4
timore, che non riescono a comunicare, che hanno un carattere cupo e scontroso, padri la cui
autorità viene meno, ecc.), atteggiamento dei genitori (gravi conflitti coniugali, trascuratezza, madri
superprotettive e padri ostili, indifferenza, mancata identificazione col padre, ecc.). Gli psicanalisti,
invece, hanno parlato del “delinquente per senso di colpa” (Freud), di “impulso a confessare (Reik),
di reazione del delinquente al “complesso di inferiorità” (Adler), di “grado di partecipazione dell’Io
al delitto”, di carenza o incompletezza del “Superio criminale” (Alexander e Staub), di “Superio
arcaico” (Klein), di “identità negativa” (Mailloux) e di disturbi narcisistici (Meltzer, Williams,
Kohut).
Rispetto alle teorie bioantropologiche, la psicanalisi, pur ritenendo la delinquenza un fenomeno
individuale, aveva il merito di spostare l’attenzione sulla relazione tra l’individuo e l’ambiente
esterno. La criminologia, con le teorie multifattoriali, ha poi esteso la ricerca, che la psicanalisi
limitava al mondo infantile e alle relazioni familiari del bambino, prendendo in considerazione
fattori quali il vivere in aree criminogene e il disadattamento scolastico, senza dimenticare
caratteristiche individuali specifiche come l’estroversione e l’aggressività. Il funzionalismo, invece,
ha introdotto la concezione della delinquenza come “fatto sociale” sviluppando il concetto di
“anomia” e chiarendo, tra l’altro, come la devianza possa svolgere un ruolo positivo e favorevole al
progresso sociale
1
. Altri contributi per lo studio delle problematiche ambientali sono arrivati dagli
“ecologisti”, che divisero le città in cerchi concentrici scoprendo che il tasso di delinquenza
diminuiva nelle zone centrali e che le aree delinquenziali erano caratterizzate da
sovrappopolamento, deterioramento fisico delle abitazioni, vicinanza delle zone industriali, mobilità
della popolazione; e dagli autori che hanno puntato l’attenzione sulla delinquenza come risultato di
un processo di apprendimento simile a quello socialmente accettato (teoria delle “associazioni
differenziali”) o sulle norme, ruoli, modelli di comportamento tipici di alcune aree che suggeriscono
comportamenti diversi da quelli tollerati dalle leggi della comunità (“teoria delle sottoculture”).
A partire dagli anni Cinquanta, i criminologi hanno cominciato a confrontarsi con i risultati degli
studi sul numero oscuro dei reati come quello di Wallerstein e Wyle, condotto a New York, che su
un campione di 1698 persone scoprirono che il 99% degli intervistati aveva commesso almeno un
reato che comportava la pena minima di un anno di reclusione.
1
“Durkheim introdusse il concetto di delinquenza come «fatto sociale», intendendo con ciò che la
delinquenza non è un fenomeno patologico o abnorme, ma è connaturata con un particolare tipo di società,
in un determinato momento storico, ed è tale da essere considerata in qualche modo funzionale al
miglioramento e allo sviluppo della società. Socrate, per i suoi concittadini, era un delinquente, ma con il
suo modo di comportarsi promuoveva l’affermarsi di una società più avanzata e più giusta. Se esistesse un
sistema di controllo talmente forte da impedire qualsiasi forma di devianza, non sarebbero possibili
mutamenti e innovazioni di alcun genere” (Bandini T. e Gatti U., Delinquenza giovanile, analisi di un
processo di stigmatizzazione e di esclusione, terza ed., Giuffrè, Milano, 1987, p. 105).
5
Si prendeva coscienza del fatto che la scoperta del comportamento deviante è solo “il primo di una
serie di filtri che conducono un individuo ad essere etichettato, in modo sempre più deciso ed
incisivo, e che sono rappresentati soprattutto dall’intervento della polizia e della magistratura”
2
.
Solo per una minima parte dei reati realmente commessi la macchina della Giustizia si mette in
moto e solo per una parte ancora più piccola il suo cammino giunge inesorabilmente a termine. Uno
studio condotto da Ennis su 10.000 famiglie rappresentative della popolazione statunitense dimostrò
che su 2077 reati soltanto 1021 venivano denunciati alla polizia, che solo 120 giungevano in
tribunale e 26 erano puniti in modo adeguato. I risultati di queste ricerche indirizzavano sempre più
verso lo studio della reazione sociale, dei processi che definiscono la devianza e inducono i cittadini
ad attuare nei suoi confronti un rifiuto che si concretizza attraverso l’odio, il disprezzo, l’esclusione
fino ad arrivare alla condanna e all’incarcerazione.
