuzione scaturisce, quindi, da questo “duettare” del boia con
la morte e con le emozioni che essa provoca su chi partecipa al rituale; questo è, però,
un gioco pericoloso che può trasformarsi in miracolosa cerimonia catartica, ma anche
distruggere quella rete di rapporti umani sulla quale si reggono la società e le
istituzioni.
Dopo l’accurata descrizione del patibolo, attraverso uno scambio di battute fra il
visitatore e l’ufficiale, emergono in modo più definito i caratteri del condannato:
questi è del tutto ignaro della pena che gli spetta e, durante il breve processo, non gli
è stata lasciata alcuna possibilità di difesa: egli è indubbiamente colpevole.
Il viaggiatore avrebbe voluto domandare chissà quante cose, ma in presenza dell’uomo
si limitò a porre la domanda: «E lui conosce la sentenza che lo riguarda?» «No», disse
l’ufficiale cercando subito di proseguire nelle sue spiegazioni; ma il viaggiatore
l’interruppe: «Lui non conosce la sentenza che lo riguarda?» «No», ripeté
l’ufficiale,[…] quindi continuò:«Sarebbe inutile fargliela conoscere, visto che dovrà
farne conoscenza sulla propria carne». […] «Ma almeno saprà di essere stato
condannato, no?». « No, neppure questo» disse l’ufficiale sorridendo al viaggiatore […]
«e dunque quest’uomo ignora ancora adesso come sia stata valutata la sua difesa? »
«Non gli è stata lasciata alcuna possibilità di difendersi», ribatté l’ufficiale guardando
altrove, come parlando fra sé e sé, come se non intendesse confondere il viaggiatore
raccontandogli quelle cose per lui tanto ovvie
5
.
Prima di essere uccisa, pertanto, la vittima viene annientata anche come personalità
giuridica: il condannato, la vittima sacrificale, il capro espiatorio ancora prima di
salire sul patibolo è già escluso, dalla vita e dalle regole della società. Solo questo
renderlo giuridicamente straniero, lo rende adatto ad essere giustiziato. Nei confronti
del condannato non vi è, dunque, alcun intento di redenzione: egli viene solamente
utilizzato per mostrare la sua colpa al pubblico presente, attraverso l’erpice della
macchina della morte che gli tatua nelle carni il crimine di cui è accusato. Il referente
dell’opera di redenzione e purificazione non è il colpevole, ma gli spettatori stessi
dell’esecuzione.
Dopo la preparazione del condannato, l’ufficiale guadagna di nuovo la scena
raccontando come si svolgevano le esecuzioni nei tempi in cui il Comandante era
ancora in vita.
Com’era diversa l’esecuzione nei tempi passati! Già un giorno prima dell’esecuzione
l’intera vallata traboccava di gente; venivano tutti, solo per vedere; la mattina presto
arriva il comandante con le signore; le fanfare svegliavano l’intero campo; io
annunciavo che tutto era pronto; e tutta la comunità (non doveva mancare alcun
funzionario) si sistemava intorno alla macchina.[…] Il lavoro della macchina non era
turbato neppure da una nota stonata[…]. Era impossibile accogliere tutte le richieste di
poter assistere allo spettacolo da vicino. Saggiamente il comandante disponeva che ci si
preoccupasse soprattutto dei bambini […], varie volte mi sono accovacciato tenendo
due bambini a destra e due a sinistra fra le mie braccia. Come spiavamo tutti
l’espressione trasfigurata su quel viso martoriato!Come protendevamo le nostre guance
verso lo splendore di quella giustizia finalmente raggiunta e già evanescente!
