4
INTRODUZIONE
La nozione di interpretazione, al pari della nozione di norma, si configura come centrale nello studio del
diritto. Non ci si può, infatti, assolutamente esimere dall’affrontare in via generale, almeno implicitamente, il
problema ermeneutico, perché esso è il punto di passaggio obbligato tanto per il teorico quanto per il giurista
pratico. Del resto, tutti i giuristi interpretano, moltissime delle loro attività potendo venir qualificate come
attività latu sensu “interpretative”. D’altro canto, non c’è tesi di diritto positivo che non venga presentata come
una ”interpretazione”, ossia come il risultato o il prodotto di un’attività interpretativa. Attraverso
l’interpretazione vengono – secondo le diverse concezioni – accertati o costituiti o in parte accertati e in parte
costituiti i precetti che rappresentano l’oggetto della conoscenza giuridica. Non c’è allora da stupirsi se giuristi,
filosofi e sociologi del diritto si sono spesso soffermati a riflettere su questo tema, sia elaborando teorie che
mirano a descrivere le prassi effettive degli interpreti, sia elaborando dottrine che prescrivono come si debba
interpretare.
Il termine “legge”, oltre la norma o regola di condotta, finisce per indicare anche il momento creativo della
regola, cioè la fonte della norma e, storicamente, la fonte per antonomasia delle norme o regole di condotta:
vale a dire la legge del Parlamento, suprema espressione della sovranità popolare. La legge, intesa nella seconda
delle accezioni appena considerate, consta di proposizioni, di uno o più enunciati linguistici eventualmente
raggruppati in articoli. Da questi enunciati l’interprete ricava, secondo alcuni, o costruisce, secondo altri, le
norme. È dunque attraverso l’interpretazione che si determina il significato del testo e cioè la norma giuridica,
ricavata secondo alcuni all’interno del testo (e quindi semplicemente conosciuta dall’interprete) ovvero, secondo
altri, costruita dall’interprete stesso.
Le principali teorie dell’interpretazione che si contendono il campo nel pensiero giuridico moderno sono
sostanzialmente tre: una teoria cognitiva (o formalistica), una teoria scettica (o realista), ed una teoria mista (o
intermedia), che tenta di conciliare le due precedenti.
La teoria cognitiva sostiene che l’interpretazione è “scoperta”, conoscenza empirica o del significato
“proprio”, oggettivo, dei testi normativi (ad es.: le leggi) o della soggettiva intenzione delle autorità normative
(ad es.: il Parlamento). “The discovery of the law – scrive a tal riguardo J. Austin - which the lawgiver intended
to establish, is the object of genuine interpretation: or (…) its object is the discovery of the intention with which
he constructed the statute, or of the sense which he attached to the words wherein the statute is expressed”
1
.
Tale concezione (teoria “conoscitiva” dell’interpretazione), che vede nell’interpretazione un’attività di mera
conoscenza, non di volontà, di carattere puramente tecnico, deriva dal considerare la normazione una sfera
nettamente distinta da quella dell’interpretazione: l’interprete viene a configurarsi come soggetto
istituzionalmente distinto e contrapposto al legislatore; esso conosce norme già prodotte da quest’ultimo, norme
che, dunque, preesistono all’attività interpretativa. Tale visione dell’impresa ermeneutica soggiace alla
credenza che le parole abbiano un significato “proprio”, “intrinseco”, dipendente dalla relazione oggettiva tra
parole e cose; o alla credenza che le autorità legislative abbiano una volontà come gli individui oppure
un’intenzione univoca e riconoscibile. Ragionando in tal guisa, scopo dell’interpretazione diventa
semplicemente scoprire questo significato e questa intenzione preesistenti, già incorporati nelle leggi e in genere
nei testi normativi. Per ogni enunciato normativo dovrebbe esservi dunque sempre una, ed una sola,
interpretazione “vera”.
La direttiva metodologica formalistica postula di conseguenza che ci si debba attenere, nell’interpretazione di
un documento legislativo, ove la lettera della legge non sia oscura, ad un’interpretazione cosiddetta
“dichiarativa”, attribuendo all’enunciato il senso più immediato ed intuitivo. Essa può sintetizzarsi nel brocardo
in claris non fit interpretatio.
La teoria cognitiva ritiene, infine, che i sistemi giuridici siano necessariamente “completi” (ossia privi di
lacune) e coerenti (ossia privi di antinomie), in modo tale che ogni controversia ricada nell’ambito applicativo
di una sola norma giuridica preesistente. Non vi sarebbe allora spazio per la discrezionalità giudiziale: le
decisioni dei giudici essendo determinate esclusivamente da norme giuridiche preesistenti. Quindi, ogni
questione di diritto sarebbe suscettibile di una sola risposta giusta o corretta.
