chiuso, dopo un primo grado privo di preclusioni, a seconda che l’intento sia quello di consentire alle
parti di correggere i propri errori mediante un secondo grado di giudizio, ovvero quello di valorizzare il
più possibile il processo di prima istanza, vera sede per l’esame del rapporto controverso tra le parti.
In relazione all’attuale previsione dell’art. 345 c.p.c., le questioni interpretative che occorre tenere in
considerazione sono, per quanto riguarda le nuove eccezioni, la distinzione tra eccezioni in senso
stretto, proponibili solo ad istanza di parte ed espressamente vietate in appello, ed eccezioni in senso
lato, rilevabili anche d’ufficio dal giudice e ammesse anche se proposte per la prima volta in appello; la
possibilità per le parti di introdurre in appello nuove difese che, non potendo essere considerate
eccezioni, vale a dire fatti impeditivi, modificativi o estintivi del diritto fatto valere dall’attore, non
ricadono sotto il divieto di cui all’art. 345 c.p.c.; la discussa possibilità di allegare nuovi fatti a
fondamento delle nuove eccezioni in senso lato.
Per quanto riguarda il divieto di proporre per la prima volta davanti al giudice dell’impugnazione mezzi
di prova nuovi rispetto a quelli dedotti in prima istanza, non è affatto pacifico, né in giurisprudenza, né
in dottrina, cosa debba intendersi per mezzo di prova indispensabile: il significato di questo requisito,
che permette alla prova nuova di trovare ingresso in appello, è stato variamente interpretato, anche con
riferimento ai rispettivi poteri delle parti e del giudice. L’indispensabilità del mezzo istruttorio ha
affaticato gli interpreti anche quanto al suo rapporto con l’altra condizione che permette di sottrarsi al
divieto di cui al terzo comma dell’art. 345 c.p.c.: la non imputabilità alla parte della causa che le ha
impedito di proporre il mezzo di prova in questione nel giudizio di primo grado. All’interno dei mezzi
di prova, una posizione distinta è occupata dai documenti, la cui producibilità per la prima volta in
appello risultava in passato pacifica, ma che è stata messa in discussione da alcune recenti pronunce
della Corte di Cassazione. La questione, quanto alle nuove prove documentali, può essere posta in
termini di economia processuale: la produzione di nuovi documenti in appello, a differenza degli altri
mezzi di prova, non comporta veramente un allungamento della durata del giudizio di seconda istanza?
È questo, come altri, un interrogativo che occorrerà affrontare.
In conclusione della tesi è apparso opportuno fare un breve accenno al problema della compatibilità del
divieto dello ius novorum, come previsto dall’art. 345 c.p.c., con la disciplina del rito sommario in
materia societaria, riformato con il d.lgs. n. 5 del 2003. La diversa impostazione data dal legislatore al
primo grado del giudizio in materia societaria, soprattutto nei casi di applicabilità del processo
sommario, può portare a mettere in dubbio la possibilità di applicare, senza alcun intervento di
adattamento, la disposizione di cui all’art. 345, commi 2° e 3°, c.p.c., al rito societario.
6
CAPITOLO PRIMO: LO IUS NOVORUM NEL CODICE
DI PROCEDURA CIVILE DEL 1865 E NEI SUOI
PROGETTI DI RIFORMA
SOMMARIO: Il codice di procedura civile del 1865: profili generali e struttura del processo di cognizione. – La disciplina
dei mezzi per impugnare le sentenze: in particolare, la disciplina dell’appellazione. – Lo ius novorum. – (Segue): Il divieto
di nuove domande. – (Segue): Interessi, frutti, accessori e risarcimento dei danni. – (Segue): Le nuove eccezioni e le nuove
prove. – I nova nei progetti di riforma del c.p.c.
1.1. Il codice di procedura civile del 1865: profili generali e
struttura del processo di cognizione.
Il tema dello ius novorum ha alimentato il dibattito all’interno della dottrina e della giurisprudenza fin
dall’entrata in vigore del codice di procedura civile del 1865 ed è stato uno dei nodi problematici
affrontati nei numerosi progetti di riforma che si sono succeduti, fino al codice di rito del 1942.
Con l’Unità d’Italia si presentò il problema dell’unificazione legislativa dei vari territori del Regno, i
quali erano in precedenza governati da diversi corpi legislativi
1
: lo scopo era quello sia di eliminare
questa frammentazione legislativa, sia di cementare giuridicamente la nazione, sorta grazie a tanti
sforzi politici e militari. Il nuovo codice di rito si inserì in un momento di grande impegno normativo,
che condusse alla redazione, accanto ad esso, anche del codice civile, in vista di una positiva coesione
tra legge processuale e legge sostanziale
2
. Il progetto del codice fu compilato dal guardasigilli
Giuseppe Pisanelli, che lo presentò al Senato il 26 novembre 1863, accompagnato da una relazione;
dopo la discussione all’interno della Camera dei Deputati, il 2 aprile 1865 fu approvata la legge che
autorizzava il governo a pubblicare il codice di procedura civile, sulla base del progetto Pisanelli.
Venne quindi nominata una Commissione speciale per il codice di procedura civile, dai cui lavori uscì
il testo del codice, il quale divenne legge il 25 giugno 1865 ed entrò in vigore il 1° gennaio 1866. Il
modello a cui si ispirò il legislatore fu il codice piemontese, che a sua volta era basato sul codice
francese del 1807 e sull’ordinanza del 1667
3
. La scelta del modello francese implicava, dal punto di
vista della politica del diritto, un atteggiamento di favore nei confronti dell’iniziativa processuale
esclusiva delle parti, rispetto alla funzione del giudice, del formalismo, rispetto alla semplicità, della
lunghezza e complessità del procedimento, rispetto alla rapidità ed efficienza, del processo ordinario
formale e scritto, rispetto ai più flessibili procedimenti sommari e speciali
4
. Infatti, nella sua Relazione,
il guardasigilli Pisanelli scriveva che «gli elementi costitutivi di un buon sistema di procedura»
andavano individuati nella «sicurezza dei litiganti» e nella «semplicità e celerità nello svolgimento
1
In Piemonte si erano susseguiti due codici, il primo del 1854 e il secondo del 1859; quest’ultimo fu esteso nel 1861 alle
Marche e all’Umbria e, per la parte contenziosa, anche alle province modenesi e parmensi. Nel ducato di Parma veniva
applicato il codice di Maria Luigia del 1820; nel Regno delle Due Sicilie il codice del 1819. I codici citati erano ricalcati sul
modello del Code de procedure civile francese. Invece il regolamento generale giudiziario austriaco vigente dal 1815 in
Lombardia e in Veneto, il codice estense applicato nel ducato di Modena dal 1852, quello del granducato di Toscana del
1814 e il regolamento gregoriano del 1834 in vigore nelle province pontificie, avevano caratteri propri e particolari. Negli
Stati del meridione d’Italia erano in vigore, fin dai primi anni del 1800, sistemi processuali e giudiziari in larga parte
improntati ai principi cardine, introdotti con la Rivoluzione Francese, che tuttora reggono numerosi Stati di diritto, tra cui la
garanzia del diritto di difesa e della disponibilità dei diritti, del doppio grado di giurisdizione, della pubblicità dei processi e
delle udienze, dell’obbligo di motivare le sentenze, dell’imparzialità del giudice, della garanzia del ricorso per Cassazione
per motivi di diritto.