6
Questa l’immagine di un’esecuzione perfetta…in essa è rinchiuso il perché il
pubblico assiste a uno spettacolo tanto mostruoso, cosa vuole vedere in quel volto
martoriato dalla tortura, dal dolore, dalla consapevolezza della propria impotenza. Gli
spettatori rifacendosi alla loro più bieca umanità, fanno ciò che l’Uomo da sempre fa:
vedono una rappresentazione di una verità che non c’è, ma di cui hanno
5
KAFKA, Racconti, cit.pp.113-114
6
Ivi, p.123
assolutamente bisogno, guardano «lo splendore di quella giustizia finalmente
raggiunta e già evanescente».
Soffermiamoci, però, su un punto importante: l’ufficiale sta rimpiangendo un tempo
che, con la morte del totalitarismo del Comandante, sembra essere ormai finito.
La terza parte del racconto ci presenta la desolazione dell’ufficiale, che non riesce ad
inserirsi nell’ordine di potere instaurato dal nuovo comandante: quest’ultimo sembra
non gradire, infatti, la pratica delle esecuzioni e l’utilizzo della macchina della morte.
Oltre al tentativo di complotto del nuovo comandante, indirizzato ad eliminare
l’ufficiale, c’è, però, di peggio: il pubblico non viene più ad assistere alle esecuzioni
ed, anzi, vi sfugge inorridito. Lo spettacolo proposto dalla macchina e dall’ufficiale,
suo ultimo estimatore, non è più guardato, non può più esercitare la sua funzione e,
pertanto, non ha più motivo di esistere.
Si delinea in questo modo il passaggio da una società religiosa che, priva di una
normativa giudiziaria in grado di risolvere istituzionalmente i conflitti fra individui,
costruiva la propria rappresentazione della giustizia sull’esecuzione e sul sacrificio
umano, ad una società giuridica che ha trovato della stessa giustizia nuove e diverse
rappresentazioni.
L’ultima speranza per l’ufficiale è costituita dallo straniero in visita nella Colonia. La
sua è una funzione valutativa: è lui che, ultimo spettatore dell’esecuzione operata
dalla macchina, potrà rigenerare il vecchio ordine del Comandante, condividendo le
stesse emozioni dell’ufficiale, o, al contrario, inorridendo davanti a tale strumento di
crudeltà, sancire la definitiva distruzione dell’ordine sociale antico e aprire le porte a
quello nuovo.
Il tempo per l’ordine del vecchio comandante si è, però, definitivamente concluso:
Si sarebbe detto che l’ufficiale non fosse neanche stato ad ascoltarlo.«Dunque la
procedura non L’ha convinta» disse fra sé e sé sorridendo […] «Allora è il momento»,
disse infine
7
7
Ivi, p.130
Se l’ufficiale non è riuscito a creare nel suo ultimo spettatore quella sensazione di
isteria catartica, che lo spettacolo dell’esecuzione dovrebbe suscitare, significa che il
suo momento è finito.
Liberando il soldato condannato, l’ufficiale stesso si colloca sul patibolo e avvia la
macchina: quando il boia non può più uccidere, la sua vita, scandita da questa
rappresentazione mortifera della società e della giustizia, non ha più senso. Quello cui
il visitatore assiste non è, però, uno spettacolo di morte, ma un vero e proprio
assassinio: la macchina impazzita non rispetta più alcuna macabra formalità e, invece
di procedere nella lunga tortura della vittima, squarta in maniera straziante il corpo
dell’ufficiale. Ogni ritualità è finita, l’esecuzione non è “pulita”, il sangue schizza
ovunque, imbrattando il patibolo: il maestoso spettacolo si è trasformato in una farsa
mostruosa e grottesca, la realtà dell’esecuzione si presenta senza nessuna veste di
rappresentazione. Essa non è altro che un crudele assassinio.
In questo racconto sono, a mio parere, delineati gli aspetti salienti dello spettacolo di
ogni esecuzione: i suoi attori, i suoi esecutori, il suo pubblico, ma anche la sua
funzione, la sua fine, la sua trasformazione. Ognuno di questi aspetti verrà, pertanto,
analizzato più dettagliatamente nei prossimi capitoli.