L’intensità della reazione sociale, l’intervento della polizia o della magistratura varia, secondo
Cohen, a seconda di parametri quali la presenza o meno della vittima nel momento in cui viene
compiuto il reato, l’accordo tra vittima e offensore, il fatto che la vittima preferisca non rendere
pubblico il caso, la scarsa indignazione morale della comunità, l’appartenenza dell’atto all’ambito
del crimine organizzato, l’età, il sesso, la razza, lo status economico. La reazione sociale è più forte
nei confronti di quei gruppi di persone che, nella rappresentazione comune, assumono su di sé le
caratteristiche tipiche del delinquente. Secondo Chapman “i gruppi che detengono il potere
utilizzano il criminale come «capro espiatorio» sul quale deviare l’indignazione e la critica della
collettività, imponendo uno stereotipo del criminale connotato con elementi tipici delle classi sociali
più deprivate”
3
che possono essere facilmente attaccate a causa della loro mancanza di privacy,
della loro carenza di istruzione, del loro disinserimento sociale, della loro individuabilità tramite il
colore della pelle o comunque della loro diversità etnica o culturale. Si delinea così, per alcune
classi sociali, quella che Chapman chiama “immunità differenziale”: “L’illegalismo dei beni viene
separato da quello dei diritti. Divisione che ricopre un’opposizione di classe, poiché, da una parte
l’illegalismo più accessibile alle classi popolari sarà quello dei beni - trasferimento violento delle
proprietà; mentre dall’altro la borghesia riserverà, per sé, l’illegalismo dei diritti: la possibilità di
giocare i propri regolamenti e le proprie leggi; di far assicurare tutto un immenso settore della
circolazione economica da un gioco che si svolge ai margini della legislazione - margini previsti dai
suoi silenzi o allargati da una tolleranza di fatto.
2
Ibidem p. 13.
3
Ibidem p. 17.
6
E questa grande ridistribuzione dell’illegalismo si tradurrà in una specializzazione dei circuiti
giudiziari: per l’illegalismo dei beni - per il furto -, tribunali ordinari e castighi; per l’illegalismo di
diritti - frodi, evasioni fiscali, operazioni commerciali irregolari - giurisdizioni speciali con
transazioni, accomodamenti, ammende attenuate, ecc. La borghesia si era riservata il dominio
fecondo dell’illegalismo dei diritti”
4
.
Il focus dell’indagine criminologica, a questo punto, si era spostato sull’aspetto discriminante delle
norme che regolano la vita pubblica trasferendo “l’interesse dagli individui che commettono dei
reati, al corpo sociale e alle istituzioni che definiscono e sanciscono la delinquenza”
5
. Infatti, più
che l’atteggiamento deviante in sé, diventava importante “l’interazione tra l’individuo che mette in
atto questo comportamento e i membri della società che vengono a conoscenza di questo
comportamento, in particolar modo degli organi di controllo sociale”
6
. Con la nuova scuola di
Chicago, la criminologia adottava gli strumenti della sociologia interazionista e, di riflesso, quelli
della psicologia sociale. L’interazionismo simbolico prendeva spunto dalle idee del “sé”, dell’
“auto-interazione” e del “significato simbolico” di George Herbert Mead che, in contrasto con la
visione passiva del “sé” propria del funzionalismo, “sottolinea la capacità delle persone di dare una
forma e di dirigere la loro condotta, grazie al meccanismo di auto-interazione. La posizione di Mead
è che gli individui agiscono sul loro ambiente e, così facendo, creano gli oggetti che lo popolano”
7
.
“Mead sottolinea due fasi del «Sé». Una fase è l’ «Io», che Mead considera come la risposta non
organizzata dell’organismo agli atteggiamenti degli altri: la disposizione o l’impulso ad agire.
L’altro è il «Me», un insieme di atteggiamenti organizzati di altri, che l’individuo assume a sua
volta, ossia quelle prospettive del proprio essere che l’individuo impara dagli altri ... Il «Me» guida
il comportamento della persona socializzata, e tale aspetto del «Sé» introduce l’influenza degli altri
nella coscienza individuale”
8
. Attraverso l’ “auto-interazione” ogni individuo si rapporta “a quanto
vede, e a se stesso, in rapporto a ciò che vede”
9
dando un senso alle proprie esperienze. Si può
parlare di un Sé pienamente sviluppato “quando viene interiorizzato il concetto di altro
generalizzato, di modo che la comunità eserciti un controllo sulla condotta dei suoi membri ... La
struttura su cui si fonda il «Sé» è costituita, perciò, da questo modello di risposta che è comune a
tutti, in quanto bisogna essere membro della comunità per essere un «Sé»”
10
.
4
Foucault M., Sorvegliare e punire, Einaudi, Torino, 1976, p. 95.
5
Bandini T. e Gatti U., op. cit., p. 138.
6
Ibidem p. 138.
7
Wallace R. A. e Wolf A., La teoria sociologica contemporanea, Il Mulino, Bologna, nuova edizione,
1994, p. 268.
8
Ibidem p. 269.
9
Blumer H., “Comment on Parson as a Symbolic Interactionism”, in Social Inquiry, 45, 1975, p. 68.
10
Mead G. H., Mente, sé e società, Giunti Barbera, Firenze, 1966, p. 178.
7
Per quanto riguarda il significato simbolico, Mead lo definisce come “lo stimolo la cui risposta è già
data in precedenza”
11
: il simbolo è l’interiorizzazione di un gesto e il gesto è l’inizio di un’azione,
ma anche un segno che rappresenta l’intero atto ed è per questo che i simboli, in quanto gesti
interiorizzati, finiscono per avere lo stesso significato per tutti i membri di una società.
Per esempio, “quando un fumatore fa per prendere un pacchetto di sigarette, quel gesto può essere
sufficiente per spingere un non-fumatore a uscire dalla stanza, ad aprire le finestre, a chiedere che si
proibisca di fumare, o ad assumere altri tipi di comportamento per impedire il seguito dell’azione
che già conosce ... In tale situazione il gesto, la prima componente dell’atto, può essere sufficiente
al non-fumatore, che non deve così aspettare il resto dell’azione ... Allungarsi a prendere un
pacchetto di sigarette non è, dunque, solo un gesto, esso diventa un simbolo significante, in quanto
richiama nel non fumatore il significato dell’intero atto e segnala l’inizio di un suo processo di
aggiustamento alla situazione”
12
. Le premesse di base dell’interazionismo simbolico sono state
definite dall’allievo di Mead, Herbert Blumer: 1) Gli esseri umani agiscono nei confronti delle cose
in base ai significati che esse possiedono per loro 2) il significato delle cose emerge dall’interazione
sociale di un individuo col proprio compagno 3) i significati delle cose vengono manovrati e
modificati attraverso un processo interpretativo utilizzato dalle persone nell’affrontare le cose in cui
si imbattono. Si può dire che gli elementi-chiave dell’ambiente “sono rappresentati dai simboli e
dalle conoscenze che guidano gli individui”
13
e che “questo set di simboli e conoscenze condivise è
quello che rende a sua volta simbolico l’ambiente sociale”
14
. Come rilevava Alfred Shutz, quella
che noi chiamiamo realtà non è altro che una costruzione sociale, un “mondo dato per ovvio” che
orienta le nostre azioni senza che ci rendiamo conto di essere guidati solo da una rappresentazione a
cui noi attribuiamo un valore oggettivo.
Per l’interazionismo la devianza è un fenomeno che, parafrasando Foucault, esiste solo nella società
e non al di fuori delle forme di sensibilità che la isolano o delle forme di repulsione che la espellono
o la catturano
15
, è un prodotto dei rapporti sociali e non una realtà biologica indipendente. Da qui la
necessità di approfondire lo sviluppo della carriera criminale. Becker evidenziava tre tappe: 1) il
momento in cui si vìola una certa norma 2) l’esperienza che “il soggetto che ha compiuto un atto
deviante deve subire una volta arrestato o considerato pubblicamente deviante ... non è tanto il suo
comportamento che assume importanza, quanto piuttosto quello di coloro con i quali in qualche
modo egli entra in relazione”
16
3) il “momento in cui il soggetto, in assenza di altre possibilità, entra
11
Wallace R. A. e Wolf A., op. cit., p. 275.
12
Ibidem pp. 274-275.
13
Ibidem p. 262.
14
Ibidem p. 262.
15
Foucault M., La folie n’existe que dans une société, intervista, Le Monde, 5135, 22 luglio 1961, p. 9.
16
Bandini T. e Gatti U., op. cit., p. 144.
