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poveri” in nome della rispettabilità da parte di intellettuali, imprenditori
e magistrati. La classe operaia fu accusata durante il corso del
diciannovesimo secolo di ogni sorta di abitudini immorali, quali il bere e
la promiscuità, e furono considerate indecenti e pericolose le sue
tradizionali attività ricreative, come gli sport popolari e svaghi come le
corse dei cavalli e il bull- running, una caccia al toro collettiva.
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Dobbiamo precisare che quando parliamo di conquista del tempo libero, o
di vacanze retribuite, ci occupiamo di qualcosa che attiene alla modernità
industriale, quindi alla vita della città; di fatto i contadini furono esclusi
da certi benefici, e l’intero mondo rurale non si adattava e neanche poteva
comprendere i mutamenti in atto nella vita di operai e borghesi, che
vivevano e lavoravano nelle città. Nella vita rurale non poteva esistere
una reale separazione tra tempo di lavoro e di non lavoro, in quanto il
lavoro dei campi comportava una serie interminabile di incombenze, più o
meno pesanti, intervallate da piccoli momenti di non lavoro, ma non c’era
una campanella che annunciasse il termine delle attività, solo la calata
del sole e l’esaurimento dei compiti quotidiani segnalavano la fine della
giornata lavorativa e il ritorno a casa, luogo di lavoro delle donne. Nel
corso dell’anno si avvicendavano mesi, come quelli invernali, in cui si
lavorava di meno, a causa della rigidità della temperatura e la
diminuzione delle ore di luce, ad altri, come quelli estivi, che prevedevano
giornate di lavoro assiduo e continuo, ma non esistevano periodi in cui ci
si poteva permettere di non lavorare, di andare in ferie. Il lavoro, d’altra
parte, si trasformava di tanto in tanto in occasione di festa, di banchetto,
e ad esempio per i bambini, il contatto con la natura e con gli animali che
avevano il compito di governare poteva assumere le forme di un gioco.
Fiere e mercati costituivano la principale forma di svago dei contadini, i
quali vi si recavano per lavoro, quando dovevano vendere o acquistare
bestiame, attrezzi o le loro produzioni, ma vi trovavano anche scambio
sociale e divertimenti.
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Vedi A. Corbin, L’invenzione del tempo libero.
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Inoltre i festeggiamenti tradizionali, legati alla religione, rivestivano una
grande importanza, come anche le feste che, strettamente legate al lavoro
dei campi, venivano consumate tutti insieme, famiglia, parenti, villaggio,
braccianti, la comunità tutta. Una caratteristica fondamentale
dell’impiego del tempo libero nel mondo rurale, era, infatti, che esso si
svolgeva sempre in momenti sociali, e mancava quasi del tutto lo svago
individuale.
Verso la fine del diciannovesimo secolo però le cose cambiarono anche in
questo mondo, i legami, soprattutto tra le diverse generazioni, si
allentarono progressivamente e le feste in comune diminuirono. Pian
piano ai giochi animati dalla comunità si sostituì un’organizzazione
commerciale della festa, con giocolieri e saltimbanchi, vendita di dolciumi,
giostre: gli abitanti dei villaggi erano protagonisti delle loro feste, ne
diventarono poi, come in città, spettatori.
All’inizio del XX secolo la tecnologia aveva contribuito ampiamente ad
aumentare la produttività, e, mentre si pensava che questo avrebbe
prodotto come conseguenza inevitabile l’aumento del tempo libero, con le
preoccupazioni che questo comportava, non si considerava che, dal
momento che quantità illimitate di beni sarebbero state disponibili,
questo avrebbe potuto avere come conseguenza un elevato, nonché
illimitato, aumento dei consumi. Il potere d’acquisto medio degli
americani aumentò del 40% tra il 1910 e il 1929.
Un concetto da alcuni portato avanti, che si rivelò solo in seguito
profondamente errato, fu quello della limitatezza dei bisogni: dal
momento che la produttività era aumentata, e dal momento che i bisogni
che il lavoratore con il suo salario doveva soddisfare erano limitati, in un
numero di ore progressivamente inferiore egli avrebbe potuto guadagnare
quanto gli serviva, e sarebbe aumentato il tempo libero dal lavoro.
Socialisti e sindacalisti su questo assunto fecero le loro richieste per una
diminuzione dell’orario di lavoro.
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Nel 1889 un medico, Haegler, aveva sviluppato, in un testo che riscosse
notevole attenzione, un ragionamento sulla necessità degli individui di
godere di tempo libero. Haegler distingueva due bisogni fondamentali: un
tempo libero di breve durata, quello serale, notturno e le piccole pause
durante il lavoro, esigenze che potevano essere soddisfatte dalla giornata
lavorativa di otto ore; poi c’era il bisogno di “ristabilire l’elasticità del
corpo e della mente”, evitare il sovraffaticamento e la distrazione, e a
questo poteva servire il riposo della domenica.