A conclusioni radicalmente antitetiche pervengono invece le teorie realiste (o scettiche) dell’interpretazione
giuridica, le quali costituiscono oggetto precipuo della presente tesi. Esse considerano elementi costitutivi del
diritto non le statuizioni, bensì formulazioni linguistiche di significato indeterminato. Prima dell’interpretazione
1
J. AUSTIN, Lectures on Jurisprudence or The Philosophy of Positive Law, London, Murray, 1911, pp. 1023-1024.
5
vi sono semplici testi (disposizioni, enunciati normativi); le norme (prescrizioni, statuizioni) non sono altro che
il significato che, di volta in volta, a tali enunciati l’interprete attribuisce. La norma quindi non è il presupposto,
l’oggetto distinto o separato dall’attività interpretativa, ma ne costituisce al contrario il risultato. Per la teoria
scettica, dunque, l’attività ermeneutica è sempre volitiva e creativa, l’interpretazione essendo in buona sostanza
valutazione e decisione. Citando J. C. Gray: “After all, it is only words that the legislature utters; it is for the
courts to say what these words mean; that is it is for them to interpret legislative acts. (…) And this is the reason
why legislative acts, statutes, are to be dealt whit as sources of Law, and not as a part of the Law itself. (…) The
courts put life into the dead words of the statute”
2
.
I sostenitori delle teorie scettiche osservano che i testi normativi emanati dalle autorità legislative sono
suscettibili di interpretazioni sincronicamente configgenti e diacronicamente mutevoli. Da ciò essi concludono
che le norme giuridiche non preesistono all’interpretazione, essendone piuttosto il risultato. Di conseguenza, il
giudice non viene chiamato a risolvere un problema intellettivo, conoscitivo, bensì un problema di politica
legislativa paragonabile a quello del legislatore di emanare leggi “giuste” nella cornice della Costituzione. Come
scrive G.Tarello: “Il processo interpretativo si esercita su di un enunciato (…) e perviene alla norma; la norma
non precede come dato, bensì segue come prodotto, il processo interpretativo”
3
.
Benjamin Hoadley, vescovo di Bangor, citato da Gray, affermava in proposito: “Whoever hath an absolute
autority to interpret any written or spoken laws, it is truly the Law-giver to all intents and purposes, and not the
person who first wrote or spoke them”. Ed inoltre: “It may be urged that if the Law of a society be the body of
rules applied by its courts, then statutes should be considered as being part of the Law itself, and not merely as
being a source of the Law; that they are rules to be applied by the courts directly, and should not be regarded
as fountains from which the courts derive their own rules. And if statutes interpreted themselves, this would be
true; but statutes do not interpreted themselves; their meaning is declared by the courts, and it is with the
meaning declared by the courts, and with no other meaning, that they are imposed upon the community as Law
“
4
.
L’assunzione soggiacente al suddetto modo di intendere l’attività ermeneutica è l’idea che le parole non
abbiano affatto un significato proprio, giacchè ogni parola può avere o il significato ad essa attribuito dal
parlante o il significato ad essa attribuito da ciascun ascoltatore, e la coincidenza tra questo e quello non è in
alcun modo garantita. In altri termini, mentre, secondo una conclusione formalistica, l’opera dell’interprete
sarebbe un’attività meramente conoscitiva, per le concezioni più radicalmente realiste non vi sono mai norme
prima dell’interpretazione: le norme giuridiche non preesistono all’interpretazione, ma ne sono anzi il risultato.
Inoltre, secondo la teoria “scettica” dell’interpretazione, è un dato di fatto che qualunque sistema giuridico
realmente esistente sia incompleto e incoerente. Di fronte a lacune e/o ad antinomie, i giudici creano
inevitabilmente norme nuove e/o derogano a quelle esistenti. In entrambi i casi, essi agiscono come legislatori.
Non si può pertanto tracciare una distinzione netta tra legislazione e giurisdizione. Conseguentemente, la scienza
giuridica ha quale suo principale oggetto le decisioni dei giudici e delle pubbliche autorità; solo l’attività degli
interpreti (e più in particolare quella dei giudici: interpreti dotati di particolare autorità) può essere quindi
studiata e classificata.
La teoria mista (o “mediana”), intermedia tra le due precedenti, sostiene che l’interpretazione è: a) talvolta,
il risultato di un processo di conoscenza; b) talaltra, il prodotto di una decisione discrezionale dell’ermeneuta.
Due sono le versioni della suddetta teoria. La prima versione sottolinea l’irriducibile “trama aperta” (ossia la
vaghezza, l’indeterminatezza) di quasi tutte le disposizioni giuridiche, formulate prevalentemente in linguaggio
naturale, per mezzo di termini classificatori generali. Essa distingue, entro il significato di ogni norma, un
“nocciolo” di significato accettato e una “penombra” di incertezza.
