Analizzando brevemente l’iter evolutivo che ha caratterizzato
il rapporto ambiente-sviluppo nell’ultimo dopoguerra si riconoscono
sostanzialmente tre stadi: a) la fase di riparazione/protezione
dell’ambiente, fino all’inizio degli anni ’70; b) la fase di
prevenzione/previsione del danno, fino all’inizio degli anni ’80; c) la
fase di gestione del rapporto ambiente/sviluppo, nell’ultimo
decennio.
Ovviamente le tre politiche ambientali citate non sono
necessariamente contraddittorie e anzi si ritrovano accostate; tuttavia
sono caratterizzate da distinti modi di concepire il rapporto
ambiente-sviluppo.
Nel primo caso, il danno ambientale è considerato una sorta di
prodotto inevitabile dello sviluppo e si coltiva la presunzione di
potervi porre rimedio a posteriori, riuscendo in ogni modo, a
mantenerlo entro limiti circoscritti.
Nella fase della riparazione/protezione, infatti, la coscienza
ambientale non si dimostra né sufficientemente approfondita né
particolarmente diffusa.
Si trattava, in pratica di affrontare i problemi della
ricostruzione postbellica e della ripresa economica e tali
fondamentali questioni sottraevano risorse economiche, tecnologiche
e scientifiche all’ampliamento delle conoscenze sui processi
ecologici e alla messa a punto di sistemi produttivi più compatibili
con l’ambiente.
Fino agli anni ’70, dunque, le preoccupazioni ambientali
restarono focalizzate su fenomeni di inquinamento puntuali,
direttamente osservabili e imputabili a cause ben identificate, quali:
gli effetti dell’inquinamento sulla salute pubblica, il rischio di
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estinzione di alcune specie e i danni dell’urbanizzazione sulla qualità
estetica di alcuni ambienti naturali.
Parallelamente, sul piano della ricerca e delle politiche, gli
obiettivi erano limitati al trattamento degli scarichi, alla
dispersione/allontanamento degli inquinanti, alla protezione di ambiti
spaziali circoscritti o di specie in via di estinzione.
La lotta contro i rifiuti indesiderati era si considerata
necessaria, ma non abbastanza da mettere in discussione il ritmo di
industrializzazione e urbanizzazione, gli stili di vita e i
comportamenti sociali che sono all’origine della produzione dei
rifiuti stessi.
Così, tale lotta si traduce spesso nell’allontanamento dei rifiuti
dalle aree ritenute più sensibili, anche se poi, con il tempo si è
compreso che la dispersione è uno strumento estremamente costoso,
sia in termini ambientali che economici.
Sotto il profilo finanziario, in questa prima fase, il danno
ambientale viene attribuito alla componente negativa, ma necessaria,
del processo produttivo, ed i costi delle politiche ambientali sono
attribuiti all’intera comunità: in un certo senso, dunque, il danno
ambientale sembra essere un prezzo collettivo da pagare per lo
sviluppo economico, uno sviluppo che avviene accettando comunque
un compromesso fra ecologia e crescita economica.
Nel secondo caso – quello della c.d. fase della
previsione/prevenzione, vi è coscienza della necessità di intervenire
prima che il danno si verifichi, cercando di esercitare dunque un
controllo a priori su danni futuri ed evitando situazioni
d’irreversibilità.
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Negli anni ’70, infatti, la percezione della questione ambientale
va progressivamente migliorando, sia in termini di conoscenze
scientifiche che di sensibilizzazione pubblica: fondamentale è il
contributo di alcuni avvenimenti di risonanza internazionale, quali la
Conferenza delle Nazioni Unite sull’ambiente (Stoccolma, 1970) e la
pubblicazione del rapporto del MIT al Club di Roma (Meadows,
1972).
Dinanzi all’aggravarsi dei problemi connessi
all’urbanizzazione e alla crescita demografica, il depauperamento
delle risorse è giudicato più grave dell’inquinamento.
L’attenzione delle politiche ambientali si sposta dunque dalla
protezione dei soli oggetti naturali rari o in via di estinzione al
mantenimento dell’intero capitale naturale, riconoscendo dunque un
valore economico all’ambiente ed al suo complessivo equilibrio.
