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Introduzione
Gli Indifferenti viene pubblicato per la prima volta nel luglio del 1929 dalla Casa
Editrice Alpes di Milano, inserendosi in modo così puntuale nella problematiche di un
contesto politico e sociale particolarmente difficile che – secondo Debenedetti – può essere
considerato (insieme all'opera di di Svevo) come il «primo romanzo contemporaneo»
1
o –
come afferma Ines Scaramucci – «l’inizio del neorealismo»
2
, o addirittura istintivamente
“esistenzialista”, che pone il protagonista nella situazione emblematica di vuoto davanti allo
spazio indefinito di libertà assoluta. Un passato inconciliabile con il presente, un futuro
indefinibile: così Moravia si fa portavoce della sua generazione letteraria e non. La scelta di
condurre l’analisi di questa opera ha posto incognite e dubbi su quanto di nuovo potesse
ancora essere detto: considerando però l’immancabile necessità di confermare ancora oggi la
sua attualità, si è proposta una lettura dell’opera alla luce di chi nel 2019 ha la stessa età del
giovane Moravia al tempo della pubblicazione.
Nel primo capitolo l’analisi si concentra sulla nascita e sullo sviluppo dell’istituzione
familiare e in che modo il contesto storico e politico contemporaneo alla stesura del romanzo
Gli Indifferenti abbia modificato le dinamiche della narrazione. Si procederà con uno studio
interdisciplinare dei sistemi sociologici, demografici e antropologici degli anni '20-'30 –
ipotizzando anche un confronto con quelli odierni. Le domande principali a cui si cercherà di
dare risposta sono: da cosa è dipeso l’inizio dello sfacelo dell’istituzione familiare? Ne Gli
Indifferenti quali sono gli indizi dei mutamenti relazionali all’interno della famiglia Ardengo?
Si è deciso infatti di cambiare punto di vista rispetto all’“indifferenza” tanto discussa
del romanzo, non inserendola tra la conseguenze della società borghese e dell’inizio del futuro
sfacelo dell’istituzione familiare, bensì prendendola in considerazione come una causa dello
stesso sfacelo. Si è ritenuto opportuno dare inoltre maggiore rilievo e importanza
all’indifferenza di Mariagrazia, che a volte viene messa in secondo piano rispetto al
personaggio di Michele, l’«indifferente per eccellenza»
3
. Mariagrazia, infatti, ricopre un ruolo
di grande rilevanza per due ragioni fondamentali: per prima cosa attraverso questo
personaggio Moravia mette in scena una critica alla tendenza educativa che i genitori
1
Cit. Debenedetti G., Il romanzo del Novecento, Milano, Garzanti, 1971, riportata da Galateria M.M. in Come
leggere Gli Indifferenti di Alberto Moravia, Milano, Mursia, 1975, p.5.
2
Scaramucci I., Romanzi del nostro tempo, Brescia, La Scuola, 1956, p.87.
3
Vedi, Sanguineti E., Alberto Moravia, Milano, Mursia, 2008.
6
dell'epoca; in secondo luogo la sua figura permette di riflettere sulle connessioni con la
biografia dell'autore, del giovane Alberto Pincherle.
Inoltre, per l'analisi dell'opera è necessario considerare la volontà dell’autore di non
costruire una critica diretta della società, da vero autore impegnato, ma di raccontare una
storia a lui contemporanea con le parole e il punto di vista di un ventenne. A questo proposito
vengono in mente le parole, aspre e pungenti, di Sergio Saviane: «La sua preoccupazione
maggiore è accumulare più materiale possibile da mettere a bollire nel pentolone per
mescolarlo poi alla rinfusa con i punti esclamativi e i puntini di sospensione e restituirlo
quindi al lettore in un impasto che non ha secondi fini….»
4
. Un giudizio “crudele” che
tuttavia, tra le sfumature eccessivamente polemiche, coglie un elemento di verità e di
autenticità dell'opera moraviana, ovvero la “sincerità” della sua scrittura, o meglio l'assenza di
mistificazioni.