2
CONSOLO, Spiegazioni di diritto processuale civile. Le tutele, Padova, 2003, 10.
3
Questo codice, insieme ad alcuni principi fondamentali usciti dalla Rivoluzione Francese, esercitarono una forte influenza
sull’ordinamento processuale delle nazioni europee.
4
TARUFFO, La giustizia civile in Italia dal ‘700 ad oggi, Bologna, 1980, 114.
7
dell’azione giudiziaria» e affermava però che il primo elemento doveva «prevalere di regola sugli altri
due elementi»
5
.
Il codice venne ripartito in tre settori: uno riguardante il processo di cognizione, all’interno del quale
trovavano la loro disciplina i mezzi di impugnazione, uno riguardante il processo di esecuzione forzata
e l’ultimo concernente i procedimenti speciali. Il processo di cognizione era articolato in due distinti
procedimenti, il rito formale e quello sommario
6
. Il rito formale era caratterizzato da una trattazione
frutto esclusivo dell’iniziativa di parte, da numerosi scambi di memorie, dall’assenza di preclusioni e
termini prefissati, al fine di garantire alle parti il pieno esercizio del diritto di difesa ed evitare che
l’attività processuale di una parte potesse cogliere di sorpresa l’altra, senza darle possibilità di replica
7
;
il giudice interveniva solo qualora si rendesse necessaria una sentenza interlocutoria o la causa fosse
matura per la decisione finale, in modo da non alterare il libero gioco del contraddittorio tra le parti.
Una volta fissata l’udienza collegiale per la discussione e la decisione, scattavano rigide preclusioni per
le parti, che non potevano più alterare i termini della lite, così come fissati nella fase preliminare scritta.
Il rito formale era destinato solo alle cause più difficili e importanti, che rappresentavano circa il 5%
del totale del contenzioso. La lentezza e la macchinosità dovute alla scarsa flessibilità della disciplina
dettata per le nullità e per le sentenze interlocutorie portarono le parti a chiedere sempre con maggior
frequenza l’autorizzazione ad applicare il rito sommario, previsto per le cause semplici o più urgenti:
esso era più semplice e celere ed al suo interno il giudice aveva un ruolo più attivo. Questa tendenza
condusse nel 1901 alla riforma del rito sommario, che divenne il rito normale davanti ai tribunali
8
.
1.2. La disciplina dei mezzi per impugnare le sentenze, in
particolare, la disciplina dell’“appellazione”
I mezzi di impugnazione, distinti in ordinari (l’opposizione del contumace e l’appellazione) e
straordinari (la revocazione, l’opposizione di terzo e il ricorso per Cassazione)
9
, erano disciplinati nel
titolo quinto del primo libro e all’appello era dedicato in particolare il secondo capo (artt. 481 e ss.).
Dalle norme relative ai diversi mezzi di impugnazione emergeva una notevole differenza tra
appellazione e ricorso per Cassazione, da un lato, e opposizione del contumace, opposizione del terzo e
revocazione, dall’altro: i primi due rimedi erano infatti consentiti in tutte le cause come mezzi per
giungere «alla completa discoperta del vero e alla esatta applicazione della legge»
10
, mentre i restanti
tre erano possibili solo in presenza di circostanze eccezionali, la cui dimostrazione era un preliminare
indispensabile per la loro proposizione
11
. L’esecuzione delle sentenze impugnabili con i mezzi ordinari
5
Relazione ministeriale sul Primo Libro di Codice di Procedura civile presentata in iniziativa al Senato dal Ministro
Guardasigilli (Pisanelli) nella tornata del 26 novembre 1863 (c.d. Relazione Pisanelli).
6
Il codice intendeva introdurre un sistema processuale misto, orale e scritto; il contemperamento tra i due schemi venne
attuato in più modi, tra i quali l’introduzione in realtà non di due ma di tre diversi tipi di processo di cognizione: il rito
formale misto, davanti ai tribunali e alle corti d’appello, il rito sommario ad udienza fissa, misto, con prevalenza di oralità,
davanti ai tribunali
di commercio e ai pretori e infine il rito sommario semplice ad udienza fissa, totalmente orale,
davanti ai giudici conciliatori.
7
CODICE DI PROCEDURA CIVILE DEL REGNO D’ITALIA: 1865, Milano, 2004, Introduzione di MONTELEONE, p.
XVIII.
8
L. 31 marzo 1901 n. 107 completata dal regolamento approvato con R.D. 31 agosto 1901, n. 413.
9
Art. 465 c.p.c.
10
MORTARA, Procedura civile, II, Torino, 1902, 5.
11
MORTARA, ibid., riteneva inesatto il criterio di classificazione seguito dalla legge, in quanto, piuttosto, dai mezzi
ordinari l’opposizione del contumace doveva passare in quelli straordinari e viceversa il ricorso per Cassazione dalle
8
era di regola sospesa in pendenza del termine per impugnare, salvo che venisse concessa dal giudice
l’esecuzione provvisoria, mentre le impugnazioni straordinarie non sospendevano l’esecuzione della
decisione precedente. Con questa diversa disciplina dell’esecuzione, sembrava quasi che il legislatore
ritenesse che, quanto alle impugnazioni ordinarie, sulla trattazione avvenuta precedentemente
aleggiasse il dubbio o il sospetto di possibili imperfezioni, fino a che le parti avessero dimostrato di
ritenerla soddisfacente, astenendosi dall’impugnarla, mentre, nel caso delle impugnazioni straordinarie,
la sentenza precedente doveva presumersi immune da vizi, fino ad un diverso esito del giudizio di
impugnativa
12
.
Il giudizio d’appello nacque come reclamo contro la sentenza di un giudice che si trovava in una
posizione di subordinazione rispetto al giudice dell’impugnazione. Una volta venuto meno
l’ordinamento gerarchico, il riesame delle sentenze è rimasto affidato ad un giudice la cui superiorità
spesso è affiancata ad una più complessa composizione dell’organo giudicante stesso.