Sebbene si sia fatta del racconto di Kafka una lettura essenzialmente politica, sarebbe
riduttivo considerarlo soltanto come la narrazione paradigmatica di un’esecuzione
all’interno di un sistema totalitario. Kafka non è un narratore politico, i suoi fini non
sono velati di ideologia. Al contrario, ci racconta di un aspetto proprio dell’esistenza
umana, ci narra di fatti universali, indipendenti da contesti storici e politici, da
epoche e da ideali. Descrivendo un semplice episodio umano, egli desidera aprire un
luogo di dibattito con il lettore, invitandolo a riflettere su alcuni meccanismi
intrinseci alla stessa capacità di sopravvivenza degli esseri umani all’interno
dell’universo di rappresentazioni da loro stessi costruito. Le domande che Kafka pone
in questo racconto sono domande riguardo alla natura dell’individuo, della sua vita,
del suo rapporto con il potere.
Il sentimento che spinge l’autore è un senso di angoscia esistenziale e non una
volontà di critica politica. La verità che Kafka ci vuole raccontare è terribilmente
umana ed universale: non si uccide solo per perpetuare un sistema politico,
ideologico o istituzionale, spesso si uccide, fisicamente o metaforicamente, per far
sopravvivere noi stessi.
CAPITOLO I
LA MORTE MESSA IN SCENA
Violenza, società e giustizia
Il racconto di Kafka ci offre un primo suggerimento sulla ragione che spinge una
folla numerosa ad assistere allo spettacolo dell’esecuzione: essa vuole «guardare la
giustizia»
8
.
Questa espressione ci spinge ad affrontare la questione in ambito giuridico - penale:
come può accadere che in una data società l’immagine della giustizia sia
rappresentata dal volto dilaniato dal dolore di un condannato a morte?
Riflettiamo prima di tutto sul concetto di giustizia: questo presuppone la riconquista
di un equilibrio sociale precedentemente infranto da un atto di violenza illegittima, un
atto che ha offeso la stessa società, mancando di rispettare una delle norme
necessariamente imposte per il mantenimento del suo ordine.
Il rapporto fra società e violenza è duplice: la violenza indirizzata nei confronti di un
obbiettivo comune è stata lo strumento di fondazione della società e il suo monopolio
è il mezzo principale che essa ha, per garantirne la sopravvivenza; il suo esplodere
incontrollato è, al contrario, la più pericolosa minaccia che la società deve affrontare.
Dal primo aspetto scaturisce il concetto di violenza legittima, dal secondo quello
negativo di violenza criminale. Ogni comunità si trova nella difficile situazione di
utilizzare la prima per limitare la seconda.
Pensiamo allo stereotipo comune dei miti di fondazione delle società antiche: la
conquista del territorio avviene mediante un atto di violenza che, spesso porta allo
scontro sanguinario con una popolazione nemica.
8
Franz KAFKA, Racconti, trad. di G.Schiavoni, Bur, Milano, 1991, cit.p.123
Così, in Virgilio, l’approdo di Enea sulle rive del Tevere si risolve in una guerra fra i
Troiani, fondatori di Roma, e gli Italici:
L’Ausonia intanto non prima eccitata e tranquilla
si turba e s’accende; di sue genti una parte
a piedi s’appresta a discendere in campo
un’altra s’aderge su alti cavalli ed infuria
pulverulenta: tutti prende la brama dell’armi:
forbiscono scudi, dardi, ferri che brillano;
affilan le scuri alle cote; ed è bello portare
con fiera allegrezza le insegne, udire le trombe
9
.
La violenza, quindi, non solo caratterizza lo stato di natura, in cui vive l’Uomo prima
di raccogliersi in comunità organizzate, ma è lo strumento di fondazione della società
stessa.
