11
Dopo aver tracciato un rapido profilo stilistico degli scrittori della biblioteca
ercolanese, ho proceduto a una sommaria indagine dello stile filodemeo. In
particolare, ho passato in rassegna il trattamento dello iato da parte di Filodemo,
sia vero e proprio sia ammesso, la sua occorrenza in relazione alle fonti
dell’autore e i modi per evitarlo.
In secondo luogo ho riportato i risultati di un’indagine sistematica condotta
sulla base delle edizioni più attendibili e verificando sugli originali i luoghi dubbi,
degli scritti di biografia filosofica di Filodemo, ho classificato le varie tipologie di
iato, con commenti e puntualizzazioni sul contesto, facendo precedere l’esame dei
singoli papiri da una breve introduzione contenente notizie tecniche sullo
svolgimento, sullo stato di conservazione, sui dati paleografici, sugli elementi di
datazione, sul loro contenuto, sugli studi e le pubblicazioni di coloro che se ne
sono occupati.
12
1. Generalità sul fenomeno
Lo iato è una giustapposizione diretta di vocali in due parole adiacenti
4
: il
latino hiatus significa apertura, e infatti quando esso ha luogo si è obbligati a una
lunga apertura della bocca; implica una pronuncia con due emissioni di fiato
(xasmwdi/a in Eustazio, xai/nein in Ermogene), che causano una durezza nella
dizione (su/mplhcij, su/gkrousij in Demostene; sumbolh/ in Peri\ e(rmhnei/aj
68), trattandosi di due vocali, o di due dittonghi, o di vocale e dittongo
5
, che
formano due sillabe distinte e si verifica con:
a) due vocali forti;
b) una vocale fievole seguita da una forte;
c) due vocali fievoli (iu).
Si sono occupati di tale argomento, tra gli altri, Cicerone
6
e più tardi, con
maggiore profondità, Quintiliano
7
, che ne distingue diverse gradazioni.
4
REEVE, p. 515.
5
KÜHNER, pp. 190, 197 s.; SCHWYZER, pp. 399 s.
6
Orat. XLIV 150: “Come l’occhio nel leggere, così la mente nel parlare, bada al vocabolo che
segue, in modo che l’incontro delle finali delle parole con le iniziali di quelle seguenti non produca
suoni aspri o iati. Sebbene, infatti, i concetti siano piacevoli e importanti, se sono espresse con
parole mal disposte, offenderanno le orecchie, il giudizio delle quali è severissimo. E in questo la
lingua latina è talmente rigorosa, che non incontri un uomo così grossolano, che non voglia legare
le vocali”; Ibid. XXIV 77: “(scil. Il nostro oratore) Non si dia pensiero di legare strettamente le
parole tra loro. Infatti, quel cosiddetto iato, cioè incontro di vocali, ha in sé un certo abbandono,
indizio di una trascuratezza stilistica tutt’altro che spiacevole, perché propria di un uomo, che bada
più ai concetti che alle parole”.
7
Inst. IX 4, 33 s.: “incontro di vocali che quando si verifica, forma uno iato, si interrompe e si
affatica, per così dire, il discorso. Malissimo suoneranno le lunghe, che congiungono tra loro le
stesse lettere, tuttavia, sarà particolare lo iato di quelle che sono emesse con la bocca molto aperta
e incavata. E è una lettera più aperta, I più chiusa e perciò più nascosta in queste è l’irregolarità.
Meno sbaglierà chi farà seguire le brevi alle lunghe e anteporrà la breve alla lunga. Tra due brevi è
minimo l’urto; e quando le une seguono le altre, allo stesso modo saranno più aspre, secondo che
saranno pronunciate con una conformazione della bocca, simile o diversa”; Ibid. IX 4, 35:
“Tuttavia, lo iato non si deve temere come un grave errore e non so se, nei suoi confronti, sia
peggiore la trascuratezza o la sollecitudine, infatti, è necessario che questa paura freni il calore
della parola e l’allontani dai migliori, perché come parte di negligenza tollera questo, così
dovunque teme uno stile umile, che in maniera non indegna pensano tutti i seguaci di Isocrate e
principalmente Teopompo” (cf. Plut., De glor. Athen. 350 E).