L’esistenza di una pluralità di istanze all’interno del medesimo procedimento nello Stato moderno non
può fondarsi sulla dipendenza del giudice inferiore da quello superiore, ma riguarda lo scopo pratico di
ottenere la migliore decisione possibile
13
. La ragione che stava alla base di un secondo grado di
giudizio, non era che il primo processo si fosse svolto con qualche deficienza, la quale ultima avrebbe
potuto causare l’ingiustizia della decisione, ma che il secondo procedimento fornisse la prova della
giustizia del primo
14
. Si rinnovava il processo, per il semplice motivo che una parte si lamentava della
sua ingiustizia. L’elemento
positivo di questo sistema si rinviene in caso di conferma della prima sentenza, in quanto quest’ipotesi
sta a significare che due organi giudicanti hanno espresso la stessa opinione
15
riguardo ad un
determinato rapporto controverso. Nel caso contrario, se cioè il giudice di secondo grado accoglie
l’appello riformando la sentenza di prime cure, l’esigenza di giustizia, che imporrebbe di reiterare
l’esame della controversia finché non si pervenga alla doppia conforme, cede il passo alla necessità di
certezza, che impone di arrestare la serie dei riesami anche se non si è ancora ottenuta la doppia
conforme. Carnelutti parlava di “posteriore prevalente”, per indicare il fatto che tra due decisioni che
impugnazioni straordinarie a quelle ordinarie. Tuttavia, non per questo la classificazione fatta dal legislatore era stata
casuale: nei procedimenti di opposizione del contumace e di appellazione si proseguiva lo svolgimento dell’istruttoria, come
continuazione del dibattito svoltosi davanti al giudice di primo grado, «in quanto la riapertura dei termini per l’istruzione
deriva come conseguenza de iure dal fatto stesso della proposta di quei mezzi di reclamo»; il giudice dell’impugnazione
decideva solo dopo l’ulteriore trattazione della causa, confermando o riformando la precedente sentenza (REDENTI, Profili
pratici del diritto processuale civile, Milano, 1938, 501); negli altri tre casi invece, o non si aveva apertura dell’istruttoria,
come nell’ipotesi del ricorso per Cassazione, o la si aveva solo a determinate condizioni e con effetti limitati, come nei
procedimenti di opposizione di terzo e di revocazione; i mezzi straordinari di impugnazione tendevano all’annullamento o
alla revocazione della sentenza impugnata, per vizi di procedura o di contenuto e solo a seguito dell’annullamento o della
rescissione si poteva aprire una nuova trattazione della causa.
12
REDENTI, op. ult. cit., 503.
13
CHIOVENDA, Diritto processuale civile, Napoli, 1923, 391. A coloro che obiettano al principio della pluralità delle
istanze, che, vista la superiorità del secondo giudice, tanto varrebbe affidargli la causa fin dall’inizio, l’Autore replica che
«il giudice, per ottimo che sia può errare e resta poi prevenuto dal suo stesso errore, in modo che è difficile richiamarlo al
vero» e che «l’esistenza di un controllo stimola il giudice inferiore a meglio giudicare, come il giudicato di primo grado
costituisce un freno pel superiore». MORTARA, Procedura civile, cit., 54, afferma che, per non incorrere nell’obiezione
appena citata, converrebbe dare un valore pressappoco equivalente all’autorità delle due sentenze di primo e di secondo
grado. L’esistenza di due giudizi servirebbe inoltre da freno alle ingiustizie derivanti dal «maltalento» e sarebbe, allo stesso
tempo, uno stimolo allo studio severo delle controversie, così da evitare quegli errori che potessero derivare da negligenza o
ignoranza.
14
CARNELUTTI, Lezioni di diritto processuale civile, Padova, 1926, 221 ss.
15
CARNELUTTI, ibid.: in base all’esperienza, si può affermare che se la stessa controversia è sottoposta all’esame di due
diversi giudici, che giungono alle stesse conclusioni nelle rispettive sentenze, diminuiscono le probabilità che la decisione
della causa sia ingiusta. L’Autore paragona la funzione dell’appello a quella della prova di un’operazione aritmetica, in cui
all’aumentare del numero dei giudizi, diminuisce la probabilità dell’ingiustizia della sentenza.
9
dovessero giungere a risultati diversi prevarrebbe quella del giudice di secondo grado. La ragione di
questa prevalenza era rinvenuta dall’Autore nella circostanza che il secondo giudizio perfeziona
l’esame delle parti e utilizza lo stesso lavoro del giudice controllato e quindi il secondo giudice ha a
disposizione un materiale senza dubbio meglio elaborato e disposto per la sua cognizione. A ciò va
aggiunto che nel giudizio di impugnazione le parti dispongono di una migliore preparazione e
ponderazione nella trattazione della causa.
Il principio del doppio grado di giurisdizione (tra i principi fissati dalla rivoluzione francese) può essere
disciplinato parificando il secondo grado al primo ovvero limitando il secondo grado (ad esempio
vietando la deduzione di nuovi mezzi di prova o imponendo di accettare il fatto così come stabilito dal
primo giudice): il legislatore italiano del 1865 scelse il primo modello. Il fatto che ogni causa possa
essere esaminata da due giudici diversi rappresenta un’occasione per le parti di integrare e sviluppare le
proprie difese davanti al secondo giudice: in questo modo il secondo grado di giudizio aveva la
funzione di correggere non solo gli errori del primo giudice, ma anche, soprattutto, gli errori commessi
dalle parti nel corso del procedimento di prima istanza
16
. Il principio del doppio grado di giurisdizione
venne ricondotto da Mortara anche all’esigenza di rispondere alla coscienza pubblica, che non si
sarebbe sentita tranquilla se la decisione del primo giudice, anche se giusta ed imparziale, avesse dato
luogo ad una decisione della lite irrevocabile; e ciò in quanto essa riteneva che la giustizia fosse meglio
garantita se veniva lasciata la possibilità di un doppio esame della causa
17
.
Il doppio esame della medesima controversia metteva capo ad un giudizio unico: la decisione del
giudice d’appello non correggeva o censurava quella del giudice di prime cure, ma si sostituiva ad essa,
in quanto derivante da un esame più maturo e completo della causa
18
. Si parlava per questo, a proposito
dell’appello, di novum iudicium
19
. L’oggetto dell’esame del giudice di secondo grado non era la
sentenza di primo grado, ma direttamente il rapporto giuridico controverso. È vero che il giudice
d’appello prendeva in esame la sentenza di prima istanza e ne faceva la base della sua decisione, ma ciò
accadeva perché, una volta avvenuto un primo esame della causa, era naturale che il giudice d’appello
prendesse in considerazione il lavoro svolto dal primo giudice al fine di semplificare il proprio lavoro.
A parte questo, in realtà il giudice dell’impugnazione conosceva ex novo della causa
20
; egli
pronunciava una nuova sentenza con cui confermava o riformava la decisione emessa dal giudice di
prime cure.
Nel caso dell’appello non si trattava quindi di correggere una qualche anomalia che si era verificata nel
primo processo, ma, indipendentemente da questa, di rifare il processo da capo. Carnelutti parlava, a tal
proposito, di “rinnovazione”, che consisteva nel prendere un nuovo provvedimento, indipendentemente
dall’eliminazione di un’anomalia del procedimento nel quale era stato pronunciato il provvedimento
impugnato, al fine di correggere gli sbagli commessi nel processo precedente
21
.