Conseguentemente, data una norma qualsivoglia, vi sono controversie che sicuramente ricadono nel suo
campo di applicazione (casi facili e chiari), come pure controversie marginali per le quali l’applicazione della
norma è discutibile (casi difficili). I giudici non usano alcun potere discrezionale quando decidono un caso
chiaro. Ma la discrezionalità del giudice è inevitabile ogniqualvolta si debba decidere un caso difficile: in tali
circostanze, infatti, la decisione esige una scelta tra soluzioni diverse e configgenti. In altre parole, di fronte ad
un caso chiaro, che ricade nel nocciolo di significato accettato della formulazione normativa, il giudice si limita
a “scoprire” e “descrivere” questo significato “oggettivo”. Di fronte ad un caso difficile - né chiaramente incluso
2
J. C. GRAY, The Nature and Sources of the Law, New York, Columbia University Press, 1948, pp. 124-125.
3
G. TARELLO, Diritto, enunciati, usi. Studi di teoria e metateoria del diritto, Bologna, Il Mulino, 1974, p 72.
4
J. C. GRAY, The Nature and Sources of the Law, cit., p. 102.
6
nel, né chiaramente escluso dal, campo di applicazione della norma- il giudice è invece costretto a “decidere”
un significato e ad “ascriverlo”alla norma.
Emblematiche espressioni di tale posizione “mediana” sono certamente le teorie di Herbert Hart e Genàro
Carriò, secondo le quali l’interpretazione può essere (nelle “zone di luce”) scoperta, descrizione, di significato,
ovvero (nelle “zone di penombra”) mera ascrizione di significato. «La solucion de los casos del primer tipo –
scrive al riguardo Carriò - puede ser adeguatamente descripta usando expresiones tales como “el interprete
descubriò o hallò el significado que tal o cual norma tiene” o bien “el interprete applicò tal o cual regla en su
significado objetivo” (…) En cambio, la solucion de los casos del segundo tipo (…) no puede ser descripta de
ese modo sin engendrar graves equivocos. El caso no està caramente includo ni caramente excluido por el
significado descubribile de las palabras de la ley. El interprete (…) se ve forzado a decidir, bajo su
responsabilidad, si esos hechos estan o no comprendidos por las expresiones linguisticas que, a ese respecto,
son indeterminadas. Su decision, en consecuencia, no està controlada por ellas. Para considerar el caso como
includo o como excluido el interprete se ve forzado a adjudicar a la regla a un sentido que, en lo que hace al
caso presente, hasta ese momento no tenia. (…) Ese sentido o sognificado (…) ha sido puesto por el interprete
sobre la base de una decision no determinada por los habitus linguisticos astablecidos»
5
.
Non è chiaro se, entro questa teoria, i casi difficili debbano essere considerati lacune o no. Ad ogni modo, la
teoria mista sembra convenire con quella scettica che i sistemi giuridici non siano né completi né coerenti.
Diversamente dalla prima, la seconda versione della teoria mista distingue non tra casi facili e casi difficili,
ma tra testi chiari e testi oscuri. Mentre la prima versione sostiene che la discrezionalità giudiziale dipende dal
“mondo” (la varietà di controversie), la seconda versione sostiene invece che la discrezionalità giudiziale
dipende dal “linguaggio”, ossia dalla formulazione delle norme giuridiche. Per questa versione, l’interpretazione
comporta comunque discrezionalità; tuttavia, l’interpretazione non è un passaggio necessario, ineludibile, di
qualsivoglia interpretazione giurisdizionale. Essa è talora superflua.
Se l’interpretazione occorra o no dipende allora dalla formulazione del testo. Ciò significa che, quando un
testo è chiaro, non vi sono dubbi circa il significato che esso incorpora e non vi è spazio per l’interpretazione,
dal momento che “interpretatio cessat in claris (ovvero ”in claris non fit interpretatio”). Per contro, quando
un testo giuridico è oscuro, nascono dubbi intorno al suo significato e l’interpretazione diventa necessaria. Ergo:
le decisioni giurisdizionali non hanno carattere discrezionale quando danno applicazione ad un testo chiaro, ma
sono il prodotto di una scelta discrezionale ogniqualvolta danno applicazione ad un testo ambiguo.
Le tre succitate teorie dell’interpretazione giuridica possono essere anche ricostruite, mutuando una
classificazione già operata da Riccardo Guastini, come altrettante “analisi (tra loro configgenti) degli enunciati
interpretativi, intesi come conclusioni di discorsi interpretativi”
6
.
a. Secondo la teoria cognitiva, gli enunciati profferiti da giuristi e giudici nell’interpretazione dei testi
normativi hanno natura descrittiva: sono cioè enunciati veri o falsi. Interpretare vuol dire connettere
parole e significati, e ciò consiste nel descrivere empiricamente dei significati preesistenti, già
incorporati nelle parole.
b. Secondo la teoria scettica, i discorsi interpretativi non sono né veri né falsi. Non vi sono significati
incorporati nelle parole prima dell’interpretazione. Essendo l’interpretazione “costitutiva” dei
significati, connettere parole e significati non equivale affatto a descrivere: gli interpreti, e in particolare
i giudici, ascrivono significati alle formulazioni normative.
c. Infine, secondo la teoria mista, bisogna distinguere due tipi di discorsi interpretativi. Nei casi facili e/o
di fronte a testi chiari, gli interpreti si limitano a descrivere il significato preesistente della formulazione
normativa, in conformità all’uso diffuso (cioè alle regole linguistiche accettate) entro una data comunità
linguistica. In tali casi, interpretare consiste semplicemente nello scoprire il significato accettato.
Pertanto, si può ritenere che questi discorsi interpretativi siano veri o falsi. Di fronte a testi oscuri, al
contrario, gli interpreti ascrivono un significato alla formulazione normativa di cui si tratta.
