Lavorare, inizialmente come educatrice e poi come psicologa, nella
comunità Redancia 1 fu il mio primo lavoro ed è tuttora una, anche se
non l'unica, delle mie occupazioni.
A Redancia 1 sono cresciuta, sul piano personale e su quello
professionale, sino a diventarne coordinatrice ed essere inserita nel
gruppo dirigenziale.
Per quanto gratificanti i cambiamenti del mio ruolo in comunità mi
portarono a dover spesso e con dispiacere rinunciare a ciò che per me era
stato tante volte fonte di emozioni, risate, riflessioni: il contatto con i
pazienti. Le incombenze organizzative mi impedivano di stare con loro,
per quanto difendessi con i denti il mio spazio clinico non era comunque
la stessa cosa. Mi mancava il tempo di “guardarli”, di parlare con loro
nella quotidianità, di ascoltarli fuori dalle quattro pareti del mio studio.
Avevo anche voglia di fare con queste persone qualcosa di nuovo,
perché essere l'operatore di comunità può diventare ripetitivo e allora
tutto annoia, il pensiero si blocca, la creatività si addormenta.
L'esigenza di effettuare un tirocinio all'inizio del secondo anno della
Scuola di Formazione in DMT Gestalt mi diede l'occasione per
recuperare quello spazio che mi era venuto a mancare.
Aggiornai il direttore sanitario del gruppo Redancia sulle nuove
competenze che stavo acquisendo, chiedendo di poterle utilizzare con
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quel tipo di utenza che tanto mi aveva sino ad allora affascinato. Chiesi,
quindi, di poter effettuare il tirocinio previsto dalla scuola che stavo
frequentando in una delle strutture del gruppo.
Iniziai un gruppo di espressione corporea in una comunità diversa da
quella dove lavoravo io, ma strutturata sullo stesso modello e con una
tipologia di utenza che conoscevo, completamente “rinnovata” nel mio
ruolo.
Potevo trascorrere la mia ora settimanale con i pazienti perché
giustificata dalla ricerca della mia nuova identità di danzaterapeuta. Ero,
inoltre, in grado ora di “osservare” munita di strumenti nuovi che la
formazione mi forniva e la supervisione mi affinava.
Le pagine che seguono sono il resoconto di questa esperienza che ho
cercato di raccontare includendo tutti i vissuti che la hanno
caratterizzata, talvolta difficili da tradurre in parole, tutte le paure, le
delusioni, le gioie che erano e talvolta sono ancora mie compagne fedeli
di viaggio nel tragitto automobilistico da casa mia alla comunità e
viceversa.
Cercherò, inoltre, di raccontare cosa mi ha insegnato questa esperienza,
come ha cambiato il mio modo di vedere non solo il mondo dei pazienti
psichiatrici ma anche quello “oltre il cancello”. Ho sempre ritenuto,
infatti, una grossa opportunità il poter lavorare con le persone. E'
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fondamentalmente la curiosità che mi spinge a continuare questo lavoro
e la consapevolezza di poter essere ogni giorno arricchita dall'incontro
con l'altro, “sano” o malato che sia.
Ciò che gli altri ti offrono e tu decidi di accogliere non rimane nello
spazio di cura dove lavori ma diventa parte di te e chiudendo la porta che
ti separa dalla normale quotidianità ti accompagna nel percorso della
vita.
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Parte prima
PATOLOGIA PSICHIATRICA E
DANZAMOVIMENTOTERAPIA GESTALT
Connessioni teorico-metodologiche
Ad intervalli ritmici,
il giorno segue la notte, la notte il giorno;
le maree si alzano e si abbassano.
Primavera, estate, autunno e inverno
vanno e vengono.
Soli, lune e stelle orbitano in cadenze eterne.
Nascita e morte compongono gli schemi ritmici
della storia dell’uomo;
respiro e battito cardiaco
sono gli elementi metrici della nostra vita.
Il nostro linguaggio è ritmo.
Il ritmo è il nostro lavoro,
il nostro gioco,
la nostra canzone e la nostra danza. (T. Schoop)
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Capitolo 1
LA COMUNITA' TERAPEUTICA PSICHIATRICA E IL
GRUPPO REDANCIA
Desidero in questo capitolo raccontare cosa sia e come funzioni una
comunità per pazienti psichiatrici adulti come quella in cui ho svolto
l'esperienza di tirocinio che andrò ad illustrare nella seconda parte. Dal
momento che il significato di questo tipo di struttura è strettamente
legato alle vicissitudini che hanno interessato il mondo della psichiatria
negli ultimi trenta anni, farò brevemente cenno a questi avvenimenti.