16
CARNELUTTI riteneva che non ci fosse alcun motivo per ritenere la fallibilità delle parti minore di quella del giudice e
per limitare di conseguenza il beneficio dell’appello alla correzione dei soli errori di quest’ultimo. L’Autore cita l’esempio
del mutamento, totale o parziale, del patrocinio tra il primo e il secondo grado, come sintomo della necessaria revisione in
appello dell’attività delle parti (Sistema del diritto processuale civile, II, Padova 1938, 626).
17
MORTARA, Procedura civile, cit., 55.
18
MORTARA, ibid.
19
L’alternativa a questo tipo di appello è rappresentata dalla cosiddetta revisio prioris instantiae, espressione con la quale si
vuol far riferimento ad un giudizio di secondo grado che ha ad oggetto, non il rapporto controverso, quanto la sentenza del
giudice di prime cure e che, quindi, si avvicina maggiormente al ricorso per Cassazione.
20
CHIOVENDA, Diritto processuale civile, cit., 394
21
CARNELUTTI, Sistema del diritto processuale civile, II, cit., 595 e 624 ss. L’Autore distingue, all’interno dei mezzi di
impugnazione, tra rinnovazione e riparazione, intendendo, con quest’ultima espressione, l’ipotesi in cui il giudice prenda un
nuovo provvedimento, eliminando un’anomalia che ha viziato il procedimento e ha quindi compromesso la giustizia della
decisione impugnata.
10
Il fatto che nella cognizione del giudice d’appello confluisse l’intera causa già decisa dal primo giudice
era confermato anche dalla presenza dell’effetto devolutivo, che stava ad indicare il passaggio della
causa decisa dal giudice “inferiore” alla piena cognizione del giudice “superiore”. Dunque il
procedimento di “appellazione” realizzava la prosecuzione del procedimento di primo grado, che
veniva ripreso dal giudice di seconda istanza nella condizione in cui si trovava prima della chiusura
della discussione
22
. Carattere fondamentale del giudizio d’appello era quindi quello di continuare il
giudizio di prima istanza, permettendo così alle parti di colmare, in un nuovo contraddittorio, le lacune
che la sentenza impugnata aveva avvertito essere presenti nella prima istruttoria. Il procedimento
d’appello dava vita a nuove indagini sia sul tema di fatto, sia sulle ragioni di diritto
che formarono oggetto della sentenza del primo giudice
23
.
Il giudice aveva la stessa cognizione e gli stessi poteri istruttori in base a cui era stata pronunciata la
sentenza di primo grado: l’appellazione faceva parte dei mezzi ordinari di impugnazione, che
consentivano di denunciare qualunque vizio della sentenza impugnata, per il solo fatto di essere parti
del giudizio (diversamente dai mezzi straordinari, per mezzo dei quali era possibile denunciare
solo determinati vizi delle sentenze).
È necessario prendere in considerazione anche il dubbio che può nascere in relazione alla capacità o
meno del procedimento d’appello di avvicinarsi maggiormente ad una decisione che sia giusta, pur
basandosi sugli stessi elementi a disposizione del primo giudice. In realtà l’esperienza ha dimostrato
che, anche se il processo di primo grado non ha presentato anomalie, non è detto che il giudizio
d’impugnazione si svolga nelle stesse condizioni, in quanto c’è in ogni caso un quid novi: tale elemento
di novità è costituito proprio dall’esperienza del compimento del primo giudizio.
Non necessariamente l’oggetto del processo d’impugnazione però coincideva con quello del processo
di primo grado. Questa scarto di ampiezza tra i due procedimenti si riscontrava in due casi. Il primo era
rappresentato dall’impugnazione parziale: di fronte ad una sentenza di primo grado che presentasse più
capi, rispetto ai quali una parte fosse risultata soccombente, l’appellante non insisteva su tutte le ragioni
esposte in primo grado, ma limitava la sua domanda solo ad alcuni capi. Il secondo caso era invece
rappresentato dall’ipotesi inversa, cioè dal problema dello ius novorum, vale a dire della possibilità o
meno di proporre in appello nuove domande, nuove eccezioni e dedurre nuovi mezzi istruttori.
1.3. Lo ius novorum
La disciplina dello ius novorum si trovava, nel c.p.c. del 1865, nell’articolo 490, il quale stabiliva che
«Nel giudizio di appello non si possono proporre domande nuove; se proposte, devono rigettarsi anche
d’ufficio. Possono domandarsi gli interessi, i frutti, gli accessori scaduti dopo la sentenza di prima
istanza, e il risarcimento dei danni sofferti dopo la sentenza stessa. Può proporsi la compensazione e
ogni altra eccezione alla domanda principale. Possono dedursi nuove prove.».
Questa disposizione si poneva in posizione centrale all’interno della disciplina del giudizio d’appello,
in quanto stabiliva i limiti che in esso incontravano le facoltà delle parti e, in corrispondenza, i limiti
dei poteri del giudice. Già nella relazione al nuovo codice, il guardasigilli Pisanelli sottolineava come
l’appello non fosse destinato solo a correggere gli errori dei primi giudici, ma anche, per le parti, a
svolgere più compiutamente tutti gli elementi della questione: perciò le parti potevano far valere nel
nuovo giudizio nuovi mezzi di difesa
24
, pur mantenendo al secondo processo una sostanziale identità
con il primo.
22
CARNELUTTI, ammoniva che in realtà si parla impropriamente di prosecuzione del processo di primo grado, in quanto,
mutando il giudice, si tratta di due processi diversi. Quello che si voleva dire indirettamente con questa espressione è che
valgono per il secondo giudizio alcuni atti compiuti nel corso del primo (Sistema del diritto processuale civile, cit., 638).
23
MORTARA, Procedura civile, cit., 4 ss.
24
Relazione ministeriale sul progetto del codice di procedura civile, n. 352.
11
Da qui la regola prevista dall’art. 490, che poneva, allo stesso tempo, un divieto e una permissione: il
primo riguardava le nuove domande, la seconda le nuove eccezioni e i nuovi mezzi di prova.
Come già affermato in precedenza, con il giudizio d’appello, il processo si rifaceva e le parti e il
giudice potevano e, anzi, dovevano, comportarsi come si sarebbero potuti e dovuti comportare nel
giudizio di primo grado
25
: A ciò si riferiva il legislatore quando permetteva la proposizione di nuove
eccezioni e la deduzione di nuovi mezzi di prova. Proprio in quanto l’appellazione riapriva e
proseguiva il giudizio di prime cure, la cui autorità era sospesa e sottoposta alla condizione della
conferma o della riforma da parte del secondo giudice, non appariva lecito negare l’introduzione di
nuovi elementi, che avrebbero potuto essere proposti già nel precedente grado di giudizio
26
.