13
Per Benseler
8
non tutti gli incontri di vocali sono iati: al contrario di come
pensava Demetrio (così Strathmann
9
), quelli all’interno di uno stesso termine non
lo sono.
Poiché nell’antichità il verso era scritto senza elisioni, ciò che era giustapposto
nella prosa era diverso dal modo in cui l’autore l’aveva scritto, secondo l’opinione
dei filologi moderni: queste considerazioni riguardano non solo la poesia, ma
anche la prosa ritmica.
In senso stretto, dovrebbe essere considerato iato ogni incontro vocalico con i
caratteri sopra descritti, ma tutti i romanzieri
10
ammettono liberamente lo iato
dopo kai/ e l’articolo, prima di de/, e fra due proposizioni. Nel valutare la
tolleranza dello iato da parte di un autore, va stabilito dove occorrano le pause e
quanto forti debbano essere per ammettere lo iato, il quale può essere un’utile
indicazione di pausa, quando uno scrittore di solito lo evita, anche se devono
avere la priorità altri metodi per collocare le pause, quali ritmo, ordine delle
parole, modello delle lingue moderne e relitti di punteggiatura antica. Le pause si
segnano abitualmente:
I. prima di a)lla/, h1, ou)de/, del secondo ou1te o ei1te, di me/n, de/,
vocativo, clausole avverbiali o nominali, frasi participiali, clausole
epesegetiche, proposizioni relative, w3ste e infinito, discorso diretto, e1fh
(infatti, l’aferesi dell’aumento è rara e spesso sospetta);
II. dopo vocativo, clausole avverbiali, frasi participiali, clausole
parentetiche ed epesegetiche, e1fh.
8
BENSELER, p. 5.
9
STRATHMANN, p. 3.
10
REEVE, p. 516.
14
2. Rifiuto dello iato
L’orecchio dei Greci era molto più sensibile
11
del nostro al ritmo e allo iato ed
era infastidito da molti fenomeni
12
, perciò, per conseguire l’eufonia si tende, fin
dagli Inni Omerici, ad evitare lo iato mediante:
1) elisione (e1kqliyij, ‘espulsione’): eliminazione non obbligatoria
13
di una vocale breve (tranne u e dativo plurale in -si) alla fine di una parola
seguita da un’altra parola iniziante per vocale o per dittongo (rara in prosa,
l’elisione più frequente del dittongo è quella di –ai nella commedia attica e
nella prosa tarda, quando dall’accento si deduce che è breve, tranne
nell’ottativo aoristo
14
): non si verifica mai l’elisione di a e o nei monosillabi,
né quella di i in peri/, me/xri, a1xri, o3ti, ti, ti/; il suo segno distintivo è
l’apostrofo. Se una consonante tenue viene in contatto con una vocale aspirata,
questa a sua volta diviene aspirata. Tale fenomeno è più frequente con
congiunzioni, avverbi, preposizioni. Se la vocale da elidere non ha l’accento,
l’accentazione non cambia, se ha l’accento, questo (sempre acuto) si sposta
sulla sillaba precedente, invece si perde nelle preposizioni, nelle congiunzioni
e nelle enclitiche tina e pote.
2) aferesi o elisio inversa
15
(a)fai/resij ‘asportazione’): eliminazione
non obbligatoria di una vocale breve all’inizio di una parola preceduta da
un’altra terminante in vocale lunga o dittongo; il segno distintivo è
l’apostrofo.
11
DENNISTON, pp. 80, 83, 192; cf. STRATHMANN, pp. 3 s.
12
Cf. Ad Herenn. IV 12, 18 “ la composizione è la costruzione delle parole, che rende tutte le
parti del discorso uniformemente perfette”; Cic., Orat. 151 “Demostene il più delle volte evita
l’incontro di vocali come difettoso”; Dion. Halic., De comp. verb. 5 “gli antichi sia poeti, sia
prosatori, sia filosofi, sia retori avevano una notevole attenzione per questo aspetto e pensavano
che non fosse conveniente congiungere né i nomi ai nomi, né i cola ai cola, né un periodo ad un
altro. Vi era presso di loro una tecnica e dei precetti, servendosi dei quali, componevano bene.”,
Ibid. 23 “credo che in tutto l’Areopagitico, nessuno potrebbe trovare uno scontro di vocali”;
Quint., Inst. IX 4, 36 “ma Demostene e Cicerone hanno rivolto l’attenzione a questo aspetto
pazientemente”.