Tale atteggiamento si pone come obiettivo quello di indurre la
riduzione del danno o il minor consumo di risorse in modo indiretto,
riportando i costi ambientali – prima assorbiti e scaricati sulla
collettività -, all’interno del meccanismo dei prezzi.
Dalla logica del compromesso ambiente/sviluppo si passa a
quella dell’”ecosviluppo”, ossia alla logica dell’utilizzazione
intelligente, efficace e razionale delle risorse umane e naturali.
Le risposte sul piano tecnologico ed organizzativo sono in
genere procedure e dispositivi che consentono il recupero e il
riciclaggio dei rifiuti, la riduzione dei consumi e della produzione di
rifiuti, nonché l’aumento della produttività, ma tale strategia di
efficienza incontra un notevole ostacolo nei costi e nei tempi di
ricerca, attivazione e sviluppo delle nuove tecnologie.
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Nel terzo caso, la c.d. fase della gestione, prevale, infine, un
atteggiamento di cautela e attenzione alle interazioni fra uomo e
ambiente, poiché l’instabilità strutturale dei sistemi naturali e sociali
non permette di fondare le decisioni sulla conoscenza certa degli
eventi futuri.
La fase della gestione vuole che dalla metà degli anni ’80 si è
cominciato a riconoscere il carattere onnipresente e relativamente
insolubile dell’inquinamento ambientale.
L’attenzione si sposta decisamente dai danni certi e visibili ai
rischi probabili, incerti e spesso controversi, riconoscendo, di fatto,
l’impossibilità di circoscrivere nel tempo e nello spazio tanto le
cause quanto gli effetti dell’inquinamento da rifiuti.
Vanno sfumandosi di conseguenza le categorie classiche di
“responsabile del danno” e di “danneggiato”, e si delinea il principio
della responsabilità delle generazioni attuali verso quelle future.
I programmi di ricerca inerenti alla questione ambientale
sembrano orientati verso un miglioramento delle capacità di
controllo e misurazione dei fenomeni, ma ciò nonostante il mondo
scientifico è chiamato a formulare previsioni e a suggerire soluzioni
rispetto a problemi situati ai limiti delle conoscenze attuali e
comunque caratterizzati da notevole incertezza.
Di fronte a tale incertezza, due atteggiamenti complementari
vanno emergendo nel campo delle politiche ambientali:
la cautela nell’azione
la continuità nelle scelte strategiche.
Un atteggiamento di cautela risulta indispensabile ogni qual
volta ci si trova a decidere riguardo a fenomeni di cui non è possibile
prevedere l’evoluzione mentre la continuità temporale nelle scelte è
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invece una delle condizioni essenziali per garantire l’efficacia delle
politiche.
Esiste oggi un ampio consenso sulle linee-guida da assumere in
una politica del territorio che voglia muoversi nell’ottica del così
detto “sviluppo sostenibile”.
In primo luogo, appare necessario definire strategie di vasta
scala e a lungo termine, attraverso cui creare una stretta correlazione
tra i progetti di sviluppo industriale e della produzione e le connesse
attività di smaltimento e/o di riutilizzo dei rifiuti, al fine di fornire un
riferimento continuo e flessibile.
Si impone, a tal riguardo, di adottare un approccio
intersettoriale nella pianificazione e nella gestione del territorio: la
definizione di soluzioni ottimali all’interno dei singoli settori non
garantisce, infatti, la sostenibilità all’interno del sistema territoriale.
Parimenti, va incentivata la cooperazione e il coordinamento
all’interno del settore pubblico come pure tra amministrazioni
pubbliche e private, per definire soluzioni che tengano conto dei
conflitti d’interesse esistenti.
Ma uno dei principali capisaldi della pianificazione di uno
‘sviluppo sostenibile’ risiede nella indispensabilità stabilire e far
rispettare degli standard ambientali minimi, al fine di proteggere le
diverse componenti ambientali dall’azione dei singoli o dei gruppi.
Ciò consentirà di limitare l’uso di risorse non rinnovabili e di
incrementare piuttosto quello di risorse rinnovabili.
Il mutamento dei modi di produzione, dei comportamenti
sociali e individuali, delle scale di valori e di priorità, non può essere
repentino e richiede anzi tempi lunghi come qualsiasi mutamento
tecnologico, sociale ed etico.