Molte ragioni di ordine sociale, morale, familiare vennero avanzate a
sostegno della validità del riposo settimanale in un giorno fisso, appunto
la domenica, che avrebbe favorito i contatti sociali del lavoratore e
consentito la partecipazione, insieme con la sua famiglia, ai riti,
tradizionali o moderni, della festa e dello svago culturale.
In Europa e negli Stati Uniti generalmente si giunse alla giornata di otto
ore, per sei giorni la settimana (48 ore settimanali) nel 1919, dopodiché fu
sostenuta la battaglia per le 40 ore, con il weekend lungo, e per le ferie
retribuite, ma mentre l’istituzione per legge negli Stati Uniti della
settimana di 40 ore risale al 1938, in Europa si dovette attendere gli anni
’60 perché essa fosse presa seriamente in considerazione.
Tabella presa da A. Corbin – L’invenzione del tempo libero
Durata
annua del
tempo di
lavoro
Durata
globale del
lavoro nel
ciclo di vita
Tempo totale
di veglia (base
16 ore)
secondo la
speranza di
vita
Tempo di
lavoro nel
tempo totale
di veglia
1850
5.000 ore 185.000 ore 262.000 ore 70%
1900 3.200 ore 121.600 ore 292.000 ore 42%
1980 1.650 ore 75.550 ore 420.480 ore 18%
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Durante gli anni trenta ebbe invece molto successo la richiesta di vacanze
pagate, al posto di ulteriori riduzioni dell’orario di lavoro, tanto da parte
dei lavoratori quanto delle industrie, che potevano gestirsele nei momenti
di calo fisiologico della produzione o della domanda o durante la chiusura
delle fabbriche. I datori di lavoro ritenevano inoltre che un periodo di
riposo avrebbe aumentato la produttività dei lavoratori e la loro disciplina
sul lavoro. Nella maggior parte dei paesi occidentali pertanto le ferie
pagate furono introdotte negli anni trenta, attraverso concessioni
successive gradatamente ampliate a diverse categorie di lavoratori, e
divennero in genere, a differenza della settimana di quaranta ore, un
principio inattaccabile.
Per quanto riguarda però la concessione di tempo libero, non fu pacifico
né semplice per la classe dirigente accettare l’inevitabilità di questo
passo, per il timore, sfociato nel corso del tempo in diverse teorie e
dottrine tese sostanzialmente a mascherarlo o a giustificarlo, della
perdita del controllo sociale ed economico, pertanto anche politico.
Nelle previsioni di molti, soprattutto degli imprenditori, dei padroni delle
fabbriche, l’aumento della produttività avrebbe diminuito gli incentivi al
lavoro, e oltretutto, se il tempo libero fosse stato concesso, esso sarebbe
stato impiegato nell’ozio o nei piaceri malsani e immorali cui si supponeva
che la classe inferiore si abbandonasse; si temeva per la sobrietà e per la
moralità, ma soprattutto si temeva che alla fine si sarebbe prodotto
assenteismo e scarso rendimento al lavoro.
Secondo Veblen per esempio, lo svago era un’ostentazione di consumo teso
non a soddisfare delle necessità ma ad affermare uno status, ed esso
poteva compromettere l’etica del lavoro e l’efficienza della produzione. Il
cruccio fondamentale per le classi abbienti era sostanzialmente che
denaro e tempo libero sembravano conferire maggiore potere alla classe
lavoratrice, e non consentivano di disciplinarla, e sia da un punto di vista
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culturale che economico ciò sembrava spaventoso e potenzialmente
destabilizzante.
C’era qualcuno che mostrava di riporre una maggiore fiducia nel popolo, e
sosteneva che un aumento del tempo libero avrebbe portato
all’innalzamento del livello culturale, e che alcuni vizi riscontrabili presso
le classi lavoratrici erano il prodotto della scarsità e del disordine
industriale, e che sarebbero stati “guariti” dalla società dell’abbondanza
che si andava formando. I “vitalisti” vedevano nello svago un modo per
incanalare gli impulsi, e consideravano l’esercizio fisico un modo, positivo,
per esercitare un controllo mentale sul corpo ed evitare comportamenti
antisociali.
In ogni caso lo sguardo di questi teorici era di condiscendenza e di
sostanziale irrispetto nei confronti della classe lavoratrice, considerata
nella maggior parte degli scritti alla stregua di bambini da guidare e da
tenere lontano dai pericoli che la loro natura irrazionale li portava ad
incontrare. Sussisteva, infatti, una totale identificazione dell’educatore
con le classi dirigenti del tempo e l’emergenza di un nuovo gruppo di
“educatori”, costituito dagli industriali del divertimento, che si andava
formando, era avvertita come una minaccia e un pericolo gravissimo per
gli standard culturali da quelle classi dirigenti elaborati.