L’interpretazione prescelta diviene allora il risultato di una decisione discrezionale. Pertanto,in tali
ipotesi, i discorsi interpretativi non sono né veri né falsi.
Delle tre succitate teorie dell’interpretazione giuridica, quelle che maggiormente interessano l’oggetto della
presente tesi sono senza dubbio le ultime due, vale a dire quella scettica (da Noi qualificata come “estrema”) e
quella cosiddetta “mediana” (da Noi definita scettica “moderata”). L’adesione allo scetticismo estremo è
5
G. CARRIO’, Notas sobre derecho y lenguaje, Buenos Aires, Abeledo-Perrot, II ed., 1979, p. 57.
6
R. GUASTINI, Enunciati interpretativi, in “Ars interpretandi. Annuario di ermeneutica giuridica 1997”, Padova,
Cedam, 1997, pp. 39-40.
7
appannaggio in primis del Realismo giuridico americano: un movimento che nella prima metà del XX secolo
produsse, attraverso la speculazione di teorici del calibro di Karl Llewellyn, Max Radin e Jerome Frank, una
serrata critica all’argomentazione giuridica tradizionale e alla concezione sillogistica del giudizio, diretta a
smontare il “mito” positivista della certezza del diritto.
In epoca più recente (precisamente a partire dal 1977), la vis critica dell’ormai estinto movimento realista
statunitense ha trovato una logica prosecuzione in quella pleiade di teorici che vengono a formare (pur con
diversità di accenti e dissonanze) il Critical Legal Studies Movement. Tra gli esponenti più autorevoli di questo
composito movimento, fortemente critico nei confronti dell’ideologia nell’attività giudicante, spiccano
senz’altro i nomi di Mark Tushnet, autore di un’accurata analisi critica del diritto costituzionale americano; ma
soprattutto di Dunkan Kennedy, che (alla luce del suo radicale nichilismo) identifica diritto e politica,
individuando i comportamenti strategici generalmente sottesi all’opera interpretativa. Esiti radicalmente scettici
ha avuto altresì il Reader Response Criticism elaborato dal critico letterario statunitense Stanley Fish, con la sua
rivendicazione della forza costitutiva della ricezione e la sua concezione dell’interpretazione non come ricerca
dell’intentio auctoris o dell’intentio operis, bensì come mera imposizione dell’intentio lectoris.
Nonostante lo scetticismo “estremo” sia fenomeno prettamente statunitense, non sono mancati in Europa
illustri teorici che hanno aderito alle sue posizioni ermeneutiche estremistiche. Basti pensare a Michel Troper,
con la sua teoria realista dell’interpretazione costituzionale, o alla posizione eccentrica rispetto al realismo
giuridico scandinavo del danese Alf Ross. In italia, poi, è stata addirittura individuata una “Scuola scettica
genovese”, capeggiata da Giovanni Tarello e Riccardo Guiastini. Per non parlare, inoltre, della posizione
fortemente nichilistica di Pier Giuseppe Monateri, sostenitore dell’assenza radicale di fondamento
dell’interpretazione giuridica.
La teoria ermeneutica definita “mediana” ha condotto, a sua volta, a posizioni scettiche “moderate”, nelle
quali oggi si riconosce, sebbene con diverse sfumature teoretiche, la più parte dei teorici del diritto. Oltre ai già
citati Herbert Hart e Gènaro Carriò, sostenitor della trama “aperta” del diritto, si debbono citare Hans Kelsen
(al cui formalismo scientifico si accompagna un saldo antiformalismo interperetativo), Eugenio Buligyn e
Richard Posner, fondatore dell’Economic Analysis of Law.
L’ultima parte della presente tesi è dedicata ad una succinta rassegna delle principali posizioni giusfilosofiche
anti-scettiche ed anti-decisioniste, facenti capo a teorici del diritto di scuola analitica (Scarpelli, Luzzati, Villa,
Ferrajoli) ed ermeneutica (Zaccaria, Pastore, Dworkin).
9
PARTE PRIMA
IL REALISMO GIURIDICO AMERICANO
SOMMARIO: 1. Caratteri generali del realismo giuridico. – 2. La critica dell’argomentazione giuridica e della
concezione sillogistica del giudizio. – 3. La critica del processo di ritrovamento della norma regolatrice di un
caso: a) scelta del precedente; b) estrazione di una “regola” da una decisione. – 4. Critica dei processi di
individuazione delle norme generali. Il problema dell’interpretazione nel pensiero dei realisti. – 5. Lo
scetticismo sulle norme nel pensiero di K. N. Llewellyn. – 6. Fact Skepticism: Jerome Frank ed il “mito” della
certezza del diritto.
1. Caratteri generali del realismo giuridico
Realismo giuridico scandinavo e realismo giuridico americano si sono sviluppati ed hanno espresso le loro
idee più significative attorno alla prima metà del secolo (con ulteriori sviluppi nei lustri immediatamente
successivi da parte del realismo scandinavo).