La riapertura del processo offriva alle parti la possibilità di migliorare le proprie difese al fine di
ottenere la vittoria e raggiungere quindi il risultato finale verso il quale la parte aveva già in primo
grado orientato la propria attività. La norma enunciava il beneficium nondum deducta deducendi et
nondum probata probandi: con questa espressione si vuole intendere che tutto ciò che avrebbe potuto
farsi in primo grado, fino al momento della chiusura della discussione, poteva farsi in secondo grado
27
;
il compito del giudice d’appello era quello di riesaminare le questioni decise, ma anche di esaminare
quelle che avrebbero potuto o dovuto essere esaminate e decise con la sentenza di primo grado, che
fossero venute in evidenza sulla base di elementi nuovi, anche forniti dalle parti.
La facoltà, così riconosciuta alle parti, di introdurre nova in appello non era illimitata, in quanto doveva
comunque rispettare i confini oggettivi della domanda. Dal principio del doppio grado di giurisdizione
derivava il fatto che presupposto dell’appello fosse l’esistenza di una sentenza di primo grado sul tema
oggetto del giudizio di seconda istanza: con ciò si vuole far riferimento alla coincidenza tra il tema su
cui è stato chiamato a decidere il primo giudice e quello presentato al giudice dell’impugnazione.
Pertanto la decisione che si richiedeva al giudice d’appello doveva essere già stata domandata a quello
di prime cure; l’esistenza di una domanda proposta nel primo giudizio rappresentava un presupposto
della domanda formulata in secondo grado.
All’interno dei confini segnati dalle domande proposte davanti al giudice di prime cure, la Corte
d’appello poteva esaminare la causa con la massima ampiezza e l’oggetto della sua cognizione non si
limitava a quanto le parti avevano fatto nel processo di primo grado: esse infatti, potevano dedurre
nuovi fatti e nuove prove, fermo restando il divieto di introdurre nuove domande.
I maggiori problemi interpretativi dell’art. 490 c.p.c. si registrarono in relazione alla prima parte della
disposizione, cioè a quella relativa al divieto di proporre domande nuove
28
: il dibattito dottrinale e
giurisprudenziale si concentrò soprattutto sul concetto di novità della domanda, in particolare nelle
ipotesi di modifiche in appello della causa petendi. Per quanto riguarda invece le nuove eccezioni non
si registrarono particolari contrasti; la giurisprudenza ammetteva di regola la proposizione di nuove
eccezioni e la deduzione di nuovi mezzi istruttori, benché in tal modo si determinasse una sostanziale
modifica dei termini della controversia.
25
CARNELUTTI, Lezioni di diritto processuale civile, cit., 221 ss.
26
MORTARA, Commentario del codice e delle leggi di procedura civile, Milano, 1923, 444.
27
CHIOVENDA, Diritto processuale civile, cit., 977.
28
Fatte salve le eccezioni espressamente previste dalla legge per quanto riguarda interessi, frutti, accessori e risarcimento
dei danni rispettivamente scaduti i primi e sofferti questi ultimi dopo la sentenza di primo grado (art. 490 comma 2).
12
1.4. (segue): Il divieto di nuove domande
Il divieto di proporre nuove domande in appello risponde al principio del doppio grado di
giurisdizione
29
, il quale impone che ogni causa, salvi i casi
espressamente eccettuati dalla legge, debba poter passare attraverso la cognizione di due tribunali
successivamente
30
. In base a quanto disponeva l’art. 490 erano ammessi tutti i mezzi, anche se nuovi,
che potessero svolgere, chiarire e decidere la stessa causa proposta in primo grado, ma il principio del
doppio esame
31
vietava di introdurre nuove domande, in quanto ciò avrebbe comportato l’introduzione
di nuove cause, che sarebbero state oggetto di un’unica trattazione, quella davanti al giudice di secondo
grado
32
.
Ciò che durante le vigenza del codice del 1865 causò maggiori contrasti interpretativi e
giurisprudenziali fu la definizione di cosa nella pratica potesse considerarsi nuovo in appello, vale a
dire l’individuazione del confine tra domanda nuova, da rigettarsi d’ufficio, e domanda invece
ammissibile. La domanda era considerata nuova innanzi tutto quando si riferiva ad una lite diversa da
quella introdotta con la domanda in primo grado, sulla base degli elementi di individuazione della
domanda, «parti, bene e pretesa»
33
: era vietata la mutatio libelli, mentre era consentita la mera
emendatio libelli.
Il requisito della “novità” della domanda è stato variamente definito all’interno della dottrina e della
giurisprudenza. Carnelutti parlava in proposito di «una questione non esplicitamente né implicitamente
dedotta nel processo di primo grado», che dà dunque luogo ad una lite, o ad una parte di essa, diversa
da quella decisa in primo grado: ciò che contava, ai fini dell’applicazione dell’art. 490 c.p.c., non era
tanto che una questione fosse stata effettivamente decisa dal primo giudice, ma che «potesse essere
decisa in quanto fosse compresa nei limiti della domanda»
34
. Carnelutti propose di risolvere i problemi
che affliggevano gli interpreti di questa norma, facendo riferimento e ponendo attenzione alla
distinzione tra lite e questione, cioè al fatto che il processo di primo grado fosse stato, in ordine alla
domanda relativa, totale o parziale, venendo meno, in questo modo, l’influenza esercitata dal concetto
di causa petendi sulla novità della domanda: se la domanda proposta al primo giudice aveva
abbracciato un’intera lite, si era in presenza di una domanda nuova ove si chiedesse al giudice la
decisione su una lite diversa e non ove gli si presentasse un diverso tema d’indagine attinente alla
medesima lite. Invece in caso di giudizio di primo grado solo su una parte della lite, anche il
mutamento della ragione giuridica doveva cadere sotto il divieto dell’art. 490, qualora la nuova ragione
29
La Corte di Cassazione di Palermo, nella sentenza del 24 ottobre 1889 (in Foro it., Rep. 1890, n. 133) affermava che
«Non può variarsi in appello la domanda proposta in prima istanza e sulla quale fu la lite impegnata, altrimenti verrebbe
privata la controparte del primo grado di giurisdizione sulla stessa domanda».
30
CHIOVENDA individuava in questo principio una triplice garanzia per i cittadini, in quanto affermava che la correzione
di eventuali errori in una sentenza è resa possibile da un giudizio reiterato; inoltre i due giudizi sono affidati a due giudici
diversi, il secondo dei quali si presenta come più “autorevole” del primo (Diritto processuale civile, cit., 976).
31
La regola del doppio grado di giurisdizione non era assoluta: infatti, anche se a determinate condizioni, la legge
ammetteva (ed ammette ancora oggi) la domanda, per la prima volta in appello, di interessi, frutti, accessori e risarcimento
dei danni. Lo stesso principio non veniva invece richiamato in relazione alle nuove eccezioni e deduzioni: la giurisprudenza
dell’inizio del secolo riteneva che «il doppio grado di giurisdizione esiste per il giudizio, o meglio per il processo; ha per
iscopo il doppio esame della lite, della controversia giudiziaria, nel suo complesso, e non già delle singole ragioni, dei
singoli argomenti, che possono essere addotti in difesa del diritto dell’una o dell’altra parte […]» (Corte d’Appello di
Perugia, 21 marzo 1907, in Foro it., 1907, I, 1481).