Qual è allora la differenza fra la violenza primitiva e questa violenza fondatrice e
istituzionalizzante? La violenza dello stato di natura è una violenza gratuita, senza
discriminazioni, imprevedibile: all’interno di essa l’uomo non ha sicurezze, la sua
mente non può generare rappresentazioni, la sua vita si concretizza in una continua
fuga, in una perpetua lotta per una sopravvivenza senza prospettive.
La violenza fondatrice, diversamente, è una violenza finalizzata, essa è indirizzata
contro qualcuno, orientata verso un obbiettivo.
Nella marcia guerriera contro il nemico, gli uomini perdono, infatti, il timore di
essere toccati
10
e si trasformano in una «massa densa, in cui corpo si addossa a corpo,
una massa densa anche nella sua costituzione psichica, proprio perché non si bada a
chi “ci sta addosso”»
11
. Il momento del contatto si trasforma da momento di terrore,
per l’inconscia paura di essere colpiti, a momento di sicurezza ed esaltazione:
camminando a fianco dei propri compagni, l’essere umano si sente finalmente sicuro,
protetto, ma soprattutto forte: «d’improvviso, poi, sembra che tutto accada all’interno
di un unico corpo»
12
.
9
VIRGILIO, Eneide, trad. di E. Cetrangolo, Tascabili Bompiani, Firenze, 1994
10
Elias CANETTI, Massa e potere, Adelphi, Milano, 2001, pp. 17-18
11
Ibidem
12
Ibidem
Ciò che permette la nascita di questa massa, veicolo per uscire dalla situazione
inumana dello stato di natura, è la creazione di una meta, l’individuazione di un
nemico: la sua persecuzione rappresenta la nostra salvezza, il suo sacrificio l’atto di
fondazione della nostra società. A questo proposito, Canetti
13
ci parla della muta di
caccia. Durante questa primitiva esperienza, un gruppo di cacciatori si muove
all’inseguimento della preda: l’obbiettivo è quello dell’uccisione, «raggiungere e
circondare sono le sue tecniche principali»
14
. Allo stesso modo, nella muta di guerra,
l’obbiettivo è il raggiungimento e l’abbattimento del nemico, benché questa presenti
una struttura doppia: il nemico inseguito appartiene, infatti, a un altro gruppo e, in
questo caso avremo una muta contro l’altra
15
.
L’inseguimento e l’abbattimento del nemico e il suo sacrificio fondatore
costituiscono il modello della violenza legalizzata, in quanto consentono la nascita
della comunità, non solo a livello istituzionale, ma soprattutto sul piano emotivo del
sentire comune. La violenza legalizzata crea, perciò, quella rete di rapporti umani, sul
cui equilibrio si sostengono tutte le istituzioni sociali.
Il processo di persecuzione di una vittima designata costituisce quell’escamotage
attraverso il quale ogni gruppo umano, istituzionalizzato o meno, può fuoriuscire da
una qualsiasi situazione di crisi e di pericolo: il ricordo di questa ancestrale
esperienza fa parte della memoria storica di qualsiasi comunità umana, il meccanismo
è, in qualsiasi momento, pronto a riattivarsi automaticamente.
13
Ivi,p.116
14
Ibidem
15
Ivi,p.118
Il pericolo della violenza e la soluzione sacrificale
Quale nuova crisi, potrebbe, però, colpire una società istituzionalizzata che, grazie
all’originario sacrificio fondatore, è già lontana dai pericoli dello stato di natura?
Finito il momento della «scarica»
16
, che ha portato gli uomini a mettersi in marcia gli
uni affianco agli altri all’inseguimento della meta, la massa ha due opportunità: o si
scioglie, o, attraverso il sacrificio del nemico, si chiude e si istituzionalizza. In un
primo momento
all’interno della massa domina l’eguaglianza. Essa è assoluta e indiscutibile, e non è
mai posta in questione dalla massa stessa. La sua importanza è talmente fondamentale
che lo stato della massa potrebbe essere addirittura definito uno stato di assoluta
uguaglianza
17
.