Nel secondo capitolo lo studio dell’opera prosegue con l’analisi dei personaggi e delle
loro relazioni a coppie: come ognuno di essi si confronta con l’altro nella quotidianità dei due
giorni durante i quali si svolge la narrazione. L’indifferenza, sintomo dello sfacelo non solo
della famiglia Ardengo come unità complessiva ma anche dei singoli rapporti, continua a
dominare il comportamento attraverso il quale i personaggi si confrontano e cercano di
comunicare invano. In questa prospettiva, viene posta particolare attenzione al valore che
assumono gli oggetti, fino a giungere ad una sorta di “pseudo-personificazione”
5
, e il modo in
cui su di essi si rifletta l’immobilità sentimentale dei rapporti tra i personaggi. Nel momento
di composizione dell’opera Moravia ha fornito al lettore l’elemento che più interessava al
pubblico dei primi anni Venti del XX secolo: la relazione tra i sessi, omologhi o opposti che
siano. In particolare, l'analisi metterà in rilievo come il personaggio di Michele ricada
continuamente nelle sue fallimentari azioni non tanto per colpa di fattori esterni alla famiglia
ma proprio a causa delle ingombranti figure delle due donne, che si configurano come le
uniche vere antagoniste del giovane Ardengo. Non a caso, prima di ogni gesto violento contro
Leo, il pensiero di Michele volerà spontaneamente sempre a una delle due. Le sue azioni,
esondando gli argini dell’indifferenza e dell’incoscienza, si faranno riflesso di una vera
volontà dell’inconscio. Quest'ultimo tema viene trattato nella tesi con molta cautela rendendo
4
Saviane S., Moravia Desnudo, Milano, SugarCo Edizioni, 1976, p.42.
5
V edi, Strappini L., Le cose e le figure negli «Indifferenti» di Moravia, Roma, Bulzoni editore, 1978.
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chiara affinità e differenze non solo tra il personaggio di Michele e Moravia-narratore ma con
gli aspetti autobiografici di Alberto Pincherle: questo romanzo può essere anche considerato
come l’indizio di un conflitto interiore tra l’uomo che sarebbe voluto diventare e l’uomo
borghese che sarebbe diventato inevitabilmente. Si prendere in esame il modo in cui Moravia
introduce il personaggio di Mariagrazia, la matrona arricchita che esercita sui figli un grande
potere strisciante che senza far rumore diventa emblema della cattiva madre e della cattiva
educazione borghese. Carla invece rappresenta la triste e annoiata fanciulla, che combatte tra
quel che è e ciò che vorrebbe essere fallendo miseramente. La sua sarà una ribellione fittizia,
che per non dover agire e sacrificarsi sceglie – autocommiserandosi – la strada più semplice e
veloce. Particolare attenzione merita il personaggio di Leo, eroe antagonista vizioso per
natura, che si relaziona allo stesso modo con ogni personaggio senza fare distinzioni di natura
sessuale. Incarna agli occhi di Moravia il “borghese per eccellenza”, riuscendo a persuadere le
sue “vittime” con teatrini superficiali ma al contempo metodici, risulta essere così il nemico
da sconfiggere ma anche il modello ideale cui invidiare le comodità e gli agi. Moravia infatti
gli ha attribuito la capacità di saper compiacere tutti gli altri personaggi, persino Michele,
regalando promesse irrealizzabili ed elargendo complimenti insinceri.
Tutti questi personaggi vivono ne Gli indifferenti come impantanati nella “zona
grigia” della borghesia decadente: una zona di «reticenza, slealtà, diffamazione, negligenza,
mezze verità…»
6
. L’indifferenza come tema della società emerge così anche dalla scelta di
Moravia di raccontare asetticamente, senza dar giudizi alcuni, una realtà sentita e rivissuta più
volte. Infatti l’originalità dell’opera e dei temi trattati fecero scalpore al tempo ma
consentirono di rivelare comportamenti tabù della società borghese di ieri – e forse anche di
oggi. Infatti, si cercherà anche di analizzare i personaggi moraviani in quanto “proto-matrici”
della società attuale, in particolare di quelle fasce giovanili della borghesia contemporanea
che spinti da noia e indifferenza agiscono senza aspirazioni e senza la consapevolezza degli
effetti collaterali delle loro azioni (come testimonia la cronaca di anni recenti).
6
Moretti F., Il Borghese: tra storia e letteratura, Torino, Einaudi, 2017, p.141.