32
Questo principio si riscontrava già nella Relazione ministeriale sul Progetto del Codice di Procedura Civile del
Guardasigilli Pisanelli (n. 352).
33
CARNELUTTI, Sistema del diritto processuale civile, cit., 629.
34
CARNELUTTI, Lezioni di diritto processuale civile, cit., 221 ss.
13
fatta valere in appello si riferisse ad una serie di questioni (cioè ad una parte della lite) non comprese
nella domanda proposta davanti al giudice di primo grado
35
.
Il requisito della novità della domanda poneva una serie di difficoltà, in quanto non sempre il
mutamento della veste della discussione comportava un cambiamento oggettivo della controversia
oggetto d’esame. Mortara individuava la causa di tali difficoltà nell’ambiguità o, per lo meno
nell’eccessiva larghezza, del significato dell’espressione «causa su cui la domanda è fondata»: secondo
l’Autore, se si intende la «causa» come il titolo o il motivo, insieme di diritto e di fatto, su cui l’azione
è fondata, l’idea di un’azione fondata su cause diverse, che concorrono o si sostituiscono l’una all’altra,
al fine di stabilire meglio l’esistenza del diritto oggetto di controversia, non è in astratto inconcepibile,
né contraria al nostro sistema giuridico
36
. Se rimane identico e unico l’oggetto delle due pronunce, di
primo e di secondo grado, in appello è proponibile la nuova causa petendi, senza cadere sotto il divieto
dell’articolo 490 c.p.c..
Il concetto di causa petendi fu centrale nel dibattito intorno alla novità della domanda: il mutamento
della causa petendi nel procedimento davanti al giudice d’appello anche dalla giurisprudenza non fu
sempre considerato come indicativo del fatto che il giudice si trovasse di fronte ad una domanda nuova,
da rigettare d’ufficio. Inizialmente le sentenze delle varie Corti di Cassazione del Regno ritenevano che
la variazione della causa petendi costituisse domanda nuova, quindi improponibile in appello
37
; in tanto
una tale domanda era inammissibile, anche se non contraddetta dalla parte contraria, in quanto
risultassero estesi i termini della contestazione o se ne cambiasse l’obiettivo
38
.
La giurisprudenza considerava improponibile per la prima volta in appello anche una domanda
subordinata, fondata su una causa petendi diversa da quella della domanda principale fatta valere in
primo grado
39
.
In alcune sentenze la diversità in appello della “causa del domandare”, rispetto a quella di primo grado,
non veniva considerata sufficiente per potersi parlare di domanda nuova, essendo anche richiesto che
l’oggetto del giudizio fosse assolutamente diverso, in modo che non ci fosse un’«intima connessione»
con la domanda proposta in prime cure
40
. La tendenza delle varie Corti di Cassazione era quella di
ritenere inammissibili quelle domande che ampliavano i limiti della lite così come proposta in primo
grado e che avevano ad oggetto il conseguimento di una cosa diversa da quella per la quale era stata
35
CARNELUTTI, ibid.
36
MORTARA, Commentario del codice e delle leggi di procedura civile, cit., 444 ss. L’Autore non riteneva fondato
l’orientamento che considerava domanda nuova quella rispetto alla quale l’applicazione degli elementi della regiudicata,
dedotti dalla sentenza di primo grado, non sarebbe perfetta. Mortara affermava che, benché la diversità delle persone e della
cosa domandata fossero decisivi per la novità della domanda, non è pacifico che la domanda sia da considerarsi nuova in
appello solo perché ne venga mutata la causa. L’autorità della regiudicata e il divieto di nuove domande non rispondono ad
un identico principio: nella prima, operando in relazione ad un processo irrevocabilmente chiuso e ad uno nuovamente
aperto, la causa petendi posta a base della precedente decisione non preclude l’esame di un’altra causa in virtù della quale la
domanda potrebbe risultare giustificata; con il giudizio d’appellazione il processo si riapre e prosegue quello chiuso con la
sentenza di primo grado e non sembra quindi lecito negare l’introduzione di nuovi elementi, che avrebbero potuto essere
trattati nel primo grado di giudizio.
37
Cass. Torino, 14 dicembre 1888, in Foro it. 1889, I, 628. In senso analogo si possono vedere: Cass. Firenze, 22 dicembre
1890, id., Rep. 1891, voce Appello civ., n. 202; Cass. Firenze, 23 giugno 1892, id., Rep. 1892, voce cit., n. 229 e 230, in cui
la Corte precisava che, se l’attore ampliava in seconde cure il fondamento della propria domanda, senza però modificarne la
sostanza, non si poteva parlare di domanda nuova, in quanto restava immutata la causa del domandare; Cass. Torino, 17
febbraio 1899, ibid. n. 215; Cass. Napoli, 18 aprile 1904, id., Rep. 1904, voce cit., n. 214, che considerava domande nuove
quelle di cui non vi fosse traccia nel primo giudizio e che mutavano la causa petendi. gennaio 1899, id., Rep. 1899, voce
cit., n. 211; Cass. Torino, 15
38
Cass. Firenze, 5 maggio 1890, in Foro it., Rep. 1890, voce cit., n. 130.
39
Cass. Torino, 23 aprile 1896, id., Rep. 1896, voce cit., n. 239.
40
Cass. Roma, 17 aprile 1899, id., Rep. 1899, voce cit., n. 235.
14
precedentemente proposta l’azione
41
. Mortara metteva in evidenza come di regola fosse lecito in
appello mutare la causa su cui si fondava la domanda, fatta eccezione per l’ipotesi in cui il mutamento
della causa introducesse un mutamento obiettivo della finalità della domanda
42
.
La causa petendi era da intendersi come il titolo su cui si fonda la domanda giudiziale, e non andava
confusa con il motivo o l’argomento di difesa della parte, che poteva essere molteplice e svilupparsi in
appello nel modo più vario
43
. Se quindi, senza mutare la cosa domandata né il fatto da cui derivava il
rapporto giuridico oggetto della controversia, si dava semplicemente a quest’ultimo una diversa
definizione e si invocavano disposizioni di legge diverse da quelle invocate in primo grado, non si
proponeva una domanda nuova, in quanto tutto ciò rientrava nel sistema di difesa che poteva essere
modificato in appello con l’addurre nuovi argomenti a sostegno della domanda originaria
44
.