Le origini del realismo giuridico scandinavo si possono far risalire ai primi decenni del Novecento, con la
pubblicazione dei primi saggi dello svedese Axel Hagerstrom, fondatore del movimento. Il realismo
scandinavo prosegue, in Svezia, con Vihlelm Lundstedt e Karl Olivecrona.
Un altro ramo del realismo scandinavo è rappresentato dal danese Alf Ross, anch’egli discepolo di
Hagerstrom, ma che, oltre all’influsso hagerstromiano ha anche subito quello di Hans Kelsen e per certi versi
si ricollega alla dottrina del realismo giuridico americano.
Il realismo giuridico è una prospettiva empirica sviluppatasi sul piano giuridico. Esso considera il diritto
come un “fatto”. E questo fatto in cui consisterebbe il diritto è di natura essenzialmente psicologica,
contrariamente a quanto aveva ritenuto il vecchio positivismo.
Il “realismo” è l’elemento, la prospettiva comune ai due movimenti: i due realismi però si colorano molto
diversamente sotto l’influsso del differente tipo di condizioni socio-culturali in cui sorgono ed operano.
Il realismo giuridico scandinavo deriva il suo nome dalla cosiddetta “tesi della realtà” di Axel Hagerstrom:
essa consiste nella “affermazione del dualismo soggetto-oggetto”, sostiene cioè, contro la filosofia idealistica
imperante in Svezia all’inizio del secolo, che “nell’atto conoscitivo il soggetto viene a contatto non già con
una modificazione della propria coscienza ma con un oggetto, con una realtà ben distinta dal soggetto
medesimo. Questa realtà oggettiva si identifica esclusivamente con il mondo dell’esperienza sensibile, con la
totalità dei fenomeni inscritti nelle coordinate spazio-temporali: tale identificazione viene effettuata sulla base
del principio di non-contraddizione assunto come legge portante non solo del nostro pensiero, ma anche della
realtà stessa”
7
.
Ne consegue che ogni asserzione relativa a realtà di tipo diverso da quella sensibile (realtà spirituale o
soprasensibile in genere) è da considerarsi senza senso. Preterea censo metaphysicam esse delendam, era il
motto di Hagerstrom, dove per metafisica intendeva appunto tutte quelle nozioni che non possono essere ridotte
in termini fattuali o di relazioni comunque esistenti nel mondo empirico.
Trasportata e applicata nel campo giuridico, questa teoria ha portato ad una puntuale revisione e al controllo
delle costruzioni concettuali fondamentali usate nel linguaggio giuridico, per smontarle e disarticolarle alla
ricerca dei fatti corrispondenti (“il diritto come fatto” come dirà Olivecrona): e per scartarle nei casi in cui tali
fatti non vengano riscontrati. Hagerstrom e gli altri realisti hanno anche cercato di spiegare queste nozioni
“metafisiche” come il “prodotto di meccanismi psicologici di introiezione” e come “false oggettivizzazioni di
sentimenti di costrizione provocati dall’abitudine e dalla pressione sociale, o addirittura risalenti ad origini
magico-religiose”
8
.
Anche il realismo giuridico americano (nel cui alveo germina uno scetticismo interpretativo con sfumature
radicali) prende le mosse dalla realtà, ma il taglio è subito più giuridico che filosofico, pur senza dimenticare
che esso è stato influenzato da una prospettiva filosofica generale, il pragmatismo di William James e di John
Dewey. Non è opportuno parlare di “scuola realistica” cioè non un gruppo con un unico “credo” ufficiale ed
accettato da tutti, date le differenze anche notevoli che sussistono nel pensiero dei vari autori realisti; è tuttavia
possibile parlare del realismo giuridico americano come di un movimento di pensiero caratterizzato dalla
7
E. PATTARO, Il realismo giuridico scandinavo – I. Axel Hagerstrom, Bologna, Clueb, 1974, pp. 29.
8
S. CASTIGNONE, La macchina del diritto. Il realismo giuridico in Svezia, Milano, Comunità, 1974, p. 41.
10
prevalente considerazione di alcuni problemi tipici, dall’uso di determinate premesse metodologiche e dalla
comunanza di alcuni risultati tra gli esponenti. Karl Llewellyn sostiene che, anche se non la pensano allo stesso
modo su tutti i problemi affrontati, tuttavia “da certi comuni punti di partenza essi si sono spinti su linee di
ricerca che sembrano formare un tutto unico; tra questi autori si verifica “una rilevanza reciproca, una
complementarità, una connessione tra i risultati cui pervennero “quasi fossero guidati da una mano
invisibile”
9
.
I maggiori esponenti di questo movimento sono, oltre al succitato Llewellyn,: Thurman Arnold, Joseph W.
Bingham, Felix Salten Cohen, Walter Wheeler Cook, William O. Douglas, Jerome Frank, Leon Green, Herman
Oliphant, Max Radin ed Hessel E. Yntema.