13
KÜHNER, pp. 230- 239; SCHWYZER, pp. 402 s.
14
AHRENS, pp. 1 s.
15
Cf. SCHWYZER, p. 403; KÜHNER, pp. 240- 242.
15
3) sinizesi
16
(condensazione): incontro di due vocali che dovrebbero
formare iato, ma che eccezionalmente sono considerate come una sillaba unica
o dittongo; sineresi: unione di due vocali tra loro contigue in un dittongo;
contrazione: fusione di vocali all’interno di una parola, senza segni distintivi.
4) crasi
17
(kra=sij ‘fusione’): rara e non obbligatoria, è una forma
particolare di contrazione, una fusione, tra due parole che si susseguono, di
due vocali forti o dittonghi in una vocale lunga o dittongo. Nasce nella lingua
della poesia e occorre se la prima parola è una forma dell’articolo o del
pronome relativo, o del relativo - indefinito, terminante in vocale o dittongo,
se è kai/, w], e)gw/, una congiunzione o una particella. Risponde a leggi poco
rigorose, che non sempre coincidono con quelle della contrazione; l’accento
della prima parola nella crasi va perduto, mentre si conserva inalterato quello
della seconda: se essa ne è priva, lo sarà anche la parola risultante, a meno che
non sia un’enclitica. Il suo segno è la coronide, simile allo spirito dolce,
collocata sul fonema risultante: se il primo elemento ha lo spirito aspro, si
segna lo spirito aspro, se esso compare sul secondo elemento, può non esservi
coronide, ma si aspira l’ultima consonante tenue della parola precedente,
tranne eccezioni come to\ e#neka < tou1neka.
5) modifica dell’ordine delle parole (anastrofe, iperbato, chiasmo,
posposizione di congiunzioni) dovuta alla libertà di collocazione propria del
greco
18
, tranne per sintagmi e particelle linguistiche che esigono un posto fisso
(articolo, congiunzioni, preposizioni, avverbi), per cui si usano i mezzi
suddetti;
6) paragoge (paragwgh/, cioè aggiunta eufonica): nella prosa e nella
poesia esistono consonanti mobili
19
, cioè di uso non obbligatorio, che possono
essere finali, se le parole in questione sono seguite da parole inizianti per
vocale (-n, -j, -k), ad esempio ou)k e ou)x vs ou), a1xrij vs a1xri, me/xrij vs
me/xri (casi particolari sono: -j di e)c davanti alle vocali, invece di e)k, e –i
16
SCHWYZER, p. 400; KÜHNER, p. 228.
17
SCHWYZER, pp. 401 s.; KÜHNER, pp. 218- 226.
18
KÜHNER, p. 190.
19
SCHWYZER, pp. 404- 406; KÜHNER, pp. 292 ss.
16
rafforzativo dei pronomi dimostrativi); iniziali, se sono precedute da parole
terminanti in vocale (mh/keti vs ou1keti, me/xri vs a1xri).
7) n efelcistico (e)felkustiko/n)
20
nel dativo plurale in –si, alla III
persona plurale dei verbi in –w, alla III persona singolare di imperfetto,
aoristo e perfetto, alla III persona singolare dei verbi in –mi, con i suffissi -qe
e –fi, alcune forme dei pronomi personali, particella modale ke, ecc.
8) ge e altre particelle;
9) forme alternative di pronomi, verbi (con protesi ad esempio e)qe/lw
vs qe/lw), congiunzioni, ecc.
Progressivamente, nel tempo aumenta il rifiuto dello iato, anche se storiografi
di V a. C, come Erodoto e Tucidide, non se ne curano, e così lo stoico Crisippo,
dal momento che gli Stoici pensavano che non si dovesse scrivere in maniera
elegante, ma bene e in modo veritiero, con parole corrispondenti ai fatti
21
.