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Capitolo I
I limiti e le potenzialità dell’indifferenza tra le mura domestiche
« ‘E’ la fine…’»
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1.1 Nascita e sviluppo dell’istituzione familiare
Per tracciare lo sviluppo dell’istituzione familiare si prende in considerazione la teoria
di Barbagli
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che presenta quattro cambiamenti fondamentali che portarono la “famiglia” a
diventare istituzione. Le differenze funzionali all’interno del contesto nazionale italiano ne
garantirono mutamenti più o meno radicali nel tempo. Il primo cambiamento riguarda
l’equilibrio trovato grazie alla diminuzione, dal 1660 in poi, della frequenza e dell’intensità di
carestie ed epidemie, portatrici di ingenti crisi di mortalità; il secondo riguarda ancora il
decrescente tasso di mortalità, dovuto in questo caso alla riduzione di famiglie incomplete,
ovvero con un solo genitore. Il terzo cambiamento si realizzò grazie alla presa di coscienza
che nel tempo si erano sviluppati dei diversi gradi di complessità familiare, condizionati
dall’appartenenza alle diverse classi urbane, primo risultato delle trasmissioni patrilineari nei
ceti nobiliari. Barbagli sottolinea anche un altro cambiamento che influenzò lo sviluppo
dell’organizzazione familiare: la maggiore e più lunga presenza dei figli in famiglia. Lo
studioso pensa che questa sia stata una conseguenza del decrescente tasso di assunzioni del
personale domestico (sempre a partire dal XVII secolo). Joan Tilly e Louise Scott si
ricollegano a questa teoria puntualizzando che l’era industriale si caratterizzò per la nascita di
nuove classi sociali, che portarono mutamenti demografici e furono causa di ampie
migrazioni, in particolar modo dalla campagna alla città. Sia Barbagli che Scott sostengono
che a seguito della “Rivoluzione” nacquero nuove forme e suddivisioni del lavoro e di
conseguenza nuove dinamiche nei rapporti tra i diversi sessi e le differenti generazioni. Nel
modello funzionalistico familiare che sta alla base dell’epoca moderna è presente una certa
divisione del lavoro: al padre (o alle figure maschili in genere) spettavano lavori strumentali
al sostentamento della famiglia, spesso fisicamente faticosi, mentre la madre (e le figure
femminili) erano tradizionalmente deputate ai lavori domestici. La struttura familiare più
diffusa prima del “boom industriale” era quella che si è decisa di denominare “famiglia
contadina”: un nucleo familiare composto da madre, padre e innumerevoli figli, tutti dediti al
lavoro nei campi, all’allevamento o ad altre attività concernenti l’ambito agrario. A
7
Alberto Moravia, Gli Indifferenti, Milano, Bompiani, 2016, p.168.
8
Vedi, Barbagli M., Kertzer D., Storia della famiglia italiana 1750-1950, Bologna, Il Mulino, 1992.
9
regolamentarla vi era il codice Pisanelli (primo codice dei rapporti familiari dell’Italia post
unitaria – 1861), elaborato nel 1865: a sua volta questo si rifà al Codice Napoleonico,
caratterizzato da un rafforzamento dell’autorità paterna – la patria potestas e l’
“autorizzazione maritale”- e dal riconoscimento di pari diritti tra figli maschi e figlie femmine
nell’ambito del diritto di successione. Il Codice Pisanelli fu attento a rispettare le posizioni
della Chiesa cattolica, tanto che non venne data precedenza al matrimonio civile, unico valido
per legge, rispetto quello religioso; in più non venne consentito il divorzio. La separazione tra
due coniugi continuava a restare un’opzione plausibile ma solo in caso di adulterio, una
fattispecie valutata giuridicamente in modo diverso (in basse al sesso dell’adultero). Per
l’uomo il tradimento era riconosciuto come «diritto a una trasgressione maggiore»,
differentemente che per la donna. Inoltre al marito, ed eventualmente padre, era riconosciuto
pieno potere decisionale sull’educazione disciplinare della famiglia.
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Durante le migrazioni dalla campagna alla città descritte da Tilly e Scott l’istituzione
familiare muta e da “famiglia contadina” diventa “famiglia operaia”: a trasformarsi è tanto
l’assetto paesaggistico che vede gli strati rurali inurbarsi e i contadini diventare “proletari
urbani”, quanto l’assetto strutturale familiare. Nella famiglia operaia sembra, in media,
ridursi il numero dei figli: la principale conseguenza imputata all’industrializzazione consiste
nel mutamento del ruolo sociale e familiare ricoperto dalla progenie, non più “forza lavoro”
utile all’intera comunità (braccia forti per i campi), ma “bocche da sfamare”, un onere talvolta
insolvibile per le finanze familiari. Ciò si può affermare in virtù delle nuove modalità
produttive, disomogenee tra i vari comparti, che l’industrializzazione portò con sé,
sviluppando quindi un nuovo mercato del lavoro che obbligò gli operai ad allontanarsi da casa
e cessare la tradizionale produzione familiare. Se tale processo favorì per questi soggetti la
stabilizzazione del genere familiare nucleare, al contrario gli operai impiegati nel settore
manifatturiero beneficiarono di una certa solidità economica ed abitativa, permettendogli
quindi di allargare la famiglia e favorire la permanenza in essa dei figli, ora pienamente
contributori del bilancio familiare. Inoltre l’ uso strategico dei legami di parentela garantì non
solo un miglior inserimento nel mercato del lavoro ma anche migliori condizioni di vita sotto
ogni aspetto. In alcune città (come ad esempio Napoli, nota città Italiana) si incentivò il
lavoro a conduzione familiare, tanto che nel censimento del 1851 si rilevò un incremento
della complessità strutturale familiare. Questa dinamica si definisce “economia familiare
9
Chiara Saraceno, Mutamenti della famiglia e politiche sociali in Italia, Bologna, Il Mulino, 2003.