Passerò poi a spiegare in cosa consista il “Progetto Redancia” e le sue
linee guida, sino a addentrarmi nello specifico della descrizione di una
delle comunità del gruppo, esattamente quella in cui nel febbraio 2006
aveva inizio il mio gruppo di Espressione corporea con elementi di DMT
Gestalt.
1.1 La Legge 180 e la nascita delle strutture intermedie
La storia della psichiatria italiana subì una svolta decisiva nel 1978, anno
in cui Franco Basaglia portò in parlamento una legge finalizzata a
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regolare il ricovero coatto in psichiatria. Tale legge vietava le nuove
ammissioni in manicomio e sanciva il divieto della ulteriore costruzione
degli ospedali psichiatrici.
L’innovazione portata dalla legge si può individuare in due livelli:
- l’omologazione del paziente psichiatrico ai malati con altre patologie;
- il superamento dell’ospedale psichiatrico come luogo centrale di cura e
lo spostamento sul territorio del fulcro dell’assistenza psichiatrica.
Tuttavia l’entusiasmo che si accompagnava ad una nuova concezione di
assistenza psichiatrica, non più custodialistica e segregativa del malato
mentale ma tendente al recupero e all’integrazione sociale del paziente,
sosteneva fermenti innovativi che si muovevano più sul terreno
ideologico che su quello metodologico e ancora meno su quello
pragmatico. Furono necessari diversi anni perché divenisse reale
l’esistenza di una rete di servizi, presidi e strutture che si rendevano
indispensabili per colmare la distanza tra i bisogni dell’utenza da un lato,
i Servizi di Diagnosi e Cura e i Centri ambulatoriali dall’altro, uniche
strutture operanti all’indomani della 180.
Fu successivo alla legge il comprendere che tra l’ospedale e “la casa”
fosse necessario qualcosa di “intermedio”. Ci si dovette interrogare ben
presto sul come accompagnare i pazienti ad un rientro nella società, dove
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ospitarli quando non in grado di gestirsi autonomamente, come dare loro
supporto nella quotidianità, come affrontare i momenti di crisi acuta.
La cultura alternativa a quella manicomiale cominciò a costruirsi su
luoghi ed espressioni che sono nel tempo divenute familiari agli
operatori del settore e le così dette “strutture intermedie” furono
principalmente divise in semi residenziali (utilizzate da pazienti in fase
sub acuta ma dotati di un discreto livello di autonomia e di un buon
supporto familiare: i centri diurni, ad esempio) e residenziali (rivolte ai
pazienti che necessitano una ospitalità sulle 24 ore: le comunità
terapeutiche).
Le prime esperienze di comunità, sorte negli USA, nacquero
nell’ospedale psichiatrico, col preciso obiettivo di creare relazioni umane
e sociali migliori e per questo motivo terapeutiche. Questa idea
sopravvive intatta nel concetto di clima terapeutico che si è arricchito
con il tempo di strumenti più fini e potenti, estendendo il proprio campo
di interesse agli operatori stessi della comunità, mentre la descrizione
degli eventi comunitari si è arricchita di tutti gli strumenti legati
all’integrazione dei ruoli e delle tecniche e si sono ampliate le
conoscenze sulle dinamiche istituzionali.
Caratteristica importante del modello della Comunità Terapeutica in
Italia è quella di “non essere elemento complementare dell’ospedale
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psichiatrico, com’è avvenuto in altri paesi (Francia, Inghilterra) che pur
hanno prodotto significative esperienze nel campo delle strutture
intermedie” (Asioli F., et al., 1993). Sono nate come le uniche strutture
residenziali possibili, senza appoggiarsi a nessun luogo più a lunga
degenza. Più che in altri paesi il concetto di Comunità Terapeutica nasce
come strettamente legato a quello di riabilitazione.