Demostene
22
tiene conto sempre del principio dell’eliminazione dello iato
23
nella
prima fase della sua attività fino all’orazione Per la corona, seguendo soprattutto
l’insegnamento isocrateo, usando solo iati eliminabili con elisioni o iati ammessi
con particelle e congiunzioni; dal primo discorso Contro Afobo presenta anche iati
ingiustificabili, dunque vi sono differenze di elaborazione nei discorsi privati, che
non sempre sono perfettamente accurati; nelle fasi successive vi è severità nei
confronti dello iato, ammesso solo a fine colonna, nelle pause (come alla fine dei
versi nei dialoghi drammatici), dove non è percepibile, e con parole
monosillabiche, come si riscontra anche negli scritti tardi di Platone.
Negli scritti antichi è indifferente se le elisioni siano registrate esplicitamente o
meno ed è sbagliato che gli editori, in base all’autorità della singola grafia,
integrino iati non ammessi, anche presupponendo pause. Gli eventuali iati sono
eliminabili anche con crasi e aferesi, al fine di evitare nella prosa d’arte iati non
ammessi, alla presenza di parole plurisillabiche di senso pieno.
La legge dello iato nei tempi più antichi non è indipendente dalle regole della
prosa ritmica. Nei diversi rappresentanti della prosa d’arte, tuttavia non vi è
20
SCHWYZER, pp. 405 s.
21
STRATHMANN, p. 6.
22
BLASS, pp.100- 105; KÜHNER, pp. 199 s.
23
BENSELER, pp. 62- 167.
17
uniformità riguardo all’applicazione dei princìpi: per esempio in Demostene, a
differenza che in Isocrate, non tutte le vocali e le parole si possono elidere. Nei
vari discorsi non si riscontrano strutture e parti del tutto simili (composizione
mista), ma Demostene evita lo iato pieno, se non nella prima stesura, almeno in
quella definitiva, perciò molti discorsi possono essere giudicati spuri.
La legge dello iato ha origine nella prosa attica del IV a. C. con Trasimaco
Calcedonio, sul modello della poesia
24
(infatti, Gorgia, il fondatore della retorica,
non se ne preoccupa). Iseo è abbastanza severo, e così anche Eschine, mentre
Licurgo, Dinarco e Iperide non evitano rigorosamente lo iato. Eforo e Teopompo,
di scuola isocratica, evitano lo iato, come poi Senofonte. Platone nella prima
produzione non ne ha alcun rispetto, poi applica le regole della nuova prosa
d’arte. Aristotele è severo soprattutto nei dialoghi, come poi Teofrasto e Polibio,
Plutarco, Diodoro Siculo, al contrario di Arriano e Luciano, mentre Appiano
segue una prassi intermedia.
Secondo Demetrio
25
, Isocrate e i suoi fautori prestavano cura meticolosa
all’eliminazione degli iati, altri procedevano a caso, mentre i Peripatetici
adottavano una via di mezzo, come Demetrio. La presenza di molti iati in Omero
condusse i critici Stoici a peripezie per giustificarli, sebbene alcuni fossero legati
alla caduta del digamma (e del sigma) nella tradizione grafica, soprattutto in
ionico e attico
26
. La posizione di Demetrio non è costante
27
: dapprima (§ 68)
moderato, sulle orme dei Peripatetici, quando attacca Isocrate, poi (§ 69) si
abbandona a un autentico elogio delle virtù musicali dello iato in cui vi sono tratti
e terminologia nettamente Stoici. Lo scrittore sembra cosciente di questa
contraddizione, che si ripresenta nella trattazione della caratterizzazione sonora
dello iato: sostiene, infatti, da una parte, che è troppo rumoroso (h)xwdh/j), fattore
di dispersione (dia/rriyij) e disordine (diaspasmo/j) dell’emissione sonora (§
68), dall’altra, che può essere lodato per la sua eufonia (§ 69), soprattutto se è
all’interno della stessa parola. Perciò la poesia (§ 70) preferisce forme non
contratte, proprie di Omero, sommo poeta, in cui lo iato e la crasi sono
24
KÜHNER, pp. 198 ss.; STRATHMANN, p. 4.