Tutta la letteratura esistente in materia di condanna, moderata o
accesissima, della cultura di massa, di cui è emblematica quella prodotta
dalla “Scuola di Francoforte”, lo dimostra, ed è evidente la considerazione
di funzionalità accordata, per quanto riguarda il lavoratore, solamente al
tempo di lavoro, e di totale disfunzionalità per quanto riguarda le
possibili altre attività, mentre naturalmente per le classi abbienti il
discorso era diverso, e le loro capacità intellettive sostenute dall’ottima
cultura li rendevano in grado di occupare funzionalmente, in modo utile,
il loro tempo.
Un altro discorso complesso riguarda il fatto che l’introduzione di metodi
di lavoro razionale e produttivo, ma alienanti per il lavoratore, in quanto
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mandavano a zero il suo valore aggiunto come individuo rispetto al lavoro
svolto dalla macchina, di cui egli diventava assistente, sottraeva valore
intrinseco al lavoro stesso, che si risolveva in un’attività necessaria
perché in grado di fornire i mezzi per vivere, ma non era soddisfacente o
gratificante per la persona. Di conseguenza il bisogno di un tempo libero
in cui esprimere la propria umanità e la propria personalità si faceva più
incalzante. D’altra parte molti autori ritenevano che non ci potesse essere
un vero uso del tempo libero in assenza di un lavoro interessante, e che il
lavoro alla catena di montaggio producesse passività e annichilisse le
capacità creative e innovative del lavoratore, condannato pertanto ad un
consumo passivo e frustrante del proprio tempo libero.
Un altro modo, che si rivelò acutissimo, di considerare la questione, scoprì
l’indissolubile legame che ci sarebbe stato tra tempo libero e consumo.
George Gunton fu uno dei primi teorici a rendersi conto della natura
illimitata dei desideri e a dedurne, già nel 1887, una teoria dello sviluppo
economico che poneva al centro della questione l’alto livello dei salari
connesso ad un alto livello del consumo da parte delle classi lavoratrici.
Nella sua ottica il consumo avrebbe tenuto il lavoratore incatenato al
lavoro e quindi avrebbe limitato la domanda di tempo libero.
Henri Ford fu uno dei primi imprenditori a capire, negli anni ’20, che la
crisi di sovrapproduzione che l’industria americana stava fronteggiando,
cioè quella che sembrava la saturazione del mercato, poteva essere risolta
con l’incremento dei salari e con il fine settimana di due giorni, che
avrebbe riaperto la domanda di beni e prodotto consumo di ciò che sempre
più velocemente si andava producendo. Ma tanto gli imprenditori quanto
gli economisti esitarono a lungo ad accettare questa prospettiva, e quando
lo fecero si verificò una sorta di spaccatura tra gli economisti, che
considerarono l’aumento del consumo come un segno di progresso, e gli
uomini di cultura, che lo condannarono, soprattutto per le conseguenze
sui modi di vita e sugli svaghi delle persone.
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L’industria del divertimento fu condannata e in particolare il cinema
venne considerato un fattore di annacquamento della cultura alta, una
minaccia alla morale e ai valori della famiglia.
Nel 1937 George Orwell scrisse: “ con tutta probabilità le patatine, le
calze di seta, il salmone in scatola, il cioccolato a buon prezzo, il cinema,
la radio, il tè scuro e i campi di football […] hanno tutti contribuito ad
evitare la rivoluzione.”
Nella Dichiarazione della Confederazione generale del lavoro del 1924 si
legge: “L’innalzamento generale del livello di civiltà, la statura morale di
un popolo derivano in larga misura dal modo in cui l’insieme della società
spende il proprio tempo libero”.
Quando la classe operaia ebbe accesso a tutta una serie di opportunità di
svago che avevano rappresentato precedentemente il privilegio di pochi,
l’organizzazione del tempo libero al fine di ottenere dallo svago il maggior
piacere, e quindi la felicità, in un’etica edonistica che l’industria del
divertimento sollecitava e soddisfaceva, divenne una parte importante
della vita anche della classe operaia. Caffè, caffè-concerto, cabaret, sale
da ballo furono i luoghi caratterizzanti di Parigi, città che più di ogni
altra incarnò gli ideali di piacere e vita sfrenata alla fine del
diciannovesimo secolo, la città del divertimento.