Alla base della critica realistica sta l’impostazione del problema della conoscenza giuridica nei termini
della distinzione tra “ciò che è” e “ciò che deve essere”. Stabilendo tale distinzione, il realista assume essere
oggetto della propria ricerca non un sistema normativo bensì delle serie di fatti. Le proposizioni normative
formulate dagli operatori giuridici divengono oggetto di conoscenza in quanto assunte come formulazioni, cioè
come fatti. Conseguentemente, le proposizioni prescrittive (contenute nelle leggi e nelle decisioni giudiziarie)
sono studiate come fatti storici, e sono studiate come formulazioni intese a giustificare, a prevedere, o ad
influenzare i comportamenti degli operatori giuridici o di talune categorie di operatori giuridici. Vengono così
distinti rigidamente i “precetti” dalle “pratiche” ed il giurista si trova a studiare non solo una serie di precetti,
ma una serie di precetti ed una serie di pratiche. La relazione tra i precetti e le pratiche essendo soggetta a
mutamenti storici, l’oggetto dello studio del giurista (il “diritto”) appare continuamente mutevole:
specialmente se si tiene conto della continua formazione di nuove pratiche e formulazioni di nuovi precetti nel
corso dell’attività giudiziaria (nella “creazione giudiziale di diritto”)
“Il realismo (dei realisti americani) – scrive Pound – significa fedeltà alla natura, esigenza di descrivere i
fatti così come realmente sono, invece di descriverli come si immagina che siano, o come si desidera che siano,
o come si ritiene che dovrebbero essere”
10
. Nelle parole di Jerome Frank realismo significa “descrizione di
ciò che è, in contrasto alle visioni romantiche, o fantastiche, tendenti ad abbellire la realtà, e a sostituirla con
quella esistente solo nei desideri”
11
. Tutto questo viene applicato direttamente al campo dei giudici, alla realtà
del diritto rappresentata dalla law in action in contrapposizione alla law in books, indagando “su ciò che i
tribunali fanno effettivamente, e non ciò che essi dicono di fare”.
“Non la ragione addotta da un particolare giudice a sostegno della sua decisione e neppure tutto il
complesso di regole accumulatesi attraverso i secoli sotto la spinta degli avvenimenti storici, ma il
comportamento effettivo, l’azione riflessa di tutte le parti interessate alla risoluzione della controversia,
costituiscono l’unico vero oggetto di qualsiasi studio che voglia essere scientifico. Questi comportamenti
possono venir osservati empiricamente, classificati statisticamente ed interpretati induttivamente dal giurista
scienziato, precisamente come le abitudini delle formiche vengono descritte e classificate dall’entomologo
(…) seguendo un behaviorismo puramente empirico e rinunciando a ricercare la razionalità e il fine, la
giurisprudenza uscirà finalmente dal dominio della metafisica per assurgere trionfalmente al suo stadio più
elevato, lo stadio del suo sviluppo scientifico”
12
. I realisti americani scoprono in questo modo che la sequenza
abitualmente accettata: “prima gli enunciati normativi che contemplano il caso e poi la decisione del giudice”,
non corrisponde al funzionamento effettivo del diritto.
L’ordine dei fattori deve perciò essere così invertito: “prima il giudice arriva ad una decisione sulla base di
una serie di elementi che sono la sua ideologia della giustizia , l’idea che si è fatto degli interessi in causa, e
persino le sue idiosincrasie personali, palesi o occulte, e poi va alla ricerca delle norme e dei precedenti da
applicare al caso e che possono servire per giustificare la sua decisione”
13
. Il tutto pur manifestando grande
omaggio formale per la lettera degli enunciati normativi e dei precedenti. I realisti americani dimostrano,
infatti, come un giudice (oppure un avvocato) possa arrivare a conclusioni diverse pur partendo da premesse
simili, con grande dovizia di esempi tratti da casi specifici discussi davanti ai tribunali.
9
K .N. LLEWELLYN, Some realism about realism. Responding to dean Pound, in “Harvard Law Review”, vol. 34,
1931, p. 1222 ss.
10
R. POUND, The Call for a Realistic Jurisprudence, in “ Harvard Law Review”, 1931, p.697.
11
J. FRANK, Are Judges Human ?, in “ University of Pennsylvania Law Review “, 1931, p. 18.
12
P. ARONSON, Tendencies in American Jurisprudence, in “Toronto Law Review”, vol. 4, 1941, p. 103.
13
G. TARELLO, Il realismo giuridico americano, Milano, Giuffrè, 1962, pp. 151 ss.
11
E’ evidente in questo modo di concepire l’argomentazione giuridica l’influsso del pragmatismo, che può
essere considerato la matrice filosofica del realismo americano. Scrive a tal proposito Dewey: “As a matter
of fact, men do not begin thinking with premises. They begin with some complicated and confused case,
apparently admitting of alternatives modes of treatment end solution. Premises only gradually emerge from
analysis of the total situation. The problem is not to draw conclusion from given premises; that can be best
done by a piece of inanimate machinery by fingering a keyboard. The problem is to find statements of general
principle and of a particular fact which are worthy to serve as premises”
14
.