La giurisprudenza, nell’esame dell’ammissibilità o meno della domanda, distingueva la causa petendi
dalla ratio petendi (o ratio petitionis), la quale ultima era modificabile in appello, perché non costituiva
domanda nuova
45
: non era interdetto aggiungere nel secondo procedimento nuove ragioni di diritto a
quelle proposte in primo grado, per l’accoglimento della domanda
46
. La domanda costituiva il limite
delle questioni che il giudice poteva risolvere, quindi perché una questione potesse essere oggetto
dell’esame del giudice d’appello era decisivo non il fatto che una questione fosse stata trattata dalle
parti e risolta dal primo giudice, ma che potesse essere trattata e risolta per il solo fatto di essere
compresa nella domanda. Da ciò la compatibilità con il divieto di domande nuove dell’ammissione di
ragioni non proposte al primo giudice
47
. Qualunque ragione, anche se non proposta nel precedente
giudizio, purché rientrasse nella domanda di primo grado, poteva essere proposta al giudice d’appello
48
.
L’art. 490 avrebbe ostacolato in ogni caso il mutamento della causa petendi e quello della ratio petendi
solo in caso di processo di primo grado “parziale”, qualora la nuova “ragione” non fosse stata compresa
nei limiti della domanda originaria
49
. La nuova ragione era ammessa anche se fondata su un fatto
posteriore alla sentenza impugnata
50
. Nelle ipotesi in cui la domanda proposta davanti al giudice
d’appello, sebbene diversa nella forma e in alcune modalità, rientrava comunque nell’orbita di quanto
dedotto nel giudizio di primo grado, tale domanda non era da considerarsi nuova ed era quindi
proponibile per la prima volta in appello
51
. Sostanzialmente, a giudizio delle Corti di Cassazione, le
Corti d’appello avrebbero dovuto rigettare d’ufficio quelle domande che comportavano l’introduzione
41
Cass. Palermo, 13 maggio 1902, id., Rep. 1902, voce cit., n. 197.
42
MORTARA, Commentario del codice e delle leggi di procedura civile, cit., 449.
43
Appello Catania, 28 giugno 1897, in Foro it., 1897, 1351; Cass. Firenze, 8 aprile 1898 id., Rep.
1898, voce Appello civ., n. 280.
44
Cass. Roma, 22 febbraio 1888, id., Rep. 1888, voce cit., n. 173; Cass. Torino, 4 luglio 1893, id., Rep. 1893 voce cit., n.
226; Cass. Palermo, 2 settembre 1893, ibid, n. 216 ;App. Firenze, 16 giugno 1903, in Foro it., Rep. 1903, voce cit., nn. 198
e 199.
45
Cass. Napoli, 10 marzo 1904, id., Rep. 1904, voce cit., n. 230.
46
Cass. Firenze, 19 luglio 1886, id., Rep. 1886, voce cit., n. 242. Cass. Torino, 18 maggio 1901, id., Rep. 1901, voce cit., n.
203; Cass. Palermo, 13 maggio 1902, id., Rep. 1902, voce cit., n. 198. Cass. Regno, 16 maggio 1924, id., Rep. 1924, voce
cit., n. 187.
47
CARNELUTTI, Sistema del diritto processuale civile, cit., 629.
48
Si può fare l’esempio dell’attore che chieda la dichiarazione di nullità di un contratto, facendo valere in primo grado un
vizio del consenso e, invece, in appello, l’illiceità della causa. Qualora invece l’attore avesse chiesto la risoluzione del
contratto, non potrebbe, in appello, chiedere che lo stesso sia dichiarato nullo.
49
CARNELUTTI, Sistema del diritto processuale civile, cit., 630.
50
CARNELUTTI, ibid., ricavava questa regola dal principio di economia, per cui i fatti relativi alla lite, i quali avvengono
durante il processo, possono essere considerati dal giudice per la sua decisione.
51
Cass. Torino, 8 aprile 1893, in Foro it., Rep. 1893, voce Appello civile, n. 217; in senso analogo anche Cass. Palermo, 7
giugno 1894, id., Rep. 1894, voce cit., nn. 249 e 250, in cui si definisce domanda ammissibile in appello, perché non nuova,
quella che, senza mutare la causa petendi, venga dedotta a sostegno dell’azione e dell’eccezione già contestata, per ragioni
diverse da quelle fatte valere in primo grado.
15
nel giudizio di un’azione diversa o ulteriore rispetto a quella contestata in prime cure o di un’estensione
della medesima. Qualora invece in appello la domanda si fosse limitata a determinare e a specificare
meglio quella proposta in prima istanza, il giudice dell’impugnazione avrebbe dovuto ritenerla
ammissibile. Al contrario, la mera restrizione della domanda da parte dell’attore non costituiva
domanda nuova improponibile per la prima volta in appello, «perché nel più sta il meno»
52
. In molte
sentenze che affrontavano il tema della novità della domanda in appello, i giudici facevano riferimento
alla possibilità che una questione, pur non dibattuta e decisa in prima istanza, fosse “virtualmente”
insita
nell’azione di primo grado, cioè già dedotta re ipsa con quest’ultima
53
: in quest’ipotesi la domanda non
era considerata nuova ed era pertanto ammissibile se proposta per la prima volta in appello.
A partire dagli anni ’30 la giurisprudenza introdusse il criterio dell’assorbimento, per stabilire se una
domanda fosse nuova e quindi improponibile in appello: secondo questo criterio, non si aveva domanda
nuova quando la mutazione processuale, operatasi in grado d’appello, manteneva, dal punto di vista
oggettivo, l’azione un uno stato tale che il giudizio poi pronunciato in base ad essa assorbiva e rendeva
improponibile ulteriormente anche la precedente pretesa
54
. In una tale ipotesi la domanda non era
nuova in quanto la sentenza pronunciata in appello assorbiva la questione discussa in primo grado e
costituiva giudicato che precludeva ogni ulteriore disputa intorno ad essa, privando così l’attore di un
grado di giurisdizione. Se questo effetto non si verificava, la deduzione in appello della nuova causa
dava luogo ad una «duplicazione di lite o di azione»
55
e cadeva sotto il divieto posto dall’art. 490 c.p.c.
Il concetto di assorbimento di questioni collegate alla causa dedotta in primo grado all’interno della
nuova causa introdotta in appello, era diverso dalla nozione di regiudicata: il giudice d’appello doveva
stabilire se le questioni esaminate dal giudice di primo grado, come mezzi a sostegno della stessa
pretesa fatta valere in appello, non sarebbero poi state ulteriormente proponibili con una successiva
azione in un altro processo. Si trattava quindi di stabilire se il passaggio in giudicato della sentenza
appellata sarebbe stato di ostacolo a che la domanda originaria venisse proposta ex novo
56
. Questo
effetto di preclusione e assorbimento non apparteneva propriamente alla sfera di operatività
dell’autorità della cosa giudicata, in quanto non si trattava di vedere se il giudice d’appello avrebbe
esaminato le stesse questioni risolte da quello di primo grado.