25
Peri\ e(rmhnei/aj 68.
26
Cf. SCHWYZER, p. 399; KÜHNER, p. 190.
27
CHIRON, pp. LXXXIV s.
18
intenzionali per prolungare l’ampiezza del verso e aggiungere me/lisma al canto (§
74). Molti sono gli esempi da citare, nei quali la sinalefe renderebbe il verso
triviale. Anche i sacerdoti egizi (§ 71) negli inni agli dei fanno risuonare di
seguito le sette vocali. Dunque, per Demetrio lo iato non è così cacofonico come
si dice, ha capacità mimetiche (§ 72), ha un carattere rude e austero (cf. Tucidide),
degno del genere epico: se si vuole garantire ad ogni costo la continuità delle
lettere, la composizione (su/nqesij) sarà più levigata (leiote/ra), ma anche
privata della bellezza sonora derivante dallo iato. Proprio dello stile grandioso (§
73) è lo iato tra dittonghi, tra vocali lunghe identiche; notevole è anche lo iato di
vocali diverse che produce varietà di suoni.
Oltre agli iati che si possono evitare con crasi e inversioni, ce ne sono alcuni
che non infastidiscono, altri giustificabili con pause, altri ancora che a quanto pare
non si possono evitare. Formano spesso iato, per esempio, ti, o3ti, peri/, a1n.
Benseler fa notare che i Greci erano soliti unire a1n nella pronuncia alla parola
precedente.
Si deve elidere davanti a vocale:
a nelle preposizioni (dia&, kata&), nelle particelle (a)lla/, e1peita,
i3na), nelle desinenze dei neutri plurali e degli accusativi singolari, nelle
terminazioni di aoristo e perfetto (-sa, -a, -ka) e nella diatesi media (-
meqa).
e nelle particelle (de/, mhde/, ou)de/, ge, te) nel pronome e)me/, me/,
nelle uscite verbali in –te e –sqe.
i nella particella e1ti, nelle preposizioni a)nti/, e9pi/, nelle uscite
verbali in –oimi, -aimi e in e)sti/.
o in du/o, nelle desinenze del neutro dei pronomi, nelle uscite
verbali in –anto, -ainto, -ointo, –oio, -ato, -wnto, -ounto, -eto,
-onto, nelle preposizioni a)po/, u(po/. Demostene elideva anche il dittongo
finale di me/ntoi, kai/toi.
19
3. Atteggiamento stilistico degli Epicurei
Una ricerca organica e sistematica sullo stile epicureo non è ancora disponibile.
Per Usener
28
, Epicuro avrebbe adottato sulla scia di Aristotele e di altri filosofi,
un doppio criterio stilistico: prosa semplice, immediata, priva di artifici retorici
per gli u(pomnh/mata, arricchita da tradizionali ornamenti retorici negli scritti
destinati al grosso pubblico, specialmente quelli in forma epistolare, che mostrano
«acutae simul et elegantis dictionis studium».
Epicuro disprezzava
29
la retorica come le altre discipline (maqh/mata):
sostenendo che la felicità (eu)daimoni/a) si raggiunge attraverso la ricerca comune
e le discussioni filosofiche, fissava come unico obiettivo degno del sapiente la
verità e insegnava ai retori a non aspirare ad altro che alla chiarezza del discorso.
Tuttavia, il filosofo riteneva la dialettica funzionale alla confutazione delle accuse
di dissidenti e avversari e a rendere persuasiva, efficace e comprensibile la sua
dottrina ai discepoli (fine divulgativo e di proselitismo, non etico): la retorica
doveva essere uno strumento puro applicabile dall’esterno, che non condiziona e
non altera metodi e risultati dell’indagine naturale
30
.
Nei resti del secondo e dell’undicesimo libro De natura si trova una certa
trascuratezza rispetto allo iato (G. Strathmann ne riporta gli esempi più gravi).
A proposito di Epicuro, Norden
31
parlava di scritti, sul piano formale, atipici e
composti consapevolmente in contrasto con i canoni linguistici e stilistici
convenzionali, tuttavia con mirabile naturalezza e struttura ritmica: i mezzi
retorici sarebbero stati espresssione del gusto innato dei Greci per l’ eu)ruqmi/a e
non di una scelta deliberata.