“Il precedente ha due facce, come Giano“, scrive Llewellyn, e vi sono delle tecniche argomentative
perfettamente legittime (ad es. quella “allargata” e quella “ristretta“ del precedente) che permettono di
utilizzare i precedenti che servono e di sbarazzarsi di quelli sgraditi. “Si tratta non di una teoria unica o di una
sola linea di pensiero, ma di due, e di due che, se applicate contemporaneamente allo stesso precedente,
risultano contraddittorie. Lo stesso avvocato nello stesso esposto, lo stesso giudice nello stesso parere,
possono usarle tutte e due”
15
. Questo è reso possibile dalla presenza nel sistema di common law americano
della regola dello stare decisis, con vincolatività delle soluzioni dei casi per i giudizi successivi. Poiché oltre
alle giurisdizioni dei singoli Stati vi sono negli U.S.A. anche i diversi gradi di giurisdizione federale, è facile
vedere come sia possibile una frequente difformità di decisioni.
Osservazioni analoghe si possono fare a proposito degli enunciati legislativi, a causa della generalità e della
possibile variabilità di significato dei termini impiegati: “come un evento può essere sussunto a diverse
formulazioni di principi emersi nel corso di decisioni precedenti, così un evento può essere sussunto a diversi
significati presenti in una stessa formula legislativa”
16
.
Il mondo sociale è caratterizzato da continui conflitti tra interessi contrastanti che rischiano di dissolvere la
società. Occorre, dunque, assicurare una composizione razionale di questi conflitti che tenga conto dell’utilità
sociale. Ma questo compito non può spettare ad una funzione mediatrice dello Stato. Lo Stato, attraverso la
funzione legislativa, accetta o respinge la pressione degli interessi in contrasto secondo la logica del potere, e
quindi non può svolgere una funzione mediatrice. Questa funzione spetta alle Corti e pertanto il diritto vero,
nel senso oggettivo del termine, è proprio quello che si fa pragmaticamente attraverso i giudizi delle Corti e
non quello delle norme poste dallo Stato o dei concetti statici elaborati dai giuristi che si lasciano fuorviare dal
“concettualismo giuridico”. Perciò il realismo giuridico americano (che può svolgere queste teorie perché
costituisce una tipica espressione del sistema dello “ordinamento giuridico aperto” vigente nelle società
anglosassoni) ravvisa nella funzione giudiziale il fulcro della esperienza giuridica ed arriva, anzi, ad affermare
con Holmes, che “il diritto non è che la previsione di ciò che il giudice deciderà sui casi che gli vengono
sottoposti”
17
.
I realisti evidenziano poi i caratteri di generalità e astrattezza dei concetti dogmatici, i quali, se da un lato
permettono di coprire un largo spettro di fattispecie diverse fra di loro, dall’altro non consentono di formulare
delle previsioni attendibili sul comportamento dei giudici, non costituendo quindi uno strumento utile per la
scienza giuridica. La scientificità della giurisprudenza, infatti, per i giusrealisti americani consiste nella sua
capacità di dare informazioni dotate di un certo grado di certezza sul modo in cui i tribunali decideranno le
controversie future, al fine di orientare le azioni delle persone interessate. Sorge allora la necessità di non
fermarsi ai paper rules , ossia alle “regole di carta”, ma di andare alla ricerca dei real rules, delle “regole reali”,
delle motivazioni e dei comportamenti effettivi delle corti, tenendo anche conto che la realtà sociale è in
continuo movimento.
I realisti sottoposero ad analisi alcuni tra i più importanti concetti giuridici del common law al finire di
mettere in luce come l’impiego di tali concetti in un contesto normativo provochi necessariamente
l’indeterminatezza delle norme enunciate, dato che si tratta di concetti essi stessi indeterminati, a causa della
loro latitudine. I concetti dogmatici del common law sarebbero infatti stati elaborati in modo da permettere o
provocare la riunione sotto una medesima disciplina di fattispecie che occorrerebbe tenere distinte ove si avesse
riguardo alle conseguenze economiche o sociali: in altre parole, l’impiego dei concetti dogmatici tradizionali
induce il giudice, che intenda conformarsi ad un criterio univoco di politica economica e sociale, o a dare
soluzioni diverse a casi che quei concetti vorrebbero simili oppure a modificare la portata del dogma da un
14
J. DEWEY, Logical Method and the Law, in Landmarks of Law: Highlights of Legal Opinion, a cura di R. D. Henson,
New York, AMS Press, 1960, p. 122.
15
K. N. LLEWELLYN, The Brumble Bush, On our Law and its Study, New York, Ocean Publications, 1951.
16
G. TARELLO, Il realismo giuridico americano, cit., p.180.
17
O. W. HOLMES, The Path of the Law, in “Harvard Law Review”, 1897, p. 461.
12
caso all’altro. In sede di proposte, questi realisti sconsigliano l’impiego delle categorie dogmatiche tradizionali
sia in sede di analisi scientifica sia in sede di motivazione di decisioni, e consigliano invece l’adozione di un
numero molto maggiore di nuovi concetti.