Un’apertura della giurisprudenza verso l’ammissibilità del mutamento della causa petendi in appello,
senza incorrere nel divieto di nuove domande, si verificò a partire dagli anni ’20. Le Corti di
Cassazione iniziarono a non considerare domande nuove quelle che importavano il cambiamento della
causa petendi nei casi in cui rimanevano nonostante ciò inalterati le finalità e l’oggetto della domanda
originaria
57
, o nei casi in cui la nuova domanda si compenetrava nella sostanza del fatto giuridico e del
titolo dedotto all’inizio della lite, a sostegno della pretesa fatta valere in giudizio
58
. Non era considerata
domanda nuova quella che, pur essendo basata su una diversa causa petendi, manteneva inalterato il
52
Cass. Regno, 26 maggio 1924, in Foro it., Rep. 1924, voce cit., n. 188. In senso analogo anche Cass. Torino, 21 dicembre
1888, id., Rep. 1888, voce cit., n. 154.
53
Cass. Torino, 17 settembre 1881, id., Rep. 1881, voce cit., n. 287; App. Roma, 21 giugno 1912, id., Rep. 1912, voce cit.,
n. 188; Cass. Regno, 27 maggio 1940, id., Rep. 1940, voce cit., n. 196.
54
Cass. Regno, 5 dicembre 1933, in Giur.it., 1934, I, 71; Cass. Regno, 23 febbraio 1937 in, Foro it., Rep. 1937, voce
Appello civile., n. 348; Cass. Regno, 10 maggio 1938, id., Rep. 1938, voce cit., n. 297; Cass. Regno, 15 aprile 1940, id.,
Rep. 1940, voce cit., n. 198.
55
MORTARA, Commentario del codice e delle leggi di procedura civile, cit., 448.
56
Cass. Torino, 1 giugno 1920, in Foro it., Rep. 1920, voce Appello civ., n. 80, definisce domanda nuova improponibile in
appello quella che non sarebbe pregiudicata dal passaggio in giudicato della sentenza di primo grado.
57
Cass. Regno, 31 marzo 1924, in Foro it., 1924, I, 545.
58
Cass. Regno, 30 maggio 1924, id., Rep. 1924, voce Appello civ., n. 179.
16
petitum
59
: anche in questo caso la disposizione dell’art. 490 era intesa nel senso che il petitum non
potesse essere aumentato o esteso, ma non nel senso che non potesse essere ristretto o limitato in modo
da renderlo di più modeste proporzioni
60
.
Per verificare se la mutata causa petendi presentasse i caratteri della nuova domanda, la giurisprudenza
andava in alcuni casi a rivedere se l’attore avesse in prima istanza determinato la causa petendi in
modo specifico o in modo generico: nella prima ipotesi qualsiasi mutamento della causa petendi poteva
comportare una domanda nuova e la violazione del principio del doppio grado di giurisdizione,
uscendo dall’ambito delle questioni affrontate dal primo giudice; il che non accadeva nell’ipotesi di
causa petendi generica in primo grado, che consentiva in appello di aggiungere o sostituire un nuovo
fondamento alla domanda, risultando quest’ultimo virtualmente compreso nell’oggetto del giudizio di
prima istanza
61
La soluzione favorevole all’introduzione in appello di una nuova causa petendi trovava base nella
concezione del giudizio di secondo grado come continuazione del primo grado: di conseguenza tutto
quanto poteva servire al semplice svolgimento del diritto fatto valere in prima istanza doveva essere
ammesso
62
.
Domanda nuova in appello sussisteva anche qualora nel giudizio di primo grado non si fosse discusso
sull’an debeatur, ma solo sul quantum: in tal caso non poteva sollevarsi in appello la questione
sull’obbligo di dare
63
; l’ipotesi inversa invece non poneva problemi di ammissibilità.
Dal punto di vista pratico la giurisprudenza elaborò un ulteriore criterio, che
apriva le porte alle domande in appello: infatti non venivano considerate nuove, ed erano quindi
proponibili per la prima volta in seconda istanza, le domande che si limitavano a rigettare totalmente o
a limitare le richieste avversarie
64
. Quello che era consentito in appello era quindi dare al diritto dedotto
in giudizio una migliore base (anche attraverso una nuova causa petendi), ma non introdurre una nuova
pretesa, che, dal punto di vista degli obiettivi, fosse diversa da quella trattata davanti ai primi giudici Se
la nuova domanda si risolveva solo in un mezzo di difesa che si contrapponeva alle deduzioni fatte dal
convenuto, essa non poteva in sostanza modificare i confini della controversia e snaturare quindi
l’indole dell’azione intentata originariamente
65
.
Fra le domande nuove vietate in appello rientravano anche quelle riconvenzionali e quelle di garanzia:
tali domande, anche se derivate dalle esigenze di difesa del convenuto, avevano carattere di azioni
autonome
66
.
59
Cass. Regno, 11 luglio 1928 id., Rep. 1928, voce cit., n.272; Cass. Regno, 19 maggio 193, (id., Rep. 1931, voce cit., n.
196; Cass, Regno, 25 maggio 1931, ibid., n. 206; Cass. Regno, 4 dicembre 1931,ibid., n. 207.
60
Cass. Regno, 29 novembre 1930, Foro it., Rep. 1930 voce cit., n. 180; Cass. Regno, 18 novembre 1933, id., Rep. 1933,
voce cit., n. 182; Cass. Regno, 10 gennaio 1938, id., Rep. 1938, voce cit., n. 312; Cass. Regno, 10 maggio 1940, id., Rep.
1940, voce cit., n. 192, che restringe la possibilità di mutamento del petitum in appello all’ipotesi in cui ciò non comporti
una trasformazione delle finalità della domanda.
61
Cass. Roma, 22 maggio 1907, in Foro it., 1907, I, 940.
62
La facoltà dell’appellante di mutare la causa petendi realizzerebbe inoltre un maggiore equilibrio rispetto alla posizione
dell’appellato, che può trasformare la causa defendendi con la proposizione di nuove eccezioni.
63
Cass. Roma 6 febbraio 1909, in Foro it., Rep. 1909, voce Appello civ., n. 172.
64
App. Venezia, 25 luglio 1912, id., Rep. 1912, voce cit., n. 185; App. Bologna, 14 luglio 1933, id., Rep. 1934, voce cit., n.
330.
65
Cass. Roma, 22 maggio 1907, in Foro it., 1907, I, 939 ss.
66
Cass. Regno, 7 marzo 1928, id., Rep. 1928 voce Appello civ., n. 275; Cass. Regno, 29 luglio 1932, id., Rep. 1932, voce
cit., n. 259; Cass. Regno, 28 novembre 1932, id., Rep. 1932, voce cit., nn. 260 e 261, in cui si ricorda che, invece, le
eccezioni riconvenzionali possono essere proposte per la prima volta in appello; sull’improponibilità in appello della
chiamata in garanzia diretta contro i terzi per il rilievo delle conseguenze della lite, si vedano Cass. Torino, 9 luglio 1898,
id., Rep. 1898, voce cit., n. 274bis; Cass. Regno, 28 febbraio 1931, id., Rep. 1931, voce cit., n. 223; A. Brescia, 21 dicembre
1934, id., Rep. 1934, voce cit., n. 387.
17