Proprio questo «stato di assoluta uguaglianza» rende la società oggetto dell’esplodere
di una nuova crisi violenta, che René Girard
18
definisce «crisi sacrificale»
19
, o anche,
«crisi mimetica»
20
. È, infatti, questo procedimento di mimetizzazione cui l’individuo
è sottoposto all’interno della massa, a scatenare una nuova escalation di violenza: una
volta chiusa, la comunità ha necessità di ricreare quegli spazi che la marcia di massa
aveva eliminato.
Così, una volta raggiunta e abbattuta la preda, i cacciatori devono spartirsene le
carni
21
secondo criteri differenziatori: il momento dell’egualitarismo assoluto è finito,
ogni uomo vuole ritrovare la propria individualità. In tal modo la comunità diviene
società: si istituzionalizza un determinato sistema di differenze. In questo nuovo
contesto il contatto fra individui torna a essere rifiutato: se nello stato di natura
primitivo, esso rappresentava il terrore dell’essere eliminato fisicamente dal corpo
con cui si entrava in contatto, nella massa istituzionalizzata questo rappresenta la
paura di essere annientato ontologicamente.
16
cfr. Ivi, pp.20-21
17
Ivi, p.35
18
René GIRARD, La violenza e il sacro, trad.di O. Fatica e E. Czekl, Adelphi, Milano, 2000, pp.77-79
19
Ibidem
20
Ibidem
21
CANETTI, Massa e potere,p.117
Riflettiamo: la paura dell’uomo nello stato di natura è generata dalla precarietà della
sua esistenza fisica, nel caos violento della giungla primitiva, egli ha paura di essere
fisicamente eliminato; nella massa chiusa non istituzionalizzata, invece, il suo
principale terrore è quello di non esistere individualmente. Il sentirsi soltanto una
parte indifferente e intercambiabile «di un corpo unico» rappresenta una condizione
psicologica che l’uomo può accettare solo nel breve periodo di tempo in cui la massa
è aizzata contro la preda; esaurito lo scopo, questa condizione diventa per lui
inconcepibile perché mette in discussione la propria esistenza. In una tale situazione,
si concretizza di nuovo l’unica sostanziale paura umana: se l’uomo non esiste come
individuo, non esiste più in assoluto, egli è morto. Se il caos dello stato di natura
rischiava di fagocitarlo con la sua violenza, il caos generato dalla mancanza di
differenze rischia di annientare banalmente la sua umanità.
Per illustrarci più chiaramente il procedimento della crisi mimetica, Girard ci parla
del conflitto che si crea fra due gemelli
In numerose società primitive i gemelli ispirano uno straordinario timore. Avviene che si
faccia perire uno dei due o, più spesso ancora, che li si sopprima entrambi. […] Tra i
gemelli, non esiste la minima differenza sul piano dell’ordine culturale, c’è talvolta una
straordinaria somiglianza sul piano fisico. Là dove viene a mancare la differenza, appare
la minaccia della violenza. […] Non c’è da stupirsi che i gemelli facciano paura: essi
evocano e sembrano annunciare il pericolo maggiore per qualunque società primitiva, la
violenza indifferenziata
22
.
A tal punto arriva il rifiuto di quella stessa uguaglianza, tanto ricercata nel momento
della marcia di massa, che addirittura viene negata l’ipotesi di accettare un episodio
di somiglianza biologica: vedere noi stessi nel corpo dell’Altro ci fa perdere
l’indispensabile consapevolezza della nostra singolarità. Per riaffermarla vi è un solo
modo: uccidere il gemello, quando egli giacerà morto e noi saremo ancora in piedi,
saremo sopravvissuti
23
, saremo di nuovo vivi nella nostra assoluta individualità e
originalità.
22
GIRARD, La violenza e il sacro, cit. pp.86-87
23
CANETTI, Massa e potere,pp.273-275