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Ciò nonostante è indispensabile fin d’ora per lo meno una
consapevolezza della dimensione dei fenomeni in gioco.
In tale ambito di principi, e nel contesto della citata ‘fase della
gestione’, successiva agli anni ’80, si inquadrano gli sforzi della
presente ricerca che, nel primo capitolo, si pone lo scopo di offrire
uno sguardo di insieme ed una rilettura delle strategie e degli
strumenti di politica ambientale, attraverso l’analisi dell’iter
evolutivo che ha caratterizzato il rapporto ambiente-sviluppo
nell’ultimo dopoguerra.
Dopo la necessaria attenzione dedicata all’aspetto normativo,
sia italiano che europeo, su cui si fondano e si evolvono le strategie
dello smaltimento dei rifiuti, il primo capitolo cerca di evidenziare
gli obiettivi e le possibilità offerte dalle nuove disposizioni in
materia di minimizzazione della produzione dei rifiuti, e lo fa
attraverso un’analisi della loro crescita e della loro composizione
negli ultimi anni.
L’obiettivo è quello di porre l’accento sull’importanza di
abbandonare una logica inaccettabile dello smaltimento generalizzato
dei rifiuti per accogliere un nuovo approccio culturale e normativo
volto alla massima estensione possibile delle operazioni di
prevenzione, riduzione e recupero della produzione dei rifiuti.
Il secondo capitolo si apre con la trattazione delle principali
tecniche di trattamento dei rifiuti solidi urbani, riportando, per
ciascuna di esse, la descrizione del processo, l’analisi dei principali
parametri caratteristici, i fenomeni di inquinamento indotto, le
possibilità di recupero dei materiali ed infine un elenco dei vantaggi
e degli inconvenienti.
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Successivamente, si affronta il tema della raccolta
differenziata, intesa come una risposta “pulita”, anche se parziale, al
problema dei rifiuti, nel senso che essa deve essere considerata un
passaggio obbligatorio per diminuire il volume complessivo dei
rifiuti destinati allo smaltimento finale, favorire il recupero mediante
riciclaggio, aumentare l’efficienza dei processi di recupero
energetico ed, infine, sensibilizzare la partecipazione del cittadino
alla gestione del problema rifiuti.
Nel terzo capitolo si affronta il tema del trattamento dei RSU
sotto un profilo prettamente economico, dando maggiore risalto non
tanto all’impatto ambientale quanto alle implicazioni in termini di
costi, redditività ed investimenti necessari per le principali
alternative possibili nel trattamento dei rifiuti.
Tale lavoro viene effettuato anche attraverso un’analisi di
redditività relativamente ad impianti integrati dedicati al
compostaggio ed alla selezione e produzione di RDF.
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Capitolo 1 – Lo scenario dei rifiuti solidi urbani
1.1 – Considerazioni generali.
L’aumento dei rifiuti, così come una miriade di altri fenomeni,
sono il rovescio di quella medaglia chiamata progresso, che si
traduce concretamente in energia elettrica, in riscaldamento
domestico, in prodotti preconfezionati, ecc.
Questo ed altro è il progresso ma, superato un certo limite,
numerosi difetti, inizialmente sottovalutati e marginali iniziano ad
assumere dimensioni sempre più preoccupanti: le risorse, in primo
luogo, stanno cominciando rapidamente a scarseggiare e quasi tutte
si esauriranno nell’arco di pochi decenni (fluoro, zinco, mercurio,
petrolio, uranio, zolfo, metano, piombo, tungsteno, stagno) o secoli
(rame, nichel, cobalto, manganese, fosfati, ferro, cromo, alluminio,
potassio, vanadio).
Da sempre, infatti, l’uomo ha impiegato energie rinnovabili:
nel passato il legno, l’energia dell’acqua e del vento sono stati i
principali fornitori di energia, insieme con gli animali e lo sforzo
muscolare dell’uomo.
Questo, fino al secolo XVIII.
Con la rivoluzione industriale, invece, tutte queste forme di
energia sono risultate quantitativamente insufficienti ed
economicamente non convenienti ed è stato necessario studiare ed
utilizzare fonti più potenti di energia, quali quelle prodotte dal
carbone, prima, e dal petrolio, dopo.
L’impatto sull’ambiente è stato da subito di notevole rilevanza
negativa.
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