Wilamowitz
32
ritenne necessaria un indagine che illuminasse quel modo di
scrivere molto singolare. Jensen
33
vi ravvisava esempi di prosa ritmica.
Widmann
34
evidenziò la variatio e la struttura dicolare del periodo.
28
USENER, pp. XLI- XLII.
29
STRATHMANN, p. 7.
30
Cf. ANGELI, p. 84.
31
NORDEN, I, pp. 135 s.; cf. anche THYRESSON.
32
WILAMOWITZ, p. 40.
20
Bignone
35
giustificò l’insolita eleganza formale dell’Epistola a Meneceo con la
sua natura programmatica e competitiva di manifesto filosofico, in opposizione al
Protrettico di Aristotele; lo studioso
36
notava che, in ragione del lungo soggiorno
in Asia Minore, il filosofo indulgeva a eolismi e ionismi.
Per gli Epicurei il linguaggio era un puro strumento di comunicazione
37
: le
parole designano oggetti dell’esperienza, rendendo conto delle divisioni interne
alla struttura formale della realtà, attraverso una relazione arbitraria e
convenzionale; qualora i termini non si riferiscano specificamente a un dato
empirico, diventano ambigui e oscuri e appartengono al regno dell’opinione.
L’oscurità può essere inconsapevole se, trattando di temi difficili, non si è in
grado di dominare gli argomenti, né di padroneggiare lingua e stile. La prosa
filosofica deve evitare il linguaggio astratto e razionalistico
38
, gli elementi retorici,
atti a suscitare persuasione dell’uditore, gli arcaismi, le digressioni, le allegorie, le
immagini poetiche
39
, miranti a provocare emozioni nel lettore, le allusioni
recondite, i solecismi, alla base dell’oscurità intenzionale. Questi autori solo
sporadicamente ricorrono a similitudini, metafore
40
, xrei=ai, gnw~mai, koinoi\
to/poi ecc.
Arrighetti
41
sostiene che il filosofo non ebbe il dono della limpidezza di
pensiero e della concisione nell’esprimerlo, ma scelse con meticolosità il suo
vocabolario tecnico per non creare confusione nel lettore, all’interno di un
periodare ampio, faticoso e ricco di nessi ipotattici.
33
JENSEN, pp. 3- 6, 79.
34
WIDMANN, pp. 237- 255.
35
BIGNONE, Aristotele, I, pp. 125- 131.
36
Ibid., pp. 108 ss., 300, 426 ss.
37
DE LACY, Language, pp. 85 ss.
38
Cf. Epic., De nat. XXVIII (ed. VOGLIANO), pp. 11, 15, 16 s., 51; D. L. X 33; 37; Sext. Emp.,
Adv. Log. I 203, II 13; Id., Adv. Math. VII 203, VIII 13, VIII 264, VIII 289 s.; Philod., De poem. II
(ed. HAUSRATH), p. 224, 247; Id., De poem. V (ed. JENSEN, Philodemus), p. 5; Id., De sign., coll.
15- 17, 33- 35; Id., De mus. (ed. KEMKE), p. 97; Id., De rhet. (ed. SUDHAUS), I, pp. 63, 123, 149-
154, 159, 167 s., 170- 173, 176 s., 248, II, pp. 30 s., 41 ss.; Colot., Contr. Plat. Lys. (ed.
CROENERT, Kolotes), pp. 12, 165; Cic., De fin. I 22; 63; 71; Id., Lucull. 45; Id., Tusc. II 7; Id.,
Acad. Post. I 5; Procl., In Euclid. (ed. FRIEDLEIN), p. 199.
39
Un’eccezione è data da Lucrezio, che scrive un vero e proprio poema filosofico, risentendo
dell’influenza di Empedocle e non essendo in contatto diretto e stretto con la tradizione dottrinaria
degli epicurei viventi, nonostante la sua sconfinata ammirazione per il Maestro.
40
Cf. Cic., De nat. deor. I 59; D. L. VII 1, 35.
41
ARRIGHETTI, Epicuro, pp. XXI s.