Per spiegare il concetto di riabilitazione mi è parsa sintetica, ma anche
precisa, la definizione data dall’O.M.S. che ne definisce gli scopi come
“l’insieme di tutte le attività che tendono alla massimizzazione delle
opportunità dell’individuo per il suo recupero, alla minimizzazione degli
effetti della cronicità”.
1.2 Il progetto Redancia
All’interno del panorama storico politico sopra brevemente descritto
nasce, negli anni ’90 il Progetto Redancia.
L’idea ha origine da un’esigenza innanzi tutto pratica: la necessità per un
“nucleo storico” di operatori (prevalentemente psichiatri e infermieri)
provenienti da esperienze ospedaliere classiche (reparti di Psichiatria e
Ospedale Psichiatrico) o di assistenza territoriale, affiancati da operatori
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più giovani, di trovare un luogo nel quale condividere un’esperienza
finalizzata alla cura del paziente psichiatrico grave.
Il progetto cresce rapidamente attraverso la creazione di residenze con
caratteristiche strutturali diverse tra loro, interscambiabili in relazione al
momento del percorso terapeutico, situate in diverse regioni (Liguria,
Piemonte, Lombardia, Calabria) o specializzate in fasce di età
diversificate (minori, adulti, anziani).
Ad oggi, quello che nel tempo si è definito come “Progetto Redancia”,
comprende quindici strutture ed è in continua evoluzione. Tale progetto
si propone di offrire un modello di intervento finalizzato al prendersi
cura della sofferenza psicologica e della riabilitazione del paziente
psichiatrico grave.
Il cardine dell’intervento, secondo il modello integrato proposto da G.C.
Zapparoli1(1988), è la formulazione di un progetto individuale per
ciascun paziente, a partire dal riconoscimento e dall'analisi dei bisogni
che stanno alla base della richiesta di ricovero nella comunità del
paziente stesso, ma anche del Servizio inviante e della famiglia.
L'intervento viene effettuato da un’equipe multidiscipilinare (medici,
psicologi, educatori, infermieri) che permette una continuità terapeutica
1 Psicoanalista noto per la grande esperienza nel campo della cura della psicosi. Il suo modello
prevede un intervento effettuato da più figure professionali, non tanto come semplice sommatoria
degli interventi ma come processo dinamico di integrazione emotivo-cognitiva di funzioni
intrapsichiche e relazionali che rispondono allo stato dei bisogni del paziente.
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che solo una dimensione lavorativa gruppale rende possibile. Per ciascun
ospite inserito in struttura, nell'ambito dello staff che si occupa in ogni
caso degli aspetti generici e delle urgenze, vengono individuate delle
specifiche figure di riferimento (in genere tre o quattro persone con ruoli
diversi che vanno a costituire una “miniequipe”) che avranno il compito
di seguire il caso in modo più puntuale, mantenere i contatti con le
persone esterne collegate al caso, aggiornare la documentazione clinica.
La riunione d'equipe settimanale rappresenta il momento in cui viene
condivisa l'esperienza che ciascuno fa con il paziente e i diversi
interventi vengono integrati in un unico piano di lavoro coordinato, che
si traduce in un progetto terapeutico.
I pazienti afferiscono alla comunità inviati dai Servizi di Salute Mentale
di competenza o privatamente su specifica richiesta.
Viene normalmente richiesto circa un mese di prova per valutare
l'effettiva appropriatezza dell'inserimento, assegnare i referenti, stilare il
piano terapeutico in funzione dei bisogni riconosciuti, valutare l'adesione
e il consenso del paziente.
La formulazione del progetto viene effettuata individuando gli obiettivi
su determinati “assi” (la cura del sé, del proprio spazio abitativo, la
famiglia, il lavoro) e gli strumenti più idonei per realizzarli. Il progetto
viene formulato dopo un adeguato periodo di osservazione del paziente,
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durante il quale viene prestata particolare attenzione all'anamnesi e alla
situazione clinica dello stesso.
Gli obiettivi del progetto vengono perseguiti attraverso varie tipologie di
intervento:
− medico farmacologico: di pertinenza dello psichiatra. Viene attuato con
il consenso del paziente ed è finalizzato all’individuazione della terapia
più adatta per lo stesso;
− psicoterapeutico e psicologico: attraverso colloqui individuali
psicoterapici e di sostegno;
− psicoterapeutico di gruppo: fa riferimento alle specifiche attività
terapeutiche di gruppo;
− educativo-comportamentale: con la partecipazione alle mansioni
quotidiane di vita domestica e il rispetto delle regole;
− riabilitativo sociale: utilizzando la partecipazione ai laboratori, alle
attività di gruppo, alle attività ricreative esterne, alle borse lavoro.