L’evoluzione delle tecnologie dell’industria del divertimento ebbe un
notevole impatto sulla democratizzazione dello svago, e sull’ampia
partecipazione che gli ambienti popolari poterono avere ad esso. Inoltre se
per molto tempo (negli ultimi anni del diciannovesimo secolo) l’uso del
tempo libero fu nettamente separato a seconda delle classi sociali e delle
categorie professionali, la cultura di massa e soprattutto il cinema, anche
se non da subito, contribuirono all’unificazione culturale e dei modelli di
comportamento.
A metà del secolo diciannovesimo la ferrovia aveva cominciato a
trasformare le abitudini del tempo libero di una parte crescente della
società occidentale, la borghesia, e aveva offerto a questa la possibilità di
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fare comodamente le vacanze fuori città, particolarmente nei luoghi
balneari e nelle stazioni termali, molto frequentate dalle classi più
elevate.
Il sistema ferroviario si era sviluppato principalmente allo scopo di
migliorare la circolazione delle merci, non per favorire l’esodo al mare dei
vacanzieri di città, ma le compagnie fecero presto ad adeguarsi e a
sfruttare la situazione, e viaggiare divenne per la prima volta una
possibilità alla portata, se non di tutti, almeno di una parte crescente
della popolazione.
Nacque di conseguenza una vera e propria industria del turismo, con i
suoi imprenditori come in ogni altro settore dell’economia, ed ebbe il suo
primo uomo di spicco in Thomas Cook.
Le località di mare, che non avevano goduto prima di grande prestigio
presso i vacanzieri dell’alta società in favore invece delle stazioni termali,
si affollarono principalmente di persone appartenenti alle classi sociali
medie e poi anche inferiori, e si attrezzarono per andare incontro ai gusti
dei lavoratori con “le gallerie dei divertimenti e… le possibilità
commerciali offerte dalla spiaggia stessa (vendita di dolciumi e di gelati,
affitto di sedie a sdraio, passeggiate a dorso d’asino). Presso le località
turistiche più grandi, ottovolanti, trenini in miniatura, fiere, piste di
pattinaggio e altre innovazioni si aggiunsero ai soliti svaghi per bambini
come la passeggiata a dorso d’asino.
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Man mano che la democratizzazione delle vacanze si estese, la borghesia
e l’aristocrazia, i cui luoghi di evasione e di svago furono invasi dalle
masse, tentarono di diversificarsi, di prendere le distanze ostentando
modi e consumi elitari, si abbandonarono alla contemplazione delle
vetrine ed esibirono il loro status attraverso l’acquisto delle merci più
preziose e sfavillanti. Quando le persone perbene cominciarono ad
avvicinarsi ai divertimenti di massa, ad esempio al cinema, lo fecero a
patto di potersi distinguere, di non doversi mischiare con la folla; infatti,
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Vedi A. Corbin, l’invenzione del tempo libero.
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furono costruiti dei cinema di serie A, i palazzi del cinema o i locali
lussuosi del centro, che attraverso biglietti d’ingresso più cari, tentavano
di selezionare la clientela, e che lusingavano il desiderio di eleganza dei
benestanti con la comodità delle poltrone, lo sfarzo dei locali e
l’atteggiamento servizievole e disponibile dei dipendenti.
La lista dei luoghi di villeggiatura si ampliò e venne a comprendere anche
le località di montagna. Modalità di svago tradizionali ed economiche
come il ciclismo si organizzarono, e ad esempio attorno al 1890 erano
divenuti molto popolari i giri ciclistici; tale attività diede impulso al
campeggio, alle passeggiate e agli ostelli per i giovani. Negli anni trenta
del secolo scorso si diffuse il villaggio turistico, con la sua formula “tutto
compreso”.
Da quando intorno al 1880 il potere d’acquisto del popolo, pur basso,
aveva cominciato ad aumentare, esso aveva iniziato a concepire l’idea di
spendere denaro per consumare beni, come ad esempio alcuni tipi di
spettacoli, che non attenevano all’indispensabile.
L’aumento dei salari e la liberazione di alcune ore del giorno dal lavoro
produssero, come aveva previsto Ford, l’aumento dei consumi. In Francia
durante la Belle Epoque “il tempo libero si muta in tempo di consumo
febbrile e ossessivo”.
Si cominciò a sperimentare una “relativa irrilevanza di attività non
economiche e autonomamente scelte in una società che è eminentemente
produttiva.”
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D’altra parte i piaceri dell’industria del divertimento erano negati a chi
non possedeva denaro, e così in un certo modo il consumo di tempo libero
fu concesso a chi se lo era conquistato come diritto attraverso il proprio
lavoro.
Il desiderio di acquistare il divertimento e i beni conferì un valore
supplementare, nuovo, al lavoro e al tempo impiegato nel suo
svolgimento.
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Vedi G. Cross, Tempo e denaro.