8
a far parte di un gruppo deviante organizzato, o accetta il fatto di esserne già parte”
17
, e fa propria la
rappresentazione che gli altri hanno di lui. “Tale impostazione ha messo in rilievo che non solo le
interazioni con il mondo deviante, ma anche i rapporti che il soggetto ha con coloro che si
conformano alla legge, il comportamento e gli atteggiamenti della società in generale, giocano un
ruolo essenziale nella genesi del comportamento deviante e soprattutto nella sua ulteriore
evoluzione, che si concretizza in una carriera criminale, vale a dire in un comportamento criminale
che viene sistematizzato, e cioè assunto come modello di vita”
18
. Si cominciavano a considerare,
infatti, “i vari tipi di comportamento deviante non come atti isolati, ma come segnali rilevatori di un
unico processo psicosociale, del quale bisogna cogliere le caratteristiche evolutive”
19
. Si scopriva
che soltanto una minima parte dei ragazzi che commettono crimini continua a farlo in età adulta e,
poiché alcuni atteggiamenti devianti possono essere considerati come parte integrante dello
sviluppo dell’adolescente, diventava interessante scoprire il perché un certo atteggiamento viene
assunto definitivamente come parte del sé e dà il via alla carriera criminale di un individuo. La
ricerca mostrava che i reati contro la proprietà caratterizzano sempre più le carriere criminali in
relazione all’età del delinquente a dimostrazione del fatto che, se alle origini della carriera criminale
l’atto deviante assume diversi significati e può essere la manifestazione del normale processo di
crescita, nel delinquente adulto diventa fonte di reddito. “L’evoluzione della carriera criminale
verso reati contro il patrimonio sembra più il frutto di una impossibilità di inserimento sociale, che
di una serie di incentivi verso tale tipo di attività deviante”
20
. Ad un certo punto della sua vita il
giovane delinquente si trova emarginato, escluso dal mondo produttivo, etichettato come criminale,
demotivato e immancabilmente assume su di sé le stigmate della reiezione e cerca nel mondo della
delinquenza l’accettazione sociale che non gli viene riconosciuta altrove. “Quell’attimo del
risveglio: il bambino sonnambulo apre gli occhi e si accorge di star rubando. Gli viene rilevato
ch’egli è un ladro e si dichiara colpevole, schiacciato da un sofisma che non può negare: ha rubato,
dunque è un ladro: c’è nulla di più evidente? Stupefatto, Genet considera la propria azione, la rigira
da tutte le parti: non c’è dubbio: è un furto. E il furto è un delitto, è un crimine. Quel che egli voleva
era rubare; quel che faceva era un furto: ciò che egli era: un ladro. Una voce timida continua a
protestare dentro di lui: non riconosce la propria intenzione. Ma ben presto quella voce
ammutolisce: l’atto è talmente luminoso, così nettamente definito che non ci si può ingannare sulla
sua natura. Egli tenta di tornare indietro, di comprendersi: ma è troppo tardi, non si ritrova più.
17
Ibidem p. 144.
18
Ibidem p. 146.
19
Ibidem p. 269.
20
Ibidem p. 272.
9
Questo presente di evidenza così abbagliante conferisce il suo significato al passato: Genet si
ricorda ora di aver cinicamente deciso di rubare. Che cosa è successo? Quasi nulla in definitiva:
un’azione incominciata senza riflettere, concepita e condotta nella intimità segreta e silenziosa in
cui egli spesso si rifugia, in quel momento è diventata obiettiva. Genet viene a sapere ciò che egli
obiettivamente è. E’ codesto passaggio che deciderà della sua vita”
21
. Oramai in pasto alla reazione
sociale, a Genet non rimane altro, per affermare la propria libertà, che costruire una teologia
negativa e diventare lui stesso, l’escluso dalla società dei buoni, il santo del mondo dei cattivi, sua
santità della perversione.
L’apice del processo di esclusione di cui abbiamo tracciato il profilo è l’esperienza del carcere. La
scoperta del reato, l’arresto, l’incontro-scontro con la macchina della Giustizia sono i primi passi
verso l’etichettamento. Il carcere ne sancisce la perentorietà: l’ex detenuto, colui che riemerge dal
mondo degli inferi, è ormai l’intoccabile, il rappresentante di una casta che, forse a causa del suo
patrimonio genetico o delle sue alterazioni neurofisiologiche, non potrà mai redimersi e
abbandonare la sua naturale inclinazione al crimine. Ma il destino del detenuto non irrompe nella
storia inaspettato, d’un tratto: è stato lentamente costruito fin dall’infanzia, da meccanismi di un
potere anonimo, onnipresente e invisibile di cui il carcere è solo la punta dell’iceberg. Per Foucault,
“questa grande trama carceraria raggiunge tutti i dispositivi disciplinari che funzionano disseminati
nella società”
22
, esiste una “continuità delle istituzioni che rinviano le une alle altre (dall’assistenza
all’orfanotrofio, alla casa di correzione, al penitenziario, al battaglione di disciplina, alla prigione;
dalla scuola alla società di patronato ... ). Continuità dei criteri e dei meccanismi punitivi che a
partire dalla semplice deviazione appesantiscono progressivamente la regola e aggravano la
sanzione”
23
. “Il delinquente è un prodotto dell’istituzione. Inutile, di conseguenza, meravigliarsi
che, in proporzione considerevole, la biografia dei condannati passi per tutti quei meccanismi e
quelle istituzioni di cui si finge di credere che fossero destinati ad evitare la prigione”
24
. Si scopre
“che non è il crimine a rendere estranei alla società, ma che il crimine stesso è dovuto piuttosto al
fatto che si è nella società come estranei, che si appartiene a quella «razza imbastardita» di cui
parlava Target, a quella «classe degradata dalla miseria, i cui vizi si oppongono come un ostacolo
invincibile alle generose intenzioni che vogliono combatterla»”
25
. Ma c’è di più: il carcere esprime
al meglio quell’arte della disciplina di cui Foucault ha fatto la storia, disciplina che si occupa della
“ripartizione degli individui nello spazio”
26
, di “evitare le distribuzioni a gruppi; scomporre le
21
Sartre J. P., Santo Genet commediante e martire, Il Saggiatore, Milano, 1972, pp. 18-19.
22
Foucault, Sorvegliare e punire, op. cit., p. 330.
23
Ibidem pp. 330-331.
24
Ibidem p. 333.
25
Ibidem p. 303.
26
Ibidem p. 154.
10
strutture collettive”
27
; disciplina in cui ognuno “viene definito dal posto che occupa in una serie e
per lo scarto che lo separa dagli altri”
28
perché “la prima fra le grandi operazioni della disciplina è
dunque la costituzione di «quadri viventi» che trasformano le moltitudini confuse, inutili o
pericolose in molteplicità ordinate”
29
. Disciplina che si impadronisce del tempo, che “diviene
sempre più stretto”
30
, per “stabilire delle scansioni, costringere a determinate operazioni, regolare il
ciclo di ripetizione”
31
, tempo che non “deve rimanere ozioso o inutile”
32
: “più si scompone il
tempo, più si moltiplicano le sue suddivisioni, meglio lo si disarticola dispiegando i suoi elementi
interni sotto uno sguardo che li controlla”
33
. “La disciplina definisce uno per uno i rapporti che il
corpo deve mantenere con l’oggetto che manipola”
34
e “un tale mondo di oggetti estranei all’uomo
disegna uno spazio dell’alienazione, le cui coordinate non parlano più al soggetto il linguaggio della
familiarità, ma quello dell’estraneità”
35
così l’individuo, incapace di donare un senso al mondo,
perde l’universo polisemico dei significati instaurando con gli oggetti un “rapporto di
segnalizzazione”
36
dove non si tratta di “comprendere l’ingiunzione, ma di percepire il segnale, di
reagirvi subito secondo un codice più o meno artificiale stabilito in precedenza. Porre il corpo in un
piccolo mondo di segnali, a ciascuno dei quali è legata una risposta obbligata e una sola: tecnica di
addestramento che «esclude dispoticamente e completamente la minima rappresentazione, e il più
piccolo mormorio»; il soldato disciplinato «comincia ad obbedire qualsiasi cosa gli si comandi, la
sua obbedienza è cieca»”
37
.
Passati da una concezione antropologica del delinquente originariamente marchiato da indiscutibili
segni di un ritardo evolutivo all’idea del delinquente come risultato di un processo di emarginazione
e stigmatizzazione, di una devianza sempre meno espressione di una patologia e sempre più
costruzione sociale, costruzione che vede nel carcere e nei suoi meccanismi di disciplina la propria
apoteosi; ci si avvia ormai verso una nuova sensibilità, verso quel monito lanciato dai criminologi
naturalisti per i quali è insufficiente considerare la persona che delinque come soggetto passivo,
vittima in qualche modo del processo di stigmatizzazione. Infatti, è necessario “tener presenti da un
lato l’intenzionalità del soggetto, che è capace di modificare la realtà e di dare un significato alle
azioni, dall’altro lato la forza del potere, che, attraverso differenti meccanismi, utilizza la devianza
27
Ibidem p. 155.
28
Ibidem p. 158.
29
Ibidem p. 161.
30
Ibidem p. 163.
31
Ibidem p. 163.
32
Ibidem p. 166.
33
Ibidem p. 168.
34
Ibidem p. 166.
35
Mantegazza R., Teoria critica della formazione. Espropriazione dell’individuo e pedagogia della
resistenza, Unicopli, Milano, 1995, p. 89.
36
Foucault M., Sorvegliare e punire, op. cit., p. 181.
37
Ibidem pp. 181-182.
11
in un disegno che trascende i singoli uomini e le singole azioni”
38
; così come è necessario “un
impegno costante nella rivalutazione del soggetto deviante, in quanto «senza rivalutazione e senza
empatia possiamo cogliere i fatti superficiali relativi a un fenomeno e criticare le attività ad esso
connesse, ma non riusciamo a comprendere il profondo significato che esso ha per i soggetti che vi
sono implicati, né il suo posto nella società più ampia» (Matza)”
39
. In campo psichiatrico, per
esempio, ci si rivolge verso l’esperienza esistenziale del paziente, si propongono interpretazioni
alternative a quelle classiche come avviene per quella dimostrazione in aula di Kraepelin che nel
1905
40
sentenziava: “Nonostante sia fuor dubbio che il paziente comprende tutte le domande che gli
sono rivolte, egli non ci ha fornito una sola informazione utile. I suoi discorsi sono... soltanto una
serie di frasi sconnesse, che non hanno alcun rapporto con la situazione in generale”; “sentenza”
così reinterpretata da Laing: “Si possono osservare nel suo comportamento i «segni» di una
«malattia»; e si può considerare il suo comportamento come l’espressione della sua esistenza. La
costruzione fenomenologico-esistenziale è un’inferenza sul modo con cui l’altro sente e agisce.
Come è sentito Kraepelin dal paziente? Questo ragazzo pare tormentato e disperato. Che cosa
«vuole» parlando e agendo in questo modo? Protesta perché lo misurano e lo visitano. Protesta
perché vorrebbe, invece, che lo ascoltassero”
41
. Non è un caso se proprio l’antipsichiatria, che
raccoglie, tra l’altro, l’influenza dell’interazionismo simbolico e del pensiero di Michel Foucault,
pone il problema delle istituzioni totali, della spersonalizzazione e della spoliazione del sé che
l’internamento comporta e conduce, alla fine degli anni Sessanta, alla consapevolezza del fallimento
del sistema rieducativo. Tra l’altro, “rieducazione” “è concetto senza senso in ambito minorile,
posto che esso fa riferimento alla modifica di modelli comportamentali già acquisiti mentre il
minore è - per definizione - in fase di formazione e di apprendimento; non ha modelli
comportamentali acquisiti, ma li sta acquisendo; non ha bisogno di rivedere la sua personalità, ma
di strutturarla; non deve essere rieducato, ma educato tout court”
42
.
Negli anni Trenta, in Italia, al momento dell’istituzione del tribunale per minorenni, “l’idea per
affrontare il disagio e la devianza degli adolescenti era, senza incertezze e temperamenti, la
coazione”
43
sia in ambito penale che in ambito amministrativo dove si tendeva a realizzare una
“educazione coatta” sulla base della concezione della devianza come “categoria morale” curabile
con “i buoni insegnamenti” in un “ambiente sano”.
38
Bandini T. e Gatti U., op. cit., p. 162.
39
Ibidem pp. 156-157.
40
Kraepelin E., Lectures on Clinical Psychiatry, Ballière, Tindall & Cox, London cit. in Laing R. D., L’io
diviso, Einaudi, Torino, 1969, p. 36.
41
Laing R. D., op. cit., p. 37.
42
Pepino L., “Educazione e punizione negli interventi sulla devianza minorile”, in I minori e il carcere, a
cura di P. Pazè, Unicopli, Milano, 1989, p. 69.
43
Ibidem p. 66.
12
Dopo la Seconda Guerra Mondiale, si passa ad una concezione che prevede per il “malato di
devianza” “appropriate strutture sanitarie (gabinetti e istituti psico-medico-sociali) che lo curino e
lo restituiscano alla società risanato. Compatibili con questa concezione - come con la precedente -
sono l’istituzione separata e la coazione: chi non si vuole curare (ancora una volta «il riottoso») può
- o meglio deve - esserlo facendo ad esse ricorso. Queste logiche hanno guidato per anni gli
interventi «amministrativi» (e riempito per decenni le case di rieducazione con adolescenti
colpevoli di «irregolarità di condotta») sul presupposto della incompatibilità concettuale e pratica
fra coazione e educazione”
44
. Alla fine degli anni Sessanta questa impostazione culturale entra in
crisi e, sulla scia della considerazione della devianza come “malattia sociale”, “superabile solo con
l’inserimento del “deviante” in una rete di rapporti sociali diversi da quelli che hanno determinato il
suo disagio”
45
, prende piede un’idea dell’intervento istituzionale che passa “dalla coazione alla
ricerca del consenso, essendo di tutta evidenza che la partecipazione a progetti e iniziative siffatti
non può essere imposta ma solo offerta («guadagnata» con la serietà e la «appetibilità» della
proposta)”
46
e si afferma la “distinzione netta tra il piano educativo (fondato sul consenso) e il piano
punitivo-sanzionatorio (inevitabilmente improntato alla coazione)”
47
. “Non si nega, certo, che
l’intervento punitivo possa produrre effetti sull’iter educativo in atto, né che le modalità della
punizione debbano tener conto delle esigenze educative, ma non per questo è lecito confondere
educazione e punizione, consenso e coazione”
48
.
Ormai si sa che “un sistema penale fortemente orientato verso il trattamento dei delinquenti è
radicalmente ingiusto e discriminante, in quanto mette in atto, nei confronti delle persone che hanno
commesso reati, misure che non rispondono in alcun modo a giustizia e oggettività, ma risentono di
valutazioni soggettive.
La maggior parte dei programmi di trattamento, infatti, comporta una notevole discrezionalità, e
rischia, quindi, di far aumentare l’ingiustizia del sistema”
49
. Si sottolinea sempre più “la sostanziale
ambiguità degli interventi finalizzati al trattamento, e quindi all’aiuto, al sostegno,
all’emancipazione delle persone all’interno di un sistema penale che ha un obiettivo
sostanzialmente punitivo o repressivo (Antilla, Kittrie ed altri)”
50
.
44
Ibidem p. 67.
45
Ibidem p. 67.
46
Ibidem p. 67.
47
Ibidem p. 69.
48
Ibidem p. 70.
49
Bandini T. e Gatti U., op. cit., pp. 459-560.
50
Ibidem p. 460.
13
In particolare, per quanto riguarda i minori, si riscontra che “in genere tutti i ragazzi affidati a questi
istituti hanno dei disturbi della personalità, una certa quota di essi e soprattutto i più vivaci, i più
critici, i più desiderosi di affetto, quelli cioè che sono più scomodi per l’istituzione, finiscono per
trovarsi in situazioni che li portano ad essere espulsi dal collegio, stigmatizzati come cattivi e
insofferenti, costretti in vari tipi di comportamenti devianti, che spesso li fanno incorrere in una
reazione sociale punitiva”
51
. Se ne conclude che “le caratteristiche delle istituzioni totali contrastano
nettamente con i bisogni degli adolescenti, configurando un ambiente del tutto inadeguato al loro
sviluppo”
52
“perché il deviante è spesso un soggetto in difficoltà e alla ricerca di una identità e di un
ruolo e la sua segregazione con altri egualmente etichettati può comportare una spinta addizionale al
delitto, pensandosi il soggetto come delinquente e organizzando il suo comportamento in
conformità; perché la segregazione del condannato dalla società non rimuove le cause che stanno
all’origine del comportamento, con la conseguenza che, a pena espiata, il nuovo impatto con la vita
sociale riproduce, spesso in modo aggravato, la situazione di conflitto preesistente”
53
.
In questo clima culturale accanto a una linea di rigetto radicale del carcere minorile che trae le
proprie ragioni “dalla critica alla prigionia dei ragazzi, dallo stato di fatiscenza, di degrado e di
abbandono delle strutture e dell’aberrante livello di incapacità e di abbrutimento degli operatori”
54
,
dal fatto che, in questo ambiente, “il giovane può trovare solo stimoli e condizionamenti negativi,
alimentati, nella loro portata, dalla necessità, per sopravvivere, di stringere o subire l’alleanza con i
compagni”
55
, si è sviluppata un’altra corrente di pensiero rivolta non tanto al rifiuto di questa
struttura, quanto alla ricerca di una sua trasformazione: “l’idea rieducativa di fondo è quella di
mettere insieme una realtà di internato (costretto e coatto) con un’ipotesi di azione trasformatrice
della personalità in fase di crescita adolescenziale. C’è, ancora, in questo ideale, forse, un pizzico di
vecchie concezioni correzionali, ma ora la scommessa è tutta scientifica ed è fondata sullo sviluppo
delle tecniche relazionali. Non è più la durezza dell’esperienza carceraria a dover temprare (o
ritemprare) l’animo e lo spirito dei ragazzi, bensì un nuovo tipo di rapporto con l’adulto - esperto
della relazione - a dover dare al giovane una diversa capacità di misurare se stesso in rapporto agli
altri”
56
. Si viene recuperando, in questa fase del dibattito sul carcere, quella distinzione, propria
della letteratura sociologica, tra il carcere come istituzione punitiva e custodialistica (punitive-
custodial organization) e il carcere trattamentale (treatment prison).
51
Ibidem p. 463.
52
Ibidem p. 464.
53
Moro A. C., “Il ruolo dei servizi per il carcere minorile”, in I minori e il carcere, op. cit., p. 205.
54
Scatolero D., “Il carcere negato. Considerazioni sulla decarcerizzazione in ambito minorile”, in I minori
e il carcere, op. cit., p. 110.
55
Ibidem p. 108.
56
Ibidem p. 109.
14
L’istituzione punitiva attua una netta separazione tra il personale di custodia, la direzione e i
detenuti; il personale di trattamento ricopre una posizione marginale e non gode di autonomia
rispetto alla direzione; le comunicazioni tra lo staff e i detenuti sono estremamente formali e
limitate a ordini e comandi; le attività svolte dai prigionieri sono subordinate al fine punitivo che il
carcere si prefigge; gli agenti sono organizzati secondo una struttura di tipo militare per cui tutto ciò
che non corrisponde al regolamento viene escluso dalla vita carceraria; la contrapposizione tra
custodi e detenuti dà luogo all’inevitabile formazione di un sistema dei prigionieri che, non potendo
comunicare verso l’alto, creano un sistema interno che è altrettanto esclusivo ed impenetrabile,
dando vita a “leaders” informali e a una sottocultura i cui valori si contrappongono nettamente a
quelli degli agenti e, in genere, a quelli del mondo esterno. L’organizzazione trattamentale, invece,
vede la contrapposizione agenti-detenuti mediata da una forte presenza del personale di trattamento
(medici, psicologi, educatori) che si fanno interpreti delle esigenze dei reclusi; la comunicazione
perde il suo carattere formale per assumere i toni di un’interazione molto più vicina a quella
medico-paziente; la presenza di uno staff professionale migliora notevolmente i rapporti con il
mondo esterno rompendo l’isolamento tipico di ogni struttura chiusa.
In questa direzione si è mossa la riforma penitenziaria del ‘75, che rovescia “la tradizionale
impostazione del carcere come istituzione segregante ed emarginante”
57
e lascia “ampio spazio ai
contatti con la società libera, considerati quali elementi del trattamento e della rieducazione del
condannato”
58
pur non riuscendo a centrare gli obiettivi che si proponeva: “un numero di operatori
penitenziari (assistenti sociali, educatori, psicologi, criminologi) idoneo a svolgere le attività di
osservazione della personalità di ciascun detenuto e poi ad attuare i relativi programmi di
adattamento; una popolazione carceraria non superiore alle 15-20.000 unità, cioè tale da consentire
un rapporto ottimale tra le esigenze del trattamento e le strutture dell’edilizia penitenziaria”
59
. In
termini generali va sottolineato come la legge del ‘75 “non dia alcun contributo allo scioglimento
del nodo relativo alla compatibilità fra azione rieducativa e situazione di reclusione su cui si era
bloccato il dibattito sul carcere diverso. La riforma, infatti, da un lato cerca di sfuggire alle insidie
dell’ambiguità rieducativa proponendo un modello di trattamento tutto fondato sui più «normali»
strumenti di socializzazione (lavoro, istruzione, tempo libero, e religione). Dall’altro lato, però, essa
subordina l’applicazione di tale modello all’ «osservazione scientifica della personalità» e indica
nella «individualizzazione» della risposta (caso per caso) il metodo-non metodo da seguire nella
attuazione degli interventi risocializzativi.
57
Modona G. N., “Crisi del carcere e incertezza della pena”, in Stato dell’Italia, a cura di Ginsborg P., Il
Saggiatore-Bruno Mondadori, 1994, p. 530.
58
Ibidem p. 530.
59
Ibidem p. 530.
15
I due criteri paiono di chiara origine clinica e non costituiscono, certo, la strumentazione più
adeguata per la messa in atto di un’azione trattamentale di tipo sociale così come definita dagli
obiettivi”.
60
Nonostante la riforma non riguardi direttamente il carcere per minorenni, introduce,
comunque, alcune “novità che, una volta scese a contatto con la realtà minorile, funzionano - forse
loro malgrado - come importanti stimoli sulla via della «negazione» del carcere”
61
. In particolare,
introduce elementi, come le misure alternative e la partecipazione degli enti locali all’esecuzione
della pena, che, maggiormente sviluppate con l’introduzione del nuovo codice di procedura penale
minorile nel 1988, permettono al castigo di “ritornare ad essere quello che è giusto che sia e cioè un
elemento del processo educativo e non un’alternativa o una negazione dello stesso. Dunque nei
confronti del giovane violatore della norma ci si può esprimere con chiarezza di messaggi e di
segnali, offrendogli sia la risposta «attesa» (quella sanzionatoria) sia quella «inattesa» (interesse-
soluzione dei suoi problemi), collocate, ognuna, sul piano che più le compete (giudiziario o
socioassistenziale)”
62
.
Adesso, dopo vari cambiamenti d’umore, si può “entrare in prigione non per «trattare» dei
delinquenti, ma per occuparsi di giovani cittadini in difficoltà; muoversi dentro le mura carcerarie
non solo per alleggerire sofferenze e fatiche, ma per costruire progetti per il «dopo», per l’uscita;
portare accanto ai ragazzi detenuti non i soliti addetti ai lavori, ma gruppi di cittadini mossi da una
ritrovata tensione solidale; trasformare l’esperienza via via vissuta in messaggio culturale di non-
rifiuto e di comprensione da estendere sull’intero territorio cittadino”
63
. Anche se, come faceva
notare qualche anno fa Duccio Scatolero, “pochi, molto pochi, hanno mantenuto gli impegni presi,
molti, troppi, hanno mancato alle promesse, tutti han dovuto fare i conti con il peso totalizzante del
carcere e misurare la loro spontanea improvvisazione con la capacità della struttura chiusa -
storicamente fondata - di «ingoiare» e di istituzionalizzare qualsiasi messaggio e di volgarizzare
qualsiasi figura retorica”
64
. Nonostante tutto, “questo cammino non può essere certo considerato
fallimentare: chi si è mosso con lucida coscienza dei propri passi e con la convinzione di chi voleva
arrivare fino in fondo ha potuto verificare l’enorme portata dell’esperienza realizzata. Non c’è
strategia più pagante, per la realizzazione di una politica di «negazione del carcere», che quella di
far toccare con mano a chi «sta fuori» tutte le contraddizioni e le ambiguità della struttura totale.
60
Scatolero D., op. cit., p. 111.
61
Ibidem p. 111.
62
Ibidem p. 112.
63
Ibidem p. 115.
64
Ibidem p. 115.
16
Ciò che è più difficile fare - e settori come quello psichiatrico ne san qualcosa! - è trasformare
questa consapevolezza in impegno comunitario teso a creare una rete di solidarietà capace di
assorbire chi si ritrova, libero, sì, dai lacci istituzionali, ma lasciato solo a gestire autonomie a volte
soffocanti e angoscianti”
65
.
65
Ibidem p. 116.