La validità degli interventi attuati è verificata costantemente in itinere, in
modo da apportare eventualmente modifiche ed aggiustamenti utili
all'ottenimento degli obiettivi prefissati.
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La realizzazione del percorso terapeutico è inevitabilmente inscindibile
dalla creazione di una “residenza emotiva” all'interno della quale lo
stesso possa articolarsi.
In comunità si fanno i colloqui, si partecipa alle attività, si condividono
gli aspetti di gestione della quotidianità ma, a mio parere, soprattutto ci
si incontra.
La gestione degli aspetti relazionali ed affettivi che nascono e si
sviluppano durante l'incontro con i singoli pazienti e con il gruppo degli
stessi è un aspetto importante che diventa parte integrante e
fondamentale dell'intervento stesso.
“Una semeiologia dell’abitare che includa la relazione è la premessa per
una riabilitazione terapeutica” (Petrella, 1992).
Non si può parlare di comunità terapeutica senza prendere in
considerazione le reti relazionali che si sviluppano all’interno e fra due
gruppi distinti: curante e “curato”, costituiti da persone che apportano
elementi della loro storia personale e anche il loro attuale modo di essere
nel mondo.
A questi percorsi individuali va ad aggiungersi un percorso comune
costellato di eventi, avvenimenti vissuti e condivisi, sia di segno positivo
che negativo.
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1.3 La comunità Agriellera
La Comunità Terapeutica Agriellera2 ha iniziato la sua attività nel
gennaio 1997 e può ospitare 24 pazienti di tipo psichiatrico
(prevalentemente psicotici e disturbi della personalità). Si trova alla
periferia del piccolo paese di Montezemolo, in provincia di Cuneo, al
confine tra Liguria e Piemonte.
La struttura è composta da tre unità abitative, con otto posti letto
ciascuna, che riproducono il quotidiano modo dell’abitare. Ogni unità,
oltre alle stanze, è composta da una cucina e un salone comune, arredato
con un divano e una televisione. L’aspetto delle unità è accogliente e
curato; gli operatori dedicano parte del lavoro a personalizzare insieme
ai pazienti stanze e spazi comuni, appendendo quadri e poster, decorando
pareti, ricercando arredamenti ed oggetti che possano rendere
maggiormente piacevole lo spazio abitato.
Due edifici separati dalle unità sono adibiti uno a servizi (cucina e
lavanderia) e l’altro a spazi comuni e stanze per operatori. Quest’ultimo
comprende studi medici, infermeria, laboratori in cui si svolgono le
attività, sala video, sala comune con un piccolo bar autogestito dai
pazienti e palestra.
2 Tali informazioni sono tratte dalla brochure della struttura.
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Nello spazio antistante gli edifici vi è un grande giardino delimitato da
un cancello.
L’equipe è composta da uno psichiatra con funzione di Direttore
Sanitario, una psicologa con funzione di Direttore di Comunità, due
consulenti psichiatri, psicologi, educatori, infermieri professionali,
operatori socio sanitari. Alcuni professionisti (un ceramista, un
fotografo) sono parte dell’equipe come consulenti esterni per le attività
riabilitative.
La comunità Agriellera segue le linee guida del Progetto Redancia,
strutturando un percorso comunitario che si articola attraverso le
modalità descritte in precedenza. Esiste tuttavia una particolarità che la
caratterizza. E’, infatti, la struttura individuata nel gruppo come la più
idonea ad accogliere pazienti autori di reato inviati attraverso il canale
giudiziario. Si tratta di pazienti in regime restrittivo (arresti e detenzione
domiciliare, obbligo di dimora, affidamento) o in fase di
sperimentazione (permessi premio, licenze sperimentali) provenienti
dagli Ospedali Psichiatrici Giudiziari, dai Tribunali di Sorveglianza e
dalle Case Circondariali. Anche per questi pazienti vengono formulati
progetti individuali ad hoc che tengono conto della specifica
problematica e che si costituiscano come programmi alternativi alle
misure di sicurezza.
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