Da quanto detto appare chiaro che il punto centrale della critica realistica della giurisprudenza è costituito
dall’analisi dei concetti giuridici. La stessa critica antinormativistica si svolge, oltre che sul piano della
distinzione tra is e ought, anche sul piano della critica di tutti quei concetti che permettono di stabilire
collegamenti sistematici tra concetti (in primo luogo quello di “diritto”). Più ancora che nei confronti dei
concetti sistematici e dell’ideologia sistematica, i realisti rivolsero la loro attenzione ai concetti dogmatici
mediante i quali avvengono le qualificazioni giuridiche. La critica dell’argomentazione giuridica discende
direttamente dalla critica anticoncettualistica.
Oltre all’influenza del pragmatismo, i realisti americani hanno risentito molto della giurisprudenza
sociologica di R. Pound, il quale concepiva il diritto “non come un organismo, che cresce a causa e per mezzo
di qualche proprietà ad esso inerente, ma…come un edificio, costruito dagli uomini per soddisfare aspirazioni
umane, e continuamente riparato, restaurato e ricostruito e ampliato al fine di venire incontro al crescere e
al variare delle aspirazioni”
18
. Proprio questa esigenza di una scienza giuridica consapevole del continuo
processo di mutamento e di aggiustamento del diritto costituisce una delle caratteristiche fondamentali del
realismo americano, anche se esso, pur avendo raccolto l’aspirazione alla concretezza empirica propria della
giurisprudenza sociologica, si muove poi in maniera autonoma, con metodi e obiettivi diversi e indipendenti.
Ambedue i realismi giuridici, americano e scandinavo, si iscrivono a giusto titolo in quella che è stata
definita “la rivolta contro il formalismo”
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, dovuta all’influsso delle scienze sociali emergenti in quel periodo,
quali la sociologia, la psicologia, la psicoanalisi, la giurisprudenza sociologica, l’istituzionalismo. Nel campo
giuridico in particolare il formalismo era rappresentato dall’atteggiamento tipico del positivismo giuridico
secondo cui il diritto poteva venire sistematizzato per mezzo di concetti dogmatici e di definizioni precostituite.
Contro il formalismo i realisti sostengono l’esigenza di andare al di là dei concetti e delle definizioni per
arrivare a cogliere la “realtà” del fenomeno giuridico. Ma le linee d’attacco sono diverse: gli scandinavi
muovono la loro offensiva soprattutto a livello dei vari concetti di validità, norma, diritto soggettivo e così via,
effettuando un’operazione di “terapia linguistica”. Gli americani, invece, appuntano la loro attenzione
sull’applicazione del diritto, sul processo, sull’operato dei giudici. Una delle ragioni principali di questa
differenza deriva dal diverso tipo di sistema giuridico in cui i due realismi si trovarono ad operare. Quello
scandinavo sorse in un sistema giuridico di tipo codificato; mentre quello americano in un sistema di common
law, in cui vige la dottrina del precedente, il principio dello stare decisis, cioè a dire il principio secondo cui
la decisione del giudice deve essere basata sulle sentenze anteriori.
Montesquieu, in Lo Spirito delle Leggi, aveva affermato che il giudice non è, e non deve essere, nient’altro
che “la bocca della legge”
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, cioè la bocca attraverso cui il diritto, stabilito dal legislatore sulla base di criteri
razionali dedotti dalla natura e dai rapporti tra le cose, parla, dice, decide. Questa frase viene sovente usata per
illustrare in maniera paradigmatica la nuova concezione meccanicistica dell’interpretazione che emerge e si va
diffondendo, in nome della certezza del diritto, durante il processo di codificazione dei secoli XVIII e XIX.
Ebbene, niente potrebbe mostrare meglio la rivoluzione portata in campo ermeneutico dai realisti americani
quanto l’altrettanto paradigmatica frase di Morris Cohen, ripresa poi dal Frank, secondo cui “sarebbe ora di
farla finita con questa “teoria fonografica della funzione giudiziaria”
21
.
Il giudice, l’interprete, non è uno strumento meccanico di mera riproduzione di suoni e di parole:
l’interpretazione è un’operazione viva, attiva, “creativa” di diritto. Attraverso il giudice e il suo giudizio si
esprimono le sempre nuove tensioni ed esigenze sociali, che plasmano, modificano, trasformano dall’interno
le parole della legge per adeguarle alla realtà storica del momento. Questa è indubbiamente la caratteristica più
rilevante del pensiero dei realisti americani, il leit motiv di tutta la loro produzione.
I realisti, sulla scia del Gray e dell’Holmes, portarono la loro attenzione sul momento della decisione
giudiziale al fine di determinare come e perché, indipendentemente dall’esistenza di un precetto che vincola il
giudice a determinate formulazioni precostituite, la decisione ha sempre un carattere “creativo”. La
determinazione del come e del perché costituisce la novità rispetto alle trattazioni di Gray e di Holmes. A
18
R. POUND, Interpretations of Legal History, Cambridge, Mass., Harvard University Press, 1946, p.21.
19
M. G. WHITE, Social Thought in America: the Revolt against Formalism, New York, Beacon, 1949.
20
C. MONTESQUIEU , De l’esprit de lois,1748. Trad. it. di S. Cotta: Lo Spirito delle Leggi, Torino, UTET, 1965.
21
J. FRANK, Law and the Modern Mind, New York, Coward-Mc Cann, 1930, p. 19.