5
Il senso della questione è tutto qui, un’unica lingua non sanerebbe i conflitti,
moltissimi esempi lo dimostrano, non permetterebbe il diffondersi della
comprensione e dell’armonia, porterebbe solo ad un accentramento del potere e
ad un conseguente calo di libertà. Questo sarà un argomento centrale della tesi.
Questa ricerca si propone di analizzare l’argomento da più punti di vista,
perché, come si capirà nel corso dei capitoli l’estinzione delle lingue non
riguarda solo l’ambito linguistico, per il quale, comunque, rappresenta una
perdita enorme. Perdere la propria lingua crea dei problemi d’identità, che
possono portare alla dissipazione di un patrimonio culturale e alla distruzione
di un popolo. Una persona che non sente di appartenere ad una qualche
comunità, farà fatica a costruire un proprio equilibrio e a dare un senso alle sue
azioni. Nelle comunità che non hanno una chiara identità, perché non parlano la
propria lingua o per altri motivi, le persone vanno incontro a molti problemi e i
più colpiti sono i bambini e gli adolescenti. L’estinzione delle lingue è un
problema ecologico ed economico, perché si inserisce nelle dinamiche che
portano al deterioramento dell’ambiente ed è connessa con i cambiamenti
portati dal cosiddetto progresso in molti sistemi economici indigeni. Inoltre
coinvolge la giurisprudenza e il diritto perché poter parlare la propria lingua è
sintomo di pluralismo e di democrazia e pluralismo.
Anche le soluzioni e i rimedi alla preoccupante situazione delle lingue in
pericolo sono oggetto di questa ricerca. Le iniziative per la salvaguardia e la
valorizzazione delle lingue sono tantissime e diverse tra loro ma hanno una
caratteristica in comune: sono percorsi difficili da intraprendere. Salvare una
lingua, specie se moribonda, è un’impresa titanica che necessita di una grande
volontà e determinazione. E’ impossibile dare conto di tutte le esperienze in
questo senso, ma attraverso alcuni esempi in questa ricerca trovano spazio
alcuni modelli significativi. Per finire l’ultimo capitolo è dedicato all’esperienza
italiana, perché anche in un paese come il nostro non si parla una lingua
soltanto, e in modo particolare ad alcune lingue alpine orientali. Ho scelto di
parlare di loro perché appartengono ad un territorio che conosco, dove ho
6
trascorso tante giornate nei fine settimana (ad esempio l’altopiano di Asiago) ed
è quasi un dovere conoscere meglio le tradizioni e la vita di questi territori.
La ricerca non pretende di essere esaustiva, sono tantissime le lingue che stanno
morendo ed ognuna ha una storia a sé, ma cerca di mettere in luce gli aspetti
più importanti per la comprensione del problema, sperando che anche questo
contributo serva a conoscere meglio una situazione d’attualità che sta
diventando davvero allarmante.
7
Capitolo primo
Le etnie
Questo primo capitolo è dedicato all’identità etnica. La lingua, come vedremo,
è uno degli elementi che formano il patrimonio culturale di una popolazione,
ma non è l’unico. La particolarità della lingua risiede però nel suo carattere
mediatico. Essa è il tramite tra un popolo e il suo mondo, lo descrive, lo
analizza, e permette il trapasso di conoscenze alle nuove generazioni. La lingua
inoltre è il tramite tra una popolazione e l’altra, permette la conoscenza
reciproca, ed è coinvolta nei rapporti di forza che esistono tra i popoli. Prima di
passare ai problemi delle lingue, vero oggetto di questo studio, ci si sofferma
quindi sulle etnie e la loro storia, la loro formazione e il loro riconoscersi come
tali. Questo ci aiuterà a capire come dietro ogni lingua ci sia un patrimonio di
conoscenze e tradizioni che non può essere sostituito se perduto.
Definire l’identità etnica
Si potrebbe pensare all’appartenenza etnica come ad una “dimensione
naturale”, propria d’ogni individuo, una realtà oggettiva, quasi “ovvia”, al
confine etnico come a una linea quasi visibile, e alla rivendicazione d’identità,
come logica conseguenza dell’esistenza stessa delle etnie.
Sappiamo, invece, conoscendo il procedimento antropologico, che ogni aspetto
della vita umana è regolato dalla cultura più che dalla natura.
Questo vale a maggior ragione per la definizione della propria identità. “Ciò
significa che per l’antropologia “appartenere” ad un determinato gruppo etnico, o
etnia, è qualcosa che perviene prima di tutto all’ordine del simbolico”
1
.
L’identità etnica, vale a dire il sentimento di appartenenza ad un’etnia, serve a
definire l’immagine di sé e/o dell’altro, l’identificazione del singolo con la
1
da Ugo Fabietti, “L’identità etnica”, Carocci 2004, Roma, pagina 14
8
propria etnia, e il sentimento che lo unisce alla sua comunità, completano la
percezione che egli ha di sé e lo aiuta a rapportarsi con l’esterno fornendogli
dei criteri per riconoscere e valutare gli “altri”.
Sempre seguendo il procedimento antropologico, non possiamo non notare che
il frutto della ricerca deve necessariamente presentarsi come una “finzione”,
un modello, poiché la trasposizione testuale non consente di descrivere che in
parte l’evento etnografico. “In tal senso in antropologia non è possibile “non
fingere”.
Come per gli altri concetti antropologici, dunque, anche l’identità etnica è una
finzione. Il suo utilizzo è, come direbbe Kant, regolativo. Essa non è un fatto
concreto (res extensa) ma un prodotto della ragione teso a rendere conto dei
fenomeni reali, e ad aiutare gli uomini ad interpretarli.
In alcuni casi, con i fanatismi religiosi e nazionalisti, questa identità perde la
sua funzione regolativa, ed acquista dignità di valore oggettivo, quando non
anche fisico, da proteggere e affermare, anche a scapito di chi non si riconosce
in essa. Quando la finzione viene presa per vera (quando cioè il “come se” si trasforma
in un “è”) cade l’uso regolativo e, al suo posto, subentra l’uso costitutivo della
finzione
2
.
Il concetto di etnia rischia quindi di diventare un dogma e non più una
convenzione con cui pensare al tempo stesso l’identità e la differenza. Il rischio
maggiore che ne deriva è una visione frammentaria della realtà umana. D’altra
parte l’identità etnica, come abbiamo detto, è un tratto importante nella
definizione dell’identità personale dell’individuo. E' composta, infatti,
dall’insieme delle rappresentazioni, dei sentimenti e delle memorie che una
persona ha di sé tanto come individuo quanto come appartenente ad una
comunità; essa consente all’individuo di realizzarsi, di diventare e restare se
stesso. La ricerca di una continuità, così fondamentale per l’identità del
singolo, si accompagna così alla ricerca dell’autenticità culturale. Secondo
Marc Augè questa ricerca dell’autentico risponderebbe “ad un sentimento di
2
da Ugo Fabietti, “L’identità etnica”, Carocci 2004, Roma, pagina 61
9
sbigottimento largamente condiviso di fronte alla spettacolare invasione del Capitale
anonimo”” (Augè, 1982, p. 126). Risponde a questa esigenza, ad esempio, la
proliferazione dei musei e degli studi sulle “tradizioni” locali- regionali- contadine che
può condurre a ravvivare particolarismi se non favorirne addirittura l’insorgenza.
3
L’ etnia appartiene ad un contesto
Come possiamo immaginare il mondo sapendo che esso contiene un’enorme
varietà etnica e culturale? Lo potremmo rappresentare come un arcipelago
d’etnie isolate che pur condividendo a volte lo stesso territorio rimangono ben
distinte. Questo modello è piuttosto semplice, ma proprio per questo pone dei
limiti notevoli. La realtà è molto diversa, e ogni identità etnica si sviluppa ed
appartiene ad un contesto più ampio e complesso e, soprattutto, è un prodotto
di relazioni contrastive (non c’è NOI senza l’ALTRO).
Il modello dell’arcipelago altera e semplifica la realtà. Esso è ispirato da un
relativismo culturale portato all’estremo.
“Il relativismo culturale è la tendenza dell’antropologia di presentare il mondo come
costituito da una pluralità di culture tra le quali non è possibile stabilire una qualche
gerarchia”
4
Il relativismo culturale è dunque un procedimento logico che sta alla base del
discorso antropologico sulla differenza. Tuttavia esso è trattato
sistematicamente e assunto a punto di riferimento solo nel secondo
dopoguerra. L’antropologo americano Melville Herskovits scrive nel 1948: “I
giudizi sono basati sull’esperienza, e l’esperienza è interpretata da ciascun individuo in
termini della sua propria inculturazione”
5
.
3
da Ugo Fabietti, “L’identità etnica”, Carocci 2004, Roma, pagina 81
4
ibidem 36
5
da Ugo Fabietti, “L’identità etnica”, Carocci 2004, Roma, pagina 36
10
Egli dava grande importanza al simbolismo del linguaggio. Riteneva che la
realtà fosse continuamente filtrata dai simbolismi dei tanti linguaggi umani,
soprattutto per quanto riguarda i valori morali. Questo punto di vista trova
giustificazione nel fatto che è appena finita la guerra contro nazismo e
fascismo, e si sente la necessità di affermare un atteggiamento di tolleranza e
comprensione per le diversità, evitando i “giudizi di valore espressi nei confronti
di ciò che non appartiene al campo della propria esperienza”
6
. Questo primo tipo di
relativismo culturale è messo in discussione dal filosofo americano David
Bidney sia da un punto di vista teorico che pratico. Secondo Bidney le diversità
di valori si sviluppano sempre da rapporti di forza tra le stesse componenti di
una data società. Questo è molto importante, anche per la comprensione della
lotta per le risorse che analizzeremo più avanti. Herskovits non tiene conto di
questo e si limita a suggerire un pieno rispetto delle diverse sensibilità, mentre
in realtà gli stati moderni cercavano di rafforzarsi con mitologie nazionaliste e
contrapponendosi tra loro.
“Come atteggiamento intellettuale il relativismo culturale fonda però teoricamente la
differenza sulla considerazione che, da premesse diverse sul piano culturale, gli uomini
traggono conclusioni culturali differenti. E questo è molto importante.”
7
Questo pur
valido ragionamento, se portato agli estremi può far pensare alle culture come
isolate e distanti tra loro e alla differenza come incomunicabile ed
intraducibile, e a portare ad un moderno tipo di razzismo che vede ogni forma
di sincretismo e di contaminazione culturale come un annacquamento e una
perdita di senso da scongiurare in ogni modo.
A questo tipo di relativismo culturale esasperato si contrappone l’intuizione di
Jean-Loup Amselle. Egli vuol sostituire una “ragione antropologica” che tende
ad “estrarre”, “purificare” e classificare per elaborare dei “tipi” secondo il
modello delle scienze naturali, una “logica meticcia”.
6
ibidem, pagina 36
7
ibidem, pagina 37
11
Questa prospettiva sviluppa una riflessione sulla differenza non a partire dalla
distinzione, ma dall’indistinzione e dal sincretismo, proprie dell’ambiente nel
quale l’etnia è inserita. Si tiene conto così anche dei prestiti e delle
contaminazioni che esistono tra le culture stesse.
Serve anche ricordare che l’identità etnica, proprio per la sua natura culturale,
è facilmente influenzabile dagli stati d’animo dell’uomo, e non è estranea agli
interessi specifici dei gruppi. Questo, come vedremo, potrà portare a lotte per
il riconoscimento che tenderanno all’esclusività, e all’invenzione di tradizioni
nuove o “resuscitate”.
Il confine e la frontiera etnica
L’esistenza di un contesto in cui si sviluppano le identità etniche porta a
confrontarsi con l’idea di confine. Ala fine degli anni sessanta, l’antropologo
sociale norvegese Fredrik Barth, si occupò proprio del ruolo del confine nella
formazione di gruppi umani.
Ormai era chiaro che le culture e le società umane non fossero isolate tra loro,
tuttavia era opinione di molti ritenere che proprio ad un isolamento geografico
o sociale fosse dovuta la differenza tra loro. Ma per Barth le distinzioni etniche
sono piuttosto dovute a sistemi sociali complessi, come ad esempio i sistemi
politici, che rappresentano le identità in modo contrastivo. Il confine persiste
nonostante gli individui possano passare da un gruppo etnico ad un altro, non
si dissolve, poiché il contatto interetnico non si conclude necessariamente con
l’assimilazione di un’etnia da parte di un'altra, e le diversità si mantengono
nonostante l’interazione. Per Barth non sono i contenuti culturali a
determinare la differenza e quindi il confine. Essi servono solamente a
rappresentare l’identità in maniera contrastiva. L’attraversamento del confine
determina un cambiamento nei modi di valutare e interpretare le azioni da
parte dell’individuo (“Qui le cose funzionano così” “Non l’avrei fatto a casa
mia, ma qui ha un altro significato”) e il confine si mantiene da solo.
12
Manca alla teoria di Barth una dimensione del confine. Esso si basa ancora
troppo sull’idea di divisione tra ambiti culturali diversi, lo si può valicare, ma
non lo si può percorrere, non ci si può stare sopra. In realtà se si parte dall’idea
che “le popolazioni umane costruiscono le loro culture nell’interazione e non
nell’isolamento” (Wolf, 1990, p. 35), non possiamo considerare l’interazione
come un processo neutro. Per meglio affrontare questo tema conviene
sostituire il concetto barthiano di confine con quello di frontiera. La frontiera,
per sua natura, ha una dimensione, è uno spazio nel quale i gruppi coinvolti
possono dare vita a processi di scambio. Certo il contatto tra culture è sempre
soggetto a rapporti di forza e di dominazione, ma spesso avvengono lo stesso
processi d’interazione che tendono ad uniformare i comportamenti dei soggetti che
vivono sulla frontiera etnica
8
, che da semplice spazio d’incontro e comunicazione
diventa un “processo interattivo”*. Da queste idee nasce l’esigenza di una
maggiore collaborazione tra le popolazioni coinvolte, per meglio affrontare i
problemi e per meglio cogliere le opportunità che si hanno in comune. Si parla
quindi di collaborazione transfrontaliera, in vari ambiti dall’agricoltura allo
sviluppo industriale, dai mezzi di comunicazione alle politiche del territorio,
anche per quanto riguarda le lingue minoritarie. Si occupano di queste
questioni organismi preposti, ad esempio, il Consorzio Alpe Adria, che
comprende: Lombardia, Trento e Bolzano, Veneto, Friuli-VeneziaGiulia (Italia),
Slovenia, Croazia e Corinzia (Austria); Mentre l’Unione Europea prevede la
costituzione di macroregioni a carattere sopranazionale.
8
da Ugo Fabietti, “L’identità etnica”, Carocci 2004, Roma, pagina 111
13
L’ importanza di dare nomi
“Le etnie si presentano innanzitutto sotto forma di nomi”
9
I nomi dicono chi siamo. Possono rivelare da dove veniamo, a quale gruppo
etnico e linguistico apparteniamo, in quale religione crediamo, addirittura
quali sono le idee politiche dei nostri genitori. Molti si ritrovano così a portare
il nome di qualche celebre personaggio della storia, o di riferimenti ad
ideologie o a eventi del passato. I nomi tradiscono l’origine di chi li porta.
Negli Stati Uniti, dove i tanti flussi migratori hanno generato comunità ampie e
stratificate, i nomi permettono di distinguersi e di affermare un’identità che si
sente ancora importante. Dopo gli anni della lotta per i diritti civili, durante la
quale passò alla storia il rifiuto di Malcom X per il cognome “Little”, che la sua
famiglia aveva acquisito tanti anni prima dai proprietari terrieri presso la quale
lavorava in schiavitù, dagli anni settanta, esplose tra gli afroamericani la moda
di inventare nomi, alla solita ricerca di un’identità propria e diversa, e
generazioni sono cresciute portandosi sulle spalle nomi stravaganti, storpiati,
immaginari quali Shaquille, Lathisha, Shamique…
Uno studio recente di un università di quelle parti, ha confermato che, spesso,
tutta questa visibilità della differenza è al servizio della discriminazione. Il
nome indica un appartenenza, è una carta d’identità che si trascina dietro tutti
gli stereotipi negativi di quel gruppo. E così, chi porta un nome arabo,
ispanico, italiano o comunque particolare e specifico, secondo le statistiche,
avrà minori opportunità in campo lavorativo od universitario, e farà più
facilmente un lavoro umile.
Ma portando il nome sbagliato si può andare incontro a discriminazioni anche
peggiori. E’ il caso della Francia, che ancora negli anni settanta rifiutava di
rilasciare certificati di nascita e carte d’identità a bambini con nomi bretoni. I
nomi possono quindi essere coinvolti in quella lotta per le risorse tra culture ed
9
da Ugo Fabietti, “L’identità etnica”, Carocci 2004, Roma, pagina 17
14
etnie. Cancellare una cultura, passando anche attraverso i nomi, consente di
cancellare pericolosi concorrenti.
Ancora più interessante è quello che succede con i nomi dei popoli. Non tutti le
comunità hanno un nome specifico, spesso adottano semplicemente i sostantivi
“popolo”, o “uomini” per definire sé stesse, e termini dispregiativi per definire
i vicini, spesso riferendosi alla loro lingua, o all’incapacità di questi di farsi
capire: i greci chiamarono barbare le popolazioni rivali o le genti delle province
della Magna Grecia per la loro pronuncia stentata, e in russo “tedesco”
significa anche muto.
La fortuna che gli appellativi hanno nella tradizione storica, dipendono, ancora
una volta, da rapporti di forza. Come la cultura tradizionale, o deviata, o
eretica, è soffocata da quella ufficiale, e non riesce a trasmettersi ai posteri, così
non sono poche le comunità etniche che sono scomparse non perché lo siano i
discendenti di coloro che le rappresentavano, quanto piuttosto in ragione che tali etnie
e culture non fanno più parte della memoria di coloro che sono in grado di costruirla e
tramandarla.
10
Si determina quindi un rapporto di dipendenza tra un “centro” e
una “periferia” che senza arrivare ad esiti estremi, può portare alcune
comunità ad entrare nella storia con appellativi che esse non riconoscono come
propri, o che hanno origine in culture a loro estranee o rivali. Può capitare che i
nomi, non indichino specificatamente l’etnia, o, in ogni caso, suggeriscano
anche altro; questo perché in certe epoche, e durante certe vicende storiche,
non è tanto importante conoscere l’origine etnica, quanto la religione o lo
status degli individui. Così ad esempio nei Balcani, durante l’occupazione
Ottomana si distingueva tra “Greci”, nel senso della religione greco-ortodossa,
e musulmani, o “Turchi”, che è in origine uno spregiativo (“bifolco”), e finisce
in Bosnia per sottendere l’appartenenza religiosa tra i convertiti. Finiscono per
essere chiamati Turchi anche i musulmani slavofoni, o addirittura i greci
convertiti all’islam. “Turco” si sostituisce al più istituzionale “ottomano”, ma
ha avuto fortuna, e oggi il paese che raccoglie l’eredità del vecchio impero si
10
da Ugo Fabietti, “L’identità etnica”, Carocci 2004, Roma, pagina 18
15
chiama appunto Turchia. Sorte simile hanno termini come “slavo”, dal latino
“sclavus” , schiavo, che da una indicazione di status, diventa un appellativo
etnico, o a “bulgaro”, che come “greco” indica l’appartenenza religiosa, tanto
che, alla creazione del Principato di Bulgaria nel 1878, si apre un grosso
dibattito sui “bulgari maomettani” che si identificano ancora come ottomani. Il
nome etnico dei valacchi, subisce la sorte inversa, e viene inizialmente
utilizzato per indicare una popolazione di lingua romanza che vive sulle
montagne, probabilmente per distinguerla dalle vicine popolazioni slavofone,
e diventa in breve un nome professionale, al posto di “pastori nomadi”,
volendo mettere in evidenza la principale occupazione di questa comunità, e in
Bosnia, dove è forte la presenza musulmana, è anche un termine per definire
gli slavi ortodossi.
E’ chiaro, quindi, come il nome sia soggetto alle interpretazioni più varie, e non
sempre “appartenga” all’etnia che rappresenta. Più spesso è frutto di rapporti
di forza, ed è parte di una “lotta per la memoria”, che vede impegnati i popoli
per conquistare un posto nella storia.
La natura dell’identità etnica ha contrapposto diversi studiosi di campi distinti.
Ci si interroga se essa nasca da un bisogno che l’uomo ha sempre sentito, o sia
da contrapporre ad un’identità di status che prevaleva nelle epoche antiche.
Tuttavia, spesso, si è posto al centro della discussione il tema del nazionalismo
e delle sue origini. La confusione tra i due temi deriva dal fatto che per molti di
questi movimenti l’idea di nazione troverebbe la propria legittimazione
nell’omogeneità “etnica” di chi ne fa parte o di chi ne aspira alla realizzazione.
16
Teorie sull’origine degli stati nazione
e dei nazionalismi
Nella seconda metà del secolo scorso, con la fine della seconda guerra
mondiale, si avviarono in varie zone del mondo processi di de-colonizzazione.
Le ex colonie rivendicavano l’indipendenza, ma anche il diritto di costituirsi
come nazioni, spesso diverse da quelle dell’età coloniale (per esempio l’India
britannica si divide in India, Pakistan e Bangladesh). E non mancano
rivendicazioni più recenti, come ad esempio Timor est, o le repubbliche
appartenenti all’Impero russo prima e all’Unione sovietica poi.
Ma che cos’è una nazione?La pretesa allo status di “nazione” è naturalmente la
pretesa all’eguaglianza di trattamento internazionale, almeno in teoria *; e di
conseguenza la pretesa di un maggior vantaggio nella spartizione delle risorse.
Ma quando un raggruppamento umano può davvero definirsi nazione? O se
non proprio una nazione almeno una comunità etnica *? Esiste una sorta di
gerarchia, in base al peso politico, od ogni pretesa di rivendicazione ha la
stessa importanza?
Verso la fine del Novecento si accende la discussione anche sulla nascita delle
nazioni in Occidente. Gli studiosi che lavorano in questo periodo, storici e
sociologi, sostengono che la nazione è una creazione del tutto moderna che ha poche
radici in epoche precedenti, se mai ve ne sono *. Mentre le generazioni precedenti
individuavano la “nazione” anche nell’antichità, considerando moderna la sola
ideologia nazionalista.
All’analisi delle diverse correnti di pensiero sull’origine delle nazioni si dedica
il sociologo Anthony D. Smith. E’ lui che sceglie di raggruppare e dare un
nome alle tante teorie che circolavano all’inizio degli anni ottanta, non
limitandosi ad elencarle, ma ricercandone i punti deboli per formulare poi una
propria teoria originale.
17
Secondo Smith la discussione su questo tema non è di poco conto, come a
qualcuno potrebbe sembrare, se è vero che migliaia di persone in tutto il
mondo darebbero la vita per la propria patria, per il riconoscimento della
propria identità etnica, e per la restituzione delle loro “terre storiche”.
Consideriamo, inoltre, che il mondo nel quale viviamo è sempre più
competitivo, e che il riconoscimento nazionale equivale spesso ad un maggior
peso politico e ad una partecipazione più attiva nella lotta per le risorse.
La prima concezione dell’identità nazionale, asserisce che i legami e i
sentimenti nazionali sono l’”essenza della storia” e un attributo universale
dell’umanità, in altre parole che sono sempre esistiti ovunque nel mondo.
Primordialisti
Per questi studiosi, il nazionalismo e il sentimento di appartenenza etnica
costituiscono i principi storici fondamentali di aggregazione degli esseri
umani.
Per la corrente sociobiologica, l’etnicità e la nazione, rappresentano una sorta
di parentela allargata, e sono quindi la via più naturale al perseguimento di
fini collettivi nella lotta per la sopravvivenza. Sono espressioni di un istinto che
accomuna tutti gli uomini, e che consiste nell’essere socievoli con chi
corrisponde alla stessa identità di gruppo, e a manifestare ostilità a chi invece
del gruppo non fa parte.
Le versioni sociologiche invece danno importanza ad una serie di principi e
vincoli considerati alla base del consorzio umano, che precedono e fondano i
più complessi sistemi politici, e che da sempre dividono l’umanità in maniera
tanto naturale quanto il sesso o le distanze geografiche. Essi sono: il
linguaggio, la religione, la razza, l’etnicità e il territorio.
La teoria dei primordialisti, in realtà, ci chiede di condividere due affermazioni
diverse tra loro. La prima è che “la nazione e il nazionalismo sono perenni” e la
seconda che “essi sono naturali”.
18
Se è vero che la loro origine istintiva ne determina la continuità nella storia,
non ne consegue che l’accettazione del loro carattere perenne ne determini la
naturalità.
Perennisti
Parte da queste considerazioni la prospettiva che Smith chiama “perennismo”,
che si contrappone al più recente “modernismo” e che, pur costruendosi sulle
sue basi, si distingue di netto dal “primordialismo” più radicale. Secondo
questa teoria, si può affermare tranquillamente che le nazioni e i nazionalismi
sono sempre presenti e si ritrovano nella storia, magari sono noti con termini
diversi, ma che descrivono fenomeni analoghi.“Date le caratteristiche degli
esseri umani, vale a dire la loro propensione ad appartenere a gruppi e ad
unità di parentela e il loro bisogno di simbolismo culturale al fine della
comunicazione e significazione, dobbiamo aspettarci che le nazioni e il
nazionalismo siano perenni e, forse, universali.”*
Hanno ragione a sottolineare il bisogno intrinseco di simboli e legami
nell’uomo, ma questi non porta necessariamente all’ideazione della nazione e
del nazionalismo. Inoltre, non si possono ridurre fenomeni riscontrati nelle
diverse epoche storiche ad embrioni della moderna identità nazionale. E’
necessaria invece una ricerca approfondita su processi sociali più ampi,
nell’analisi del percorso che legami e sentimenti culturali collettivi hanno fatto
nella storia.
Ascoltiamo, quindi, le ragioni degli storici e scienziati